CONCETTO GIURIDICO E CONCETTO BIBLICO DI "GIUSTIZIA"

Rodolfo Venditti, già magistrato e docente Università di Torino


1. Dal punto di vista giuridico, della "giustizia" diede una classica definizione Ulpiano, che visse nel III sec. d.C. e fu uno dei maggiori giureconsulti romani. Quella definizione suona così: "Justitia est constans et perpetua voluntas jus suum cuique tribuere" ("La giustizia è la ferma e costante volontà di dare a ciascuno ciò che gli spetta di diritto").

Sulla base di tale definizione, la dottrina giuridica ha distinto tra giustizia commutativa (ad es. se compro una cosa devo pagarne il prezzo), giustizia distributiva (ad es. se lo stato pone delle imposte a carico dei cittadini deve distribuire equamente i pesi, graduando l'ammontare dell'imposta in base alla capacità contributiva di ogni cittadino), giustizia retributiva (ad es. se un cittadino viola la legge penale dovrà sopportare l'inflizione della pena prevista dalla legge per quella violazione),ecc.

Il compito di amministrare quella giustizia "legale" è del giudice, al quale compete di decidere le controversie tra privati nonché di accertare se qualche reato è stato commesso e di condannare che ne risulti l'autore (1).

2. Nella Bibbia, invece, il termine "giustizia" ha un significato diverso, molto più ampio.

Intendiamoci: non è che la Bibbia rifiuti il concetto giuridico di giustizia e la figura del giudice. Anzi: nella Bibbia c'è persino un libro intitolato "Giudici", che contiene un lungo elenco di persone che rivestirono la qualifica di "giudice" (e che, a quei tempi, svolgevano anche funzione di capo politico); tra quelle persone ci sono nomi famosi, come quelli di Sansone, di Gedeone, di Iefte; e - cosa che mi sembra particolarmente interessante - c'è anche il nome di una donna, Debora, che viene ricordata proprio nell'atto in cui esercita la sua funzione di giudicare ("sotto una palma", precisa il testo biblico disegnando un quadro di grande semplicità umana e di estrema sobrietà, priva di complicazioni formali).

Ma nella Bibbia la parola "giustizia" significa qualcosa di più di ciò che significa nel diritto romano. Significa rettitudine morale, conformità alla volontà di Dio: significa "essere amico di Dio". In quel senso viene usata la parola "giusto", applicandola, per esempio, a Giuseppe, sposo di Maria; e in quel senso si parla di "giusto fra le nazioni" a proposito di chi, con sacrificio e con rischio personale, ha salvato molti ebrei dalla spietata persecuzione nazista.

Al predetto significato fa riferimento anche la parola "giustificazione" che ricorre spesso nelle lettere di San Paolo e che ai tempi della riforma luterane diventò una parola – chiave, al centro di dispute teologiche molto accese.

La parola "giustificazione" non ha il significato banalizzante di "scusa" o di "discolpa" che le attribuisce il linguaggio corrente (giustificare l'assenza da scuola; giustificare l'assenza dal lavoro; giustificarsi di fronte a un'accusa); ha invece, nella Bibbia, il significato pregnante di "farsi giusto" ("se justum facere"), cioè "diventare giusto", moralmente retto, diventare amico di Dio.

3. Quindi la giustizia in senso biblico comprende anche la giustizia legale, ma si pone su un piano più alto e comprensivo, tale da poter costituire altresì un "metro di giudizio" rispetto alla giustizia legale.

Infatti le leggi umane, pur tendendo ad incorporare valori di giustizia, si presentano a volta "ingiuste" nel confronto col parametro della "giustizia in senso biblico". Di lì nasce un conflitto tra la legge posta dall'Autorità politica (oggi diciamo "la legge positiva", cioè posta dallo Stato) e la coscienza del singolo, sensibile ai valori che si ispirano alla "giustizia in senso biblico". nasce, cioè, l'obiezione di coscienza alla legge ingiusta, cioè il rifiuto di obbedire alla legge positiva ingiusta per motivi di coscienza che si fondano su una "legge" superiore, alla quale la coscienza del singolo intende restare fedele.

Un caso di questo tipo ce lo presenta proprio la Bibbia.

Chi apre il libro dell'Esodo alla seconda pagina (Es. 1, 15), si imbatte in un caso clamoroso di obiezione di coscienza. Il Faraone d'Egitto è preoccupato dal moltiplicarsi degli ebrei sul territorio egiziano: un piccolo gruppo di israeliti era immigrato in Egitto parecchi secoli prima (all'epoca di Giuseppe e dei suoi fratelli) e col tempo era diventato un popolo numeroso, compatto, dotato di una sua lingua, di una sua religione, di sue tradizioni, di una sua chiara identità, tale da mettere in pericolo l'integrità del regno d'Egitto.

Il Faraone ritiene necessario fermare quella espansione e dà ordine alle levatrici degli ebrei di uccidere i figli maschi delle partorienti ebree nel momento in cui il bimbo sta per nascere. Due levatrici (di cui la Bibbia ci conserva i nomi: Sifra e Pua) disobbediscono all'ordine del Faraone "perché temono Dio" (Es. 1,17), cioè perché intendono rispettare la legge divina del "Non uccidere". E' un'obiezione di coscienza in piena regola.

La legge del Faraone è in contrasto con la "giustizia" biblica; quest'ultima innerva, pertanto, la disobbedienza delle levatrici alla legge positiva, cioè alla legge posta dall'autorità del re (2).

4. Nel Nuovo Testamento il discorso si rinforza e si approfondisce. Gesù pone al centro della sua attenzione l'uomo e la sua coscienza. Ciò che contamina l'uomo non è ciò che entra in lui, bensì ciò che esce da lui: è nel pensiero, nella intenzione, nella coscienza la radice del valore o del disvalore di un atto umano. E quando Gesù dice "Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio" rivendica la libertà di coscienza e la laicità dello Stato. Lo Stato non ha diritto di interferire nella coscienza umana e di dettare ordini sulle scelte religiose del cittadino; lo Stato non deve essere teologo, né in senso teista (obbligando i cittadini a professare una fede piuttosto che un'altra) né in senso ateista (obbligando i cittadini ad essere atei e vietando loro qualsiasi professione di fede religiosa). E gli Apostoli dimostreranno di essere fedeli interpreti dell'insegnamento di Cristo quando, di fronte all'ordine del Sinedrio di non insegnare più nel nome di Gesù, risponderanno: "Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini" (Atti, 5, 29).

Anche qui c'è la drastica affermazione di un conflitto tra legge positiva e coscienza, nonché la netta presa di posizione a favore della "legge di Dio".

5. Su questa linea si svilupperà, tra la fine del sec. III e l'inizio del sec. IV, l'obiezione al servizio militare.

Infatti verso la fine del sec. III il servizio militare nell'esercito romano, che fino ad allora era stato volontario, diventa obbligatorio e quindi incominciano ad esserci cristiani che rifiutano l'arruolamento nell'esercito per motivi di fede.

Tra le figure più significative c'è Massimiliano, un giovane cristiano dell'Africa settentrionale che, chiamato alle armi, rifiuta il servizio militare per due motivi che attengono entrambi alla sua fede cristiana: 1) l'arruolamento comporta un atto di culto verso l'imperatore, ed io non posso compiere tale atto perché mio unico Signore è Cristo; 2) il messaggio cristiano è un messaggio di non violenza e di amore, che mi impegna anche nei confronti dei miei nemici; perciò io non posso entrare in una struttura finalizzata alla violenza e alla guerra, come lo è l'esercito romano.

Massimiliano venne processato nel 295 d. C.: la pena prevista per il suo rifiuto era la pena di morte; e Massimiliano venne condannato a morte e ucciso. La tradizione ci ha conservato gli atti del suo processo, ed è commovente leggere con quale lucidità quel giovane di vent'anni rispose alle domande del proconsole Ghione: "Non posso fare il soldato. Non posso fare violenza. Sono cristiano".

Come lui, parecchi altri cristiani obiettarono al servizio militare, anche se il fenomeno non fu molto diffuso. Di fronte a quel fenomeno l'atteggiamento ufficiale della Chiesa ebbe degli alti e bassi. Il periodo costantiniano (caratterizzato da compromissioni della Chiesa con l'Impero) provocò nella Chiesa un'ostilità verso quel tipo di obiezione. Ma è interessante ricordare che, ai tempi di san Francesco e del rigoglio religioso dell'epoca, Papa Onorio III emanava, nel 1221, la bolla Significatum est, con la quale autorizzava il vescovo di Rimini a prendere le difese di un gruppo di obiettori che si opponevano, per motivi di fede cristiana, al servizio militare imposto loro dall'Autorità comunale; e siccome la diocesi di Faenza era sede vacante (cioè temporaneamente priva del suo vescovo), la bolla autorizzava il vescovo di Rimini a prendere le difese anche di un gruppo di obiettori cristiani di Faenza. (3)

Sono fatti significativi. Essi furono poi seguiti, purtroppo, da un lungo black – out, che per secoli oscurò l'attenzione della Chiesa cattolica verso questo problema e che, per buona fortuna. terminò con il Concilio Vaticano II: quest'ultimo rivalutò finalmente l'obiezione di coscienza al servizio militare nella costituzione Gaudium et spes, la quale fu poi seguita da altri pronunciamenti favorevoli da parte di vari organi ufficiali delle Chiesa.

E qui il discorso sbocca sul terreno della pace e della guerra, della non violenza e della riconciliazione. Un terreno che, in campo ecclesiale, trova i suoi documenti fondamentali nell'Enciclica Pacem in terris di Papa Giovanni XXIII e nella citata costituzione Gaudium et spes. (4)

note

  1. Chi desiderasse più ampi ragguagli sul lavoro del giudice potrebbe consultare: R. VENDITTI, Giustizia come servizio all'uomo. Riflessioni di un magistrato sul lavoro del giudice. Elledici, Rivoli – Leumann (Torino), 1995
  2. Per uno sviluppo di questa tematica rimando il cortese lettore al mio saggio: Legge e libertà. I giovani, la legalità, la giustizia, Fondaz. ital. per il Volontariato, Roma, 1998, pp. 51 ss.
  3. Per ulteriori informazioni sia sulla vicenda di Massimiliano, sia sulla bolla Significatum est, può vedersi: R. VENDITTI, L'obiezione di coscienza al servizio militare, Giuffrè, Milano, 3^ed. 1999, p. 42 e p 51 – 52.
  4. Comunque, se a qualcuno interessasse una singolare a appassionante ricerca che ho svolto recentemente sul tema "pace, interculturalità e musica", segnalo il mio articolo: Musica e interculturalità: un cammnino verso la pace, in "Quaderni Satyagraha", Centro Gandhi/Plus, Pisa, dic. 2003, pp 143 ss.