Sergio Blazina, docente scuola secondaria di secondo grado
...ho scritto
poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo
e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà.
(Eugenio Montale, E'
ancora possibile la poesia?,
discorso per il Premio
Nobel, 1975)
La mia fiducia nel
futuro della letteratura consiste nel sapere che ci
sono cose che solo la letteratura può dare coi
suoi mezzi specifici.
(Italo Calvino,
introduzione alle Lezioni americane,
1985; prima ed. postuma
1988)
Fra
letteratura, critica e storia letteraria: effetti di deriva
L'accostamento
di due libri molto diversi fra loro, pubblicati entrambi nel 2005,
può dare avvio a un discorso sullo stato della letteratura e
dei suoi lettori, oggi. Il primo non arriva a 100 pagine: in
Eutanasia della critica (Torino, Einaudi), Mario Lavagetto
mette impietosamente a nudo la crisi della critica letteraria che,
condizionata da specialismi e mode effimere, imprigionata da gerghi e
allusioni, ha visto assottigliarsi inesorabilmente il pubblico dei
lettori e sembra interessare soltanto più ad accademici e
addetti ai lavori. Il secondo libro a cui mi riferisco supera invece
le 1000 pagine: è l'antologia Parola plurale.
Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli (Roma, Sossella),
che dà conto della vitalità, in Italia, della scrittura
in versi dell'ultimo trentennio, selezionando testi di poeti
nati a partire dal 1945. L'accostamento sembra suggerire una
diagnosi netta: la critica è (quasi) morta, mentre la
letteratura gode di buona salute. Non è esattamente così,
e le opere stesse che ho citato ci offrono anche spunti di segno
opposto: Lavagetto infatti rivendica – contro le scorciatoie
semplicistiche della lettura ingenua e soggettivizzata - il ruolo
irrinunciabile di una critica che recuperi la capacità di
interpretare e di spiegare il testo nella sua interezza e ricchezza;
d'altro canto, il gruppo degli otto curatori di Parola
plurale pone fra i propri obiettivi quello di contestare la
prevalenza schiacciante della narrativa nella pratica recensoria, di
ribellarsi, insomma, all'inferiorità editoriale della
poesia, inferiorità che evidentemente rappresenta un dato
consolidato.
Rimane
comunque indiscutibile un dato d'insieme: lo scenario culturale
degli anni '60 e ‘70, nel quale la critica letteraria
guardava con superbo distacco "scientifico" l'oggetto
letterario e alcuni critici preconizzavano – sulla scorta dei
novissimi più apocalittici – la morte dell'arte
e il disseccamento estetico del linguaggio, si è in gran parte
rovesciato. Infatti, da un lato, la critica è andata
identificandosi – almeno nella sua versione più rigorosa
e utile - con lo specialismo filologico; dall'altro, la
letteratura sembra proporsi sempre più in una dimensione
"democratica" e diffusa, guadagnando un appeal di
accessibilità paragonabile solo al boom dei romanzi
tascabili negli anni '60. In edicola, si accatastano collane di
narrativa contemporanea e volumi in cofanetto di classici; in cd-rom
escono intere biblioteche; i concorsi letterari contano fra i
promotori aziende tranviarie, enti locali, associazioni; il numero
degli aspiranti scrittori cresce ogni anno, come ben sanno le case
editrici. Già negli anni '20 Svevo, in una pagina del
quarto romanzo rimasto incompiuto, immaginava nel futuro un'umanità
impegnata a ripetere nella scrittura la propria vita – fosse
pure del tutto insignificante - e impegnata in una sorta di pratica
igienica solitaria e autoreferenziale: "ognuno leggerà
se stesso".
Il
paradosso sveviano, oggi, è solo una parte della realtà.
La lettura "dell'altro" esiste ancora, anche se
spesso frammentaria e dispersa, circondata dal rumore dei mezzi di
trasporto, della tv, degli squilli; semmai, è una lettura di
"cosa capita" e "cosa mi pare", privata di
canoni forti e di omogeneità, perduta nel labirinto di un
supermarket, librario e non solo, senza confini. Si può
forse vedere in questa commercializzazione disordinata una
conseguenza del deprezzamento della merce-libro, riciclata in un
circuito di vendita più economico; e non è forse
inutile chiedersi cosa si legge, cosa si capisce, quali residui la
lettura (se c'è, dopo l'acquisto) lascia dietro di
sé. Ma si può anche pensare che queste obiezioni,
talvolta un po' stizzite, alla cultura di massa, questi
distinguo, appartengano a chi, in fondo, rimpiange i vecchi
cenacoli e un prestigio dell'intellettuale ormai tramontato.
Intanto, le scuole e i manuali di scrittura incoraggiano
anche i più timorosi a tentare il cimento creativo, per sé,
per pochi amici, per un editore a pagamento o no, per l'enclave
di un premio locale, per la rete. Ed è questa frammentazione
magmatica, questa esplosione incontrollata della testualità ad
alimentare l'idea di una generale decadenza letteraria, che ha
fondamento solo se la misura di riferimento rimane quella della
letteratura "alta".
A
fianco della letteratura e della critica, ma in una situazione ancora
diversa, sta la storiografia letteraria, il cui statuto di genere si
colloca fra narrazione storica, sistemazione tassonomica e
interpretazione. Anch'essa è stata, negli anni ‘60,
come la letteratura, messa in un angolo dalla critica, che ne aveva
denunciato la natura ideologica più che scientifica, sino a
ipotizzare per il futuro (Hans Robert Jauss, Perché la
storia della letteratura?, tr. it. Napoli, Guida, 1970) una
storiografia costruita, secondo l'"estetica della
ricezione", sul punto di vista del pubblico, invece che su
quello delle correnti e degli autori. La messa in discussione del
concetto di letteratura nazionale da parte di chi guardava alle
culture regionali da un lato, all'Europa dall'altro, ha
completato il declino della storiografia come forma esaustiva e
fondante della conoscenza letteraria. Tuttavia, alcune grandi storie
della letteratura italiana hanno continuato a essere concepite e
prodotte, seppure su presupposti metodologici nuovi (la formula
"storia e geografia" di matrice dionisottiana nella
Letteratura italiana Einaudi diretta da Alberto Asor Rosa), o
con intenti marcatamente documentari (la Storia della letteratura
italiana edita da Salerno e diretta da Enrico Malato). Invece, è
venuta quasi del tutto meno la manualistica storica, anche a causa
delle tendenze del mercato scolastico, tutte orientate sul modello
integrato profilo/antologia.
E'
significativo comunque il fatto che la storiografia letteraria abbia
mantenuto un prestigio e una funzione sistematoria che la relativa
carenza di aggiornamento non ha appannato: anche le grandi storie
letterarie sono approdate alle edicole, offrendo una promessa di
tesaurizzazione enciclopedica; le antologie scolastiche, a loro
volta, non hanno rinunciato alle concettualizzazioni storiche, ma
piuttosto hanno preso a utilizzarle come categorie convenzionali,
scaffali teorici ormai poco ingombranti, dove la produzione va a
raggrupparsi e a disporsi.
La
scuola, dunque, si trova a fare i conti con una cultura letteraria
sempre più destrutturata e composita ed è
indispensabile che sviluppi rispetto a essa una consapevolezza aperta
e attiva. Tre elementi almeno non possono essere persi di vista:
1.
la questione dei metodi della critica (centrale negli anni '70:
pensiamo a I metodi attuali della critica in Italia a cura di
Cesare Segre e Maria Corti) si muove sempre meno sul piano del
confronto ideologico e sempre più attraverso una
strumentazione che produce mescolanze e interazioni;
2.
la storia della letteratura è prevalentemente utilizzata come
quadro-contenitore o ricostruzione documentaria;
3.
la scrittura creativa, anche in forma di gioco libero o "a modo
di", è una risorsa preziosa che può portare gli
studenti a una conoscenza/competenza delle forme letterarie
dall'interno.
Ma
le forme letterarie sono ancora lì, intatte, ad attenderci?
Non si direbbe. Mentre molti libri scolastici assumono i generi
letterari come nucleo ispiratore di moduli e percorsi, la letteratura
contemporanea sembra al contrario mettere in discussione questi
modelli formali. Non mancano – da Starobinski a Citati - libri
di critica dotati di un luminoso fascino narrativo; né
poesie-racconto e diari-romanzo. E, soprattutto, la letteratura di
massa e di consumo, la Trivialliteratur che la semiologia ha
portato in auge alcuni anni fa, non è più solo
costituita da sottogeneri popolari diventati ormai cult
(giallo e rosa, fantascienza e fantasy...), ma partecipa di
una vita più estesa e imprevedibile, sparsa fuori dal vecchio
recinto della scrittura letteraria: ne troviamo tracce consistenti o
residuali nel giornalismo di colore, nella saggistica e nella
storiografica che volgono al racconto, nelle parole della pubblicità
ispirate alla poesia e intrise di citazioni.
Non
è allora solo mutato lo sguardo sulla letteratura, ma la
letteratura stessa. E in questo mutamento le tecnologie informatiche
e multimediali hanno un ruolo importante, epocale.
Homo
technologicus e letteratura
Già
nella prima metà del Novecento, Martin Heidegger (L'abbandono,
1938) considerava vana l'illusione dell'uomo di potersi
servire della tecnica mantenendone il pieno controllo, senza
sviluppare rispetto a essa una dipendenza e senza esserne, sia pure
inconsapevolmente, forgiato. Queste riflessioni hanno trovato nel
corso del tempo conferme che sono sotto gli occhi di tutti.
Informatica e telematica hanno provocato un'autentica
trasformazione antropologica, di cui nel giro di pochi anni è
emersa l'irreversibilità. In Dove sei? Ontologia del
telefonino (Milano, Bompiani, 2005) il filosofo Maurizio Ferraris
va oltre: ci spiega che questo mutamento non è affatto
accessorio ma riguarda la realtà sociale e le iscrizioni che
la costruiscono; dunque, ci riguarda.
Scrivere, leggere, insegnare, apprendere, insomma
pensare, non sono più, in questo contesto, la stessa cosa.
Anche la pratica letteraria, è diventata materialmente e
mentalmente diversa rispetto al passato.
Per
lo scrittore, che lavora sul papiro luminoso e illimitato del
monitor, le correzioni si stratificano senza lasciare traccia e
ripropongono la perfezione di una pagina pronta in ogni momento per
la stampa, e dunque per eccellenza ingannevole: formalmente finita,
ma sostanzialmente provvisoria. Né va dimenticato che la
scrittura elettronica, nelle sue forme quotidiane e quasi alluvionali
nella loro invadenza (SMS, e-mail…), ha superato la
separazione tradizionale fra parlato e scritto, informale e formale,
sviluppando una terza via: la "scrittura labile", che è
surrogato dell'oralità e insieme forma espressiva con
tratti suoi propri. Pensiamo, ad esempio, alle abbreviazioni in forma
di acronimi, all'epistolografia aperta delle mailing list,
ai tavoli/salotti virtuali dei forum e delle chat. La
scrittura letteraria, che è, per definizione, durevole, è
irresistibilmente attratta e influenzata dalla scrittura labile.
Per
il lettore, la famigliarità con il computer non è solo
abitudine a leggere su supporti elettronici, sino alla frontiera
dell'e-book o dei romanzi inviati a puntate sul display
del telefonino, ma anche la predisposizione a modificare il testo, a
dialogare con esso in modo interattivo, a non considerarlo
intangibile ma al contrario aperto e instabile.
Per
la scuola, un ulteriore, fondamentale versante di riflessione
riguarda le nuove modalità di apprendimento e, in parallelo,
l'indebolirsi di altri canali ricettivi. E' stato Renato
Simone, ne La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo
(Bari, Laterza, 2000), a proporre non senza polemica una formula
diventata di successo, distinguendo l'"intelligenza
sequenziale", propria di quello che Marshall H. McLuhan
chiamava "l'uomo tipografico", dall'"intelligenza
simultanea" tipica dell'uomo del terzo millennio, basata
sull'interazione ampia ma disarticolata che le nuove tecnologie
vanno formando nelle nuove generazioni. Punto di riferimento di
questa linea di pensiero è Walter J. Ong, il quale, in Oralità
e scrittura (tr. it. Bologna, Il Mulino, 1986), ha descritto la
tecnologizzazione della parola come un processo in continua
evoluzione e in rapporto variabile con l'oralità.
Nicholas Negroponte (Essere digitali, tr. it. Milano,
Sperling & Kupfer 1996) ha individuato a sua volta nella
"connettività" il fondamento della nuova
intelligenza e nel rapporto individualizzato peer to peer il
futuro della comunicazione. Senza dubbio, queste problematiche hanno
una valenza generale che travalica il nostro tema. Tuttavia, esse
coinvolgono la letteratura e il suo insegnamento perché ne
mettono in discussione il mito fondativo: la centralità del
libro e l'immutabilità della scrittura.
In
termini più specificamente didattici, la trasformazione in
atto contribuisce a spiegare le difficoltà crescenti che
l'insegnante incontra nel proporre percorsi sistematici
attraverso modalità frontali e le possibilità che
invece oggi scaturiscono da un'impostazione reticolare o
modulare dell'apprendimento e dall'impiego di pratiche
interattive e cooperative. Né va trascurato che l'abitudine
alla manipolazione dei messaggi consente di aprire prospettive utili
e feconde sul piano dell'analisi testuale. E' da questi
presupposti psico-pedagogici, molto più che da un uso
indiscriminato delle nuove strumentazioni (ipertesti, laboratori
multimediali, Internet), che l'apporto delle nuove tecnologie
può diventare prezioso, trasformando la semplice interattività
mediatica nell'interazione propria del dialogo educativo. Si ha
l'impressione, invece, che la formazione dei docenti sulle TIC
in Italia sia andata in un'altra direzione, privilegiando la
tecnica di comunicazione e la gestione dell'e-tutoring.
What is
"letteratura italiana"?
Oltre
a tener conto dei mutamenti che hanno trasformato, negli ultimi
decenni, la pratica letteraria dal punto di vista dello scrittore,
del lettore e del critico, l'insegnamento della letteratura
deve anche confrontarsi con un'evidente perdita di identità
nazionale della disciplina, che si riflette nell'indebolimento
dei suoi fondamenti storiografici. Se, nell'originario modello
desanctisiano, la storia della letteratura italiana era testimonianza
di una vicenda civile tormentata, icona di un'unità
nazionale raggiunta prima dalla cultura che dalla politica, oggi è
evidente che l'aggettivo "italiana" indica
essenzialmente un dato linguistico. In questa dimensione più
tecnica e meno retorica, si aprono un varco e prendono voce le
differenze dialettali, le contaminazioni, le uscite dal campo
strettamente letterario: tutti elementi che mettono in discussione il
presupposto unitario della disciplina. Non solo. Le letterature
nazionali appaiono da tempo, anche fuori dall'Italia, come un
principio epistemologicamente debole e insufficiente a render conto
di movimenti e influssi letterari, a cogliere con intelligenza non
limitata i giochi e gli intrecci dell'intertestualità.
Non è ancora superata la vecchia immagine della lingua come
"casa penale", coniata da René Wellek e Austin
Warren in Teoria della letteratura (1949).
Peraltro, l'idea di una letteratura comparata,
costruita attraverso la ricerca sulle fonti e la storia dei generi,
non rappresenta una proposta nuova neppure per il Novecento: essa
prende vigore e convinzione scientifica già in età
positivistica, in particolare nell'ambito di quella che in
Italia fu chiamata la "scuola storica". E non è un
caso, forse, che i due periodi in cui questa apertura europea si è
incardinata più fortemente nella disciplina anche scolastica
sono il Medioevo – cioè il terreno della filologia
romanza, nata in quegli anni – e la stagione del Naturalismo.
Oggi,
l'intertestualità è diventata altra cosa: non è
più solo ricerca delle fonti, ma libero accostamento di temi,
suggestioni, strutture, allusioni e citazioni. E, tuttavia, la
dimensione della comparatistica resta marginale nella tradizione
critica e anche scolastica italiana. Le cause di questa marginalità
sono essenzialmente due: la debolezza accademica della letteratura
comparata in Italia (a differenza di quanto avviene, ad esempio, in
Germania, in Francia o negli Stati Uniti); la tenuta di uno schema
storico scolastico - ormai convenzionale e tuttavia mai sostituito in
modo convincente – impostato sul baricentro della letteratura
nazionale. D'altro canto, i rari tentativi di approdare a una
storia della letteratura europea si sono scontrati con le difficoltà
della "geografia variabile", che costringe a una continua
ridefinizione del campo di studio nel corso dei secoli.
Nonostante le difficoltà del caso, un
allargamento internazionale dello studio letterario è, oggi,
assolutamente indispensabile per una serie di motivi non secondari.
Innanzitutto, esso consentirebbe di osservare da un punto di vista
più ampio anche i fatti della letteratura italiana, mettendo
in rilievo, ad esempio, le differenze sostanziali fra i periodi in
cui essa si propone come modello europeo e quelli in cui invece è
posta ai margini della grande cultura letteraria (è quanto
accade a partire dal XVII secolo). In secondo luogo, un'apertura
multiculturale permetterebbe di colmare squilibri evidenti nelle
conoscenze di studenti che ignorano i grandi classici stranieri,
mentre sono avviati alla conoscenza di autori italiani di minor
calibro. In terzo luogo, tale metodo avrebbe la possibilità di
rovesciare in termini positivi e propositivi la crisi del modello di
storia letteraria nazionale, aprendo da un lato alle vicende
culturali regionali, dall'altro ai rapporti fra autori di
letterature diverse.
L'apertura internazionale produce probabilmente a
scuola i suoi frutti più importanti nei percorsi tematici e di
genere. Infatti, una letteratura nella dimensione della
comparatistica sembra praticabile, nelle aule, non tanto sul piano
storico quanto su quello della didattica modulare. Questo è il
motivo per il quale i progressi più significativi in questa
direzione sono stati realizzati nella scuola secondaria di primo
grado e nel biennio superiore. Tuttavia, anche su queste aperture
pesano i limiti di vecchie prassi difficili da rimuovere: per citarne
una, le piccole storie della letteratura italiana che costituiscono
una sezione quasi obbligata dei testi adottati in questi segmenti
scolastici. Uno svecchiamento è necessario ed è
legittimo chiedersi se la riforma sappia offrire risposte adeguate a
questa esigenza.
Dai
Programmi alle Indicazioni Nazionali:
l'Italiano bifronte
Da
alcuni anni la letteratura sembra patire più di altre
discipline gli effetti dei nuovi orientamenti didattici. Le sue
difficoltà nascono non solo dalla perdita di prestigio e di
identità che abbiamo fin qui descritto, ma anche dalla
convivenza, all'interno degli orari e dei programmi scolastici,
di educazione letteraria ed educazione linguistica. Quest'ultima,
considerata nella vecchia impostazione gentiliana come conoscenza
strumentale e ancillare, ha acquistato il rilievo di una competenza
di base, grazie al suo valore trasversale. Proprio l'educazione
linguistica registra però, nella scuola italiana, esiti
complessivamente deboli, se non addirittura sconfortanti. E le
indagini PISA-OCSE, che collocano gli studenti italiani al di sotto
della media dei paesi industrializzati, hanno confermato sia nel 2000
sia nel 2003 questa diagnosi. Gli ultimi programmi sperimentali hanno
cercato di agire su questo deficit, non senza difficoltà. Le
proposte Brocca del 1992, infatti, hanno da un lato accresciuto
l'importanza dell'educazione linguistica (riconoscendole
pari dignità rispetto alla letteratura), dall'altro
focalizzato l'educazione letteraria sul testo più che
sul profilo storico. Quello che però non è stato
realizzato (e che senza dubbio pesa sulla qualità finale
dell'insegnamento) è uno sforzo di integrazione fra il
versante linguistico e il versante letterario della disciplina posta
sotto il titolo generale di "Italiano". Di questa svolta,
la riforma appena completata contiene solo alcuni presupposti
generali. Non per caso.
La
riforma Moratti, infatti, nasce all'interno di un quadro
normativo diverso rispetto alla scuola dei programmi: la riscrittura
del titolo V della Costituzione posta in essere nel 2001e in
particolare il testo del novellato articolo 117 hanno assegnato allo
Stato una potestà legislativa più limitata, che
riguarda la definizione delle "norme generali sull'istruzione"
(come già prevedeva l'articolo 33), i "livelli
essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali"
(LEP) e, per le materie di legislazione concorrente con le Regioni, i
"principi fondamentali". Il passo indietro dello Stato
non corrisponde solo a un'accresciuta potestà
legislativa assegnata alle Regioni (potestà concorrente con lo
Stato nell'ambito dell'istruzione; esclusiva nell'ambito
dell'istruzione e formazione professionale), ma trova
giustificazione e limite anche nell'autonomia delle singole
scuole, che acquisisce rango costituzionale dalle parole
dell'articolo 117 "salva l'autonomia delle
istituzioni scolastiche".
Questa
premessa è indispensabile per capire che la Legge delega 53/03
e i relativi decreti legislativi, al di là delle valutazioni
di merito, propongono un intervento regolatore sui contenuti
didattici alquanto ridotto rispetto al passato. Contengono
Indicazioni Nazionali, dunque, e non più Programmi, affidando
alle scuole una responsabilità progettuale molto grande e
onerosa.
L'impianto riformatore, imperniato sugli Obiettivi
Generali del Processo Formativo (OGPF) e sul Profilo Educativo,
Culturale e Professionale dello studente in uscita (PECUP), declina
gli Obiettivi Specifici di Apprendimento (OSA) sulla doppia linea
delle conoscenze e delle abilità, finalizzando entrambe –
per mezzo delle Unità di Apprendimento (UA) che vanno a
comporre i Piani di Studio Personalizzati – all'acquisizione
di competenze e al raggiungimento di Obiettivi Formativi (OF) da
parte del singolo studente. Per quanto concerne l'Italiano, gli
OSA sembrano prevedere un'integrazione lingua/letteratura più
nella Scuola Secondaria di Primo Grado, dove sono raggruppati per
azioni, che nel Secondo Ciclo, dove invece ritorna la distinzione
tradizionale fra "versante linguistico" e "versante
letterario e storico-culturale". Certo, va considerato il
carattere non sequenziale degli OSA, che sono aree di attraversamento
libero (e personalizzato) e non percorsi precostituiti; ma
un'integrazione lingua/letteratura va, nel Secondo Ciclo,
interamente pensata. E' solo dichiarato un principio
orientativo generale: le conoscenze sono campo di costruzione di
competenze significative e non obiettivi finali; dunque, l'approccio
didattico alla letteratura prevede, oltre alla conoscenza astratta,
lo sviluppo dell'operatività. La didattica laboratoriale
e la dimensione creativa della scrittura sono presumibilmente le
strade attraverso cui la letteratura può tradursi in
competenze e l'educazione linguistica promuovere consapevolezza
espressiva.
Le
criticità relative alla riforma sono numerose. Mi riferisco
non solo al tormentato iter del decreto sul secondo ciclo, approvato
in extremis e di fatto inapplicabile, a causa della bocciatura
della sperimentazione 2006/07 da parte della Conferenza
Stato-Regioni; non solo ad alcuni OSA che richiedono ripensamenti e
riformulazioni; ma anche e soprattutto all'insidiosa doppia
natura - normativa e propulsiva - delle Indicazioni Nazionali. Gli
OSA allegati alle Indicazioni declinano infatti i contenuti come
Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP); dunque, in una forma
intenzionalmente scarna e frammentaria. Sono le scuole e gli
insegnanti a dover assumere il compito della progettazione di
dettaglio, riferita agli Obiettivi Formativi, alle Unità di
Apprendimento e di conseguenza ai Piani di Studio Personalizzati.
E'
un compito che implica seri rischi: che gli OSA vengano interpretati
come i vecchi programmi ministeriali e quindi irrigiditi; che il
decentramento progettuale incida negativamente sulla qualità
complessiva del sistema di istruzione; che le Indicazioni Nazionali
siano considerate come gride inutili, che non devono turbare
prassi didattiche consolidate; che la progettazione di dettaglio sia
silenziosamente demandata all'iniziativa degli editori.
Si
è già constatato, nel caso dell'applicazione del
Decreto legislativo 59/04 sul Primo Ciclo, che questi rischi esistono
e che le possibilità di superarli passano attraverso una
partecipazione dialettica degli insegnanti ai processi di innovazione
metodologica e disciplinare, per evitare un semplice arroccamento
sull'esistente e per usare in modo positivo i poteri e le
responsabilità dell'autonomia.
Strumenti
didattici e passione letteraria
Gli
strumenti didattici sono un punto chiave dei processi di innovazione.
Si è insistito molto, negli ultimi anni, sul valore della
multimedialità in sostituzione e in appoggio al tradizionale
libro di testo. Ciò rappresenta certo una svolta verso la
didattica laboratoriale, ma contiene un limite: la sopravvalutazione
della modalità relazionale rispetto alla struttura e al
contenuto testuale. Dietro a un approccio tecnologicamente avanzato
può nascondersi la banalità culturale: per questo,
talvolta, un vecchio Bignami sembra un testo di alto livello se messo
a confronto con una presentazione in Power point, graficamente
brillante ma gracile. Inoltre, la forma-libro continua a modellare –
indipendentemente dall'oggetto-libro - molte strutture del
sapere e dell'insegnamento, nell'organizzazione, ad
esempio, di una lezione (cfr. Maragliano La didattica del libro,
Roma, Anicia, 1992). La conseguenza, può essere una
divaricazione di schemi mentali fra chi insegna e chi apprende, anche
all'interno della modalità più avanzata.
All'innovazione tecnica, insomma, va affiancato uno sviluppo
del pensiero e uno scambio linguistico e concettuale attento fra
docenti e discenti.
Nell'educazione letteraria, come è noto,
l'antologia cartacea svolge ancora un ruolo dominante, che
molti insegnanti considerano insostituibile. Forse, però,
questa posizione dominante non viene utilizzata al meglio. La
ripetizione di vecchi schemi usurati, la copiatura reciproca fra le
opere, i restyling ingannevoli, la mancanza di coraggio nelle
scelte sono solo alcuni dei problemi. Nella Secondaria di Primo
grado, la riforma ha portato un rinnovamento forzato e rapido, che è
andato a toccare l'apparato didattico (o le sue etichette), più
che le scelte. Nella Secondaria di Secondo grado, l'ultima
svolta è stata quella prodotta nel triennio dai Programmi
Brocca, con la nuova partizione storica e il conseguente
potenziamento del Novecento. Molti aspetti rimangono fermi a una
dimensione inerziale e irrisolta. Penso, per il biennio, alla
standardizzazione del format sui generi letterari, alla
ridondanza notomizzatrice di tante schede di analisi del testo che
perdono di vista il senso generale della lettura, agli illeggibili
inserti sulla storia dei generi in forma di voce enciclopedica.
Penso, per il triennio, all'allargamento internazionale che
molte antologie concepiscono ancora in forma di notizia storica o di
capitolo monografico sull'autore straniero, alla ripetitività
dei percorsi tematici nelle antologie modulari, alla debole o assente
testimonianza della produzione letteraria dell'ultimo
ventennio. Le proposte più innovative passano attraverso
riviste didattiche, alcuni IRRE, alcune SSIS e siti sparsi, lasciando
poche tracce nell'editoria scolastica. Quest'ultima,
peraltro, fa il suo mestiere e risponde a logiche di mercato che non
coincidono necessariamente con quella "ricerca, sperimentazione
e sviluppo" che l'articolo 6 del Regolamento
sull'autonomia (DPR 275/99) indica come uno dei compiti
fondamentali delle Istituzioni Scolastiche Autonome. La critica
giornalistica, a sua volta, non offre molto: le recenti polemiche
sulla mancanza di scrittori italiani degni di entrare nel "canone"
dopo Calvino e Volponi e/o sulle inadempienze della critica (cfr. ad
esempio Carla Benedetti e Alberto Arbasino su "L'espresso"
nn. 39 e 41 / 2005) rendono bene la misura di questa sterilità,
che è anche una sorta di paralisi indotta.
Una
via di uscita può essere, per gli insegnanti, quella di un uso
più ampio e diffuso della rete (e delle reti di scuole), nella
raccolta – modello INDIRE - delle "migliori pratiche".
Ma per avere ricadute significative bisognerebbe prestare di nuovo
attenzione a quell'attività che, nella scuola dei tanti,
spettacolari progetti, è la più oscura e deprezzata: la
didattica quotidiana, curvata sul dettaglio e sulla fatica
dell'acquisizione, ma anche aperta al dialogo e all'invenzione.
Lì la letteratura può conquistare appassionati nuovi, a
patto di liberarsi dal peso immaginario di un programma tirannico,
stipato in un tempo-scuola sempre più stretto; e a patto di
far risuonare veramente la voce dei testi, prima delle tante parole
che li affiancano e che non sono sempre un "toglierli dalle
pieghe", cioè spiegarli. La letteratura corre sempre
indubbiamente il rischio, nell'evoluzione del sistema
scolastico, di apparire superflua o di trasformarsi in un bene
strumentale, finalizzato - chissà perché - alla lingua,
alla retorica, alla metrica, alla teoria dei generi, che certo la
arricchiscono culturalmente ma non la possiedono. Il suo fascino
tuttavia resta intatto ed è un'arma didattica
straordinaria, che può permetterle di uscire dalle aule per
diventare qualcosa che interessa davvero, se chi la insegna sa
trasmettere non solo ma anche una passione.