INSEGNARE LETTERATURA OGGI

Sergio Blazina, docente scuola secondaria di secondo grado
...ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile,
ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di
nobiltà.
(Eugenio Montale, E' ancora possibile la poesia?,
discorso per il Premio Nobel, 1975)

La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste
nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura
può dare coi suoi mezzi specifici.
(Italo Calvino, introduzione alle Lezioni americane,
1985; prima ed. postuma 1988)

Fra letteratura, critica e storia letteraria: effetti di deriva
L'accostamento di due libri molto diversi fra loro, pubblicati entrambi nel 2005, può dare avvio a un discorso sullo stato della letteratura e dei suoi lettori, oggi. Il primo non arriva a 100 pagine: in Eutanasia della critica (Torino, Einaudi), Mario Lavagetto mette impietosamente a nudo la crisi della critica letteraria che, condizionata da specialismi e mode effimere, imprigionata da gerghi e allusioni, ha visto assottigliarsi inesorabilmente il pubblico dei lettori e sembra interessare soltanto più ad accademici e addetti ai lavori. Il secondo libro a cui mi riferisco supera invece le 1000 pagine: è l'antologia Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli (Roma, Sossella), che dà conto della vitalità, in Italia, della scrittura in versi dell'ultimo trentennio, selezionando testi di poeti nati a partire dal 1945. L'accostamento sembra suggerire una diagnosi netta: la critica è (quasi) morta, mentre la letteratura gode di buona salute. Non è esattamente così, e le opere stesse che ho citato ci offrono anche spunti di segno opposto: Lavagetto infatti rivendica – contro le scorciatoie semplicistiche della lettura ingenua e soggettivizzata - il ruolo irrinunciabile di una critica che recuperi la capacità di interpretare e di spiegare il testo nella sua interezza e ricchezza; d'altro canto, il gruppo degli otto curatori di Parola plurale pone fra i propri obiettivi quello di contestare la prevalenza schiacciante della narrativa nella pratica recensoria, di ribellarsi, insomma, all'inferiorità editoriale della poesia, inferiorità che evidentemente rappresenta un dato consolidato.

Rimane comunque indiscutibile un dato d'insieme: lo scenario culturale degli anni '60 e ‘70, nel quale la critica letteraria guardava con superbo distacco "scientifico" l'oggetto letterario e alcuni critici preconizzavano – sulla scorta dei novissimi più apocalittici – la morte dell'arte e il disseccamento estetico del linguaggio, si è in gran parte rovesciato. Infatti, da un lato, la critica è andata identificandosi – almeno nella sua versione più rigorosa e utile - con lo specialismo filologico; dall'altro, la letteratura sembra proporsi sempre più in una dimensione "democratica" e diffusa, guadagnando un appeal di accessibilità paragonabile solo al boom dei romanzi tascabili negli anni '60. In edicola, si accatastano collane di narrativa contemporanea e volumi in cofanetto di classici; in cd-rom escono intere biblioteche; i concorsi letterari contano fra i promotori aziende tranviarie, enti locali, associazioni; il numero degli aspiranti scrittori cresce ogni anno, come ben sanno le case editrici. Già negli anni '20 Svevo, in una pagina del quarto romanzo rimasto incompiuto, immaginava nel futuro un'umanità impegnata a ripetere nella scrittura la propria vita – fosse pure del tutto insignificante - e impegnata in una sorta di pratica igienica solitaria e autoreferenziale: "ognuno leggerà se stesso".

Il paradosso sveviano, oggi, è solo una parte della realtà. La lettura "dell'altro" esiste ancora, anche se spesso frammentaria e dispersa, circondata dal rumore dei mezzi di trasporto, della tv, degli squilli; semmai, è una lettura di "cosa capita" e "cosa mi pare", privata di canoni forti e di omogeneità, perduta nel labirinto di un supermarket, librario e non solo, senza confini. Si può forse vedere in questa commercializzazione disordinata una conseguenza del deprezzamento della merce-libro, riciclata in un circuito di vendita più economico; e non è forse inutile chiedersi cosa si legge, cosa si capisce, quali residui la lettura (se c'è, dopo l'acquisto) lascia dietro di sé. Ma si può anche pensare che queste obiezioni, talvolta un po' stizzite, alla cultura di massa, questi distinguo, appartengano a chi, in fondo, rimpiange i vecchi cenacoli e un prestigio dell'intellettuale ormai tramontato.

Intanto, le scuole e i manuali di scrittura incoraggiano anche i più timorosi a tentare il cimento creativo, per sé, per pochi amici, per un editore a pagamento o no, per l'enclave di un premio locale, per la rete. Ed è questa frammentazione magmatica, questa esplosione incontrollata della testualità ad alimentare l'idea di una generale decadenza letteraria, che ha fondamento solo se la misura di riferimento rimane quella della letteratura "alta".

A fianco della letteratura e della critica, ma in una situazione ancora diversa, sta la storiografia letteraria, il cui statuto di genere si colloca fra narrazione storica, sistemazione tassonomica e interpretazione. Anch'essa è stata, negli anni ‘60, come la letteratura, messa in un angolo dalla critica, che ne aveva denunciato la natura ideologica più che scientifica, sino a ipotizzare per il futuro (Hans Robert Jauss, Perché la storia della letteratura?, tr. it. Napoli, Guida, 1970) una storiografia costruita, secondo l'"estetica della ricezione", sul punto di vista del pubblico, invece che su quello delle correnti e degli autori. La messa in discussione del concetto di letteratura nazionale da parte di chi guardava alle culture regionali da un lato, all'Europa dall'altro, ha completato il declino della storiografia come forma esaustiva e fondante della conoscenza letteraria. Tuttavia, alcune grandi storie della letteratura italiana hanno continuato a essere concepite e prodotte, seppure su presupposti metodologici nuovi (la formula "storia e geografia" di matrice dionisottiana nella Letteratura italiana Einaudi diretta da Alberto Asor Rosa), o con intenti marcatamente documentari (la Storia della letteratura italiana edita da Salerno e diretta da Enrico Malato). Invece, è venuta quasi del tutto meno la manualistica storica, anche a causa delle tendenze del mercato scolastico, tutte orientate sul modello integrato profilo/antologia.

E' significativo comunque il fatto che la storiografia letteraria abbia mantenuto un prestigio e una funzione sistematoria che la relativa carenza di aggiornamento non ha appannato: anche le grandi storie letterarie sono approdate alle edicole, offrendo una promessa di tesaurizzazione enciclopedica; le antologie scolastiche, a loro volta, non hanno rinunciato alle concettualizzazioni storiche, ma piuttosto hanno preso a utilizzarle come categorie convenzionali, scaffali teorici ormai poco ingombranti, dove la produzione va a raggrupparsi e a disporsi.

La scuola, dunque, si trova a fare i conti con una cultura letteraria sempre più destrutturata e composita ed è indispensabile che sviluppi rispetto a essa una consapevolezza aperta e attiva. Tre elementi almeno non possono essere persi di vista:

1. la questione dei metodi della critica (centrale negli anni '70: pensiamo a I metodi attuali della critica in Italia a cura di Cesare Segre e Maria Corti) si muove sempre meno sul piano del confronto ideologico e sempre più attraverso una strumentazione che produce mescolanze e interazioni;

2. la storia della letteratura è prevalentemente utilizzata come quadro-contenitore o ricostruzione documentaria;

3. la scrittura creativa, anche in forma di gioco libero o "a modo di", è una risorsa preziosa che può portare gli studenti a una conoscenza/competenza delle forme letterarie dall'interno.

Ma le forme letterarie sono ancora lì, intatte, ad attenderci? Non si direbbe. Mentre molti libri scolastici assumono i generi letterari come nucleo ispiratore di moduli e percorsi, la letteratura contemporanea sembra al contrario mettere in discussione questi modelli formali. Non mancano – da Starobinski a Citati - libri di critica dotati di un luminoso fascino narrativo; né poesie-racconto e diari-romanzo. E, soprattutto, la letteratura di massa e di consumo, la Trivialliteratur che la semiologia ha portato in auge alcuni anni fa, non è più solo costituita da sottogeneri popolari diventati ormai cult (giallo e rosa, fantascienza e fantasy...), ma partecipa di una vita più estesa e imprevedibile, sparsa fuori dal vecchio recinto della scrittura letteraria: ne troviamo tracce consistenti o residuali nel giornalismo di colore, nella saggistica e nella storiografica che volgono al racconto, nelle parole della pubblicità ispirate alla poesia e intrise di citazioni.

Non è allora solo mutato lo sguardo sulla letteratura, ma la letteratura stessa. E in questo mutamento le tecnologie informatiche e multimediali hanno un ruolo importante, epocale.

Homo technologicus e letteratura

Già nella prima metà del Novecento, Martin Heidegger (L'abbandono, 1938) considerava vana l'illusione dell'uomo di potersi servire della tecnica mantenendone il pieno controllo, senza sviluppare rispetto a essa una dipendenza e senza esserne, sia pure inconsapevolmente, forgiato. Queste riflessioni hanno trovato nel corso del tempo conferme che sono sotto gli occhi di tutti. Informatica e telematica hanno provocato un'autentica trasformazione antropologica, di cui nel giro di pochi anni è emersa l'irreversibilità. In Dove sei? Ontologia del telefonino (Milano, Bompiani, 2005) il filosofo Maurizio Ferraris va oltre: ci spiega che questo mutamento non è affatto accessorio ma riguarda la realtà sociale e le iscrizioni che la costruiscono; dunque, ci riguarda.

Scrivere, leggere, insegnare, apprendere, insomma pensare, non sono più, in questo contesto, la stessa cosa. Anche la pratica letteraria, è diventata materialmente e mentalmente diversa rispetto al passato.

Per lo scrittore, che lavora sul papiro luminoso e illimitato del monitor, le correzioni si stratificano senza lasciare traccia e ripropongono la perfezione di una pagina pronta in ogni momento per la stampa, e dunque per eccellenza ingannevole: formalmente finita, ma sostanzialmente provvisoria. Né va dimenticato che la scrittura elettronica, nelle sue forme quotidiane e quasi alluvionali nella loro invadenza (SMS, e-mail…), ha superato la separazione tradizionale fra parlato e scritto, informale e formale, sviluppando una terza via: la "scrittura labile", che è surrogato dell'oralità e insieme forma espressiva con tratti suoi propri. Pensiamo, ad esempio, alle abbreviazioni in forma di acronimi, all'epistolografia aperta delle mailing list, ai tavoli/salotti virtuali dei forum e delle chat. La scrittura letteraria, che è, per definizione, durevole, è irresistibilmente attratta e influenzata dalla scrittura labile.

Per il lettore, la famigliarità con il computer non è solo abitudine a leggere su supporti elettronici, sino alla frontiera dell'e-book o dei romanzi inviati a puntate sul display del telefonino, ma anche la predisposizione a modificare il testo, a dialogare con esso in modo interattivo, a non considerarlo intangibile ma al contrario aperto e instabile.

Per la scuola, un ulteriore, fondamentale versante di riflessione riguarda le nuove modalità di apprendimento e, in parallelo, l'indebolirsi di altri canali ricettivi. E' stato Renato Simone, ne La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo (Bari, Laterza, 2000), a proporre non senza polemica una formula diventata di successo, distinguendo l'"intelligenza sequenziale", propria di quello che Marshall H. McLuhan chiamava "l'uomo tipografico", dall'"intelligenza simultanea" tipica dell'uomo del terzo millennio, basata sull'interazione ampia ma disarticolata che le nuove tecnologie vanno formando nelle nuove generazioni. Punto di riferimento di questa linea di pensiero è Walter J. Ong, il quale, in Oralità e scrittura (tr. it. Bologna, Il Mulino, 1986), ha descritto la tecnologizzazione della parola come un processo in continua evoluzione e in rapporto variabile con l'oralità. Nicholas Negroponte (Essere digitali, tr. it. Milano, Sperling & Kupfer 1996) ha individuato a sua volta nella "connettività" il fondamento della nuova intelligenza e nel rapporto individualizzato peer to peer il futuro della comunicazione. Senza dubbio, queste problematiche hanno una valenza generale che travalica il nostro tema. Tuttavia, esse coinvolgono la letteratura e il suo insegnamento perché ne mettono in discussione il mito fondativo: la centralità del libro e l'immutabilità della scrittura.

In termini più specificamente didattici, la trasformazione in atto contribuisce a spiegare le difficoltà crescenti che l'insegnante incontra nel proporre percorsi sistematici attraverso modalità frontali e le possibilità che invece oggi scaturiscono da un'impostazione reticolare o modulare dell'apprendimento e dall'impiego di pratiche interattive e cooperative. Né va trascurato che l'abitudine alla manipolazione dei messaggi consente di aprire prospettive utili e feconde sul piano dell'analisi testuale. E' da questi presupposti psico-pedagogici, molto più che da un uso indiscriminato delle nuove strumentazioni (ipertesti, laboratori multimediali, Internet), che l'apporto delle nuove tecnologie può diventare prezioso, trasformando la semplice interattività mediatica nell'interazione propria del dialogo educativo. Si ha l'impressione, invece, che la formazione dei docenti sulle TIC in Italia sia andata in un'altra direzione, privilegiando la tecnica di comunicazione e la gestione dell'e-tutoring.

What is "letteratura italiana"?

Oltre a tener conto dei mutamenti che hanno trasformato, negli ultimi decenni, la pratica letteraria dal punto di vista dello scrittore, del lettore e del critico, l'insegnamento della letteratura deve anche confrontarsi con un'evidente perdita di identità nazionale della disciplina, che si riflette nell'indebolimento dei suoi fondamenti storiografici. Se, nell'originario modello desanctisiano, la storia della letteratura italiana era testimonianza di una vicenda civile tormentata, icona di un'unità nazionale raggiunta prima dalla cultura che dalla politica, oggi è evidente che l'aggettivo "italiana" indica essenzialmente un dato linguistico. In questa dimensione più tecnica e meno retorica, si aprono un varco e prendono voce le differenze dialettali, le contaminazioni, le uscite dal campo strettamente letterario: tutti elementi che mettono in discussione il presupposto unitario della disciplina. Non solo. Le letterature nazionali appaiono da tempo, anche fuori dall'Italia, come un principio epistemologicamente debole e insufficiente a render conto di movimenti e influssi letterari, a cogliere con intelligenza non limitata i giochi e gli intrecci dell'intertestualità. Non è ancora superata la vecchia immagine della lingua come "casa penale", coniata da René Wellek e Austin Warren in Teoria della letteratura (1949).

Peraltro, l'idea di una letteratura comparata, costruita attraverso la ricerca sulle fonti e la storia dei generi, non rappresenta una proposta nuova neppure per il Novecento: essa prende vigore e convinzione scientifica già in età positivistica, in particolare nell'ambito di quella che in Italia fu chiamata la "scuola storica". E non è un caso, forse, che i due periodi in cui questa apertura europea si è incardinata più fortemente nella disciplina anche scolastica sono il Medioevo – cioè il terreno della filologia romanza, nata in quegli anni – e la stagione del Naturalismo.

Oggi, l'intertestualità è diventata altra cosa: non è più solo ricerca delle fonti, ma libero accostamento di temi, suggestioni, strutture, allusioni e citazioni. E, tuttavia, la dimensione della comparatistica resta marginale nella tradizione critica e anche scolastica italiana. Le cause di questa marginalità sono essenzialmente due: la debolezza accademica della letteratura comparata in Italia (a differenza di quanto avviene, ad esempio, in Germania, in Francia o negli Stati Uniti); la tenuta di uno schema storico scolastico - ormai convenzionale e tuttavia mai sostituito in modo convincente – impostato sul baricentro della letteratura nazionale. D'altro canto, i rari tentativi di approdare a una storia della letteratura europea si sono scontrati con le difficoltà della "geografia variabile", che costringe a una continua ridefinizione del campo di studio nel corso dei secoli.

Nonostante le difficoltà del caso, un allargamento internazionale dello studio letterario è, oggi, assolutamente indispensabile per una serie di motivi non secondari. Innanzitutto, esso consentirebbe di osservare da un punto di vista più ampio anche i fatti della letteratura italiana, mettendo in rilievo, ad esempio, le differenze sostanziali fra i periodi in cui essa si propone come modello europeo e quelli in cui invece è posta ai margini della grande cultura letteraria (è quanto accade a partire dal XVII secolo). In secondo luogo, un'apertura multiculturale permetterebbe di colmare squilibri evidenti nelle conoscenze di studenti che ignorano i grandi classici stranieri, mentre sono avviati alla conoscenza di autori italiani di minor calibro. In terzo luogo, tale metodo avrebbe la possibilità di rovesciare in termini positivi e propositivi la crisi del modello di storia letteraria nazionale, aprendo da un lato alle vicende culturali regionali, dall'altro ai rapporti fra autori di letterature diverse.

L'apertura internazionale produce probabilmente a scuola i suoi frutti più importanti nei percorsi tematici e di genere. Infatti, una letteratura nella dimensione della comparatistica sembra praticabile, nelle aule, non tanto sul piano storico quanto su quello della didattica modulare. Questo è il motivo per il quale i progressi più significativi in questa direzione sono stati realizzati nella scuola secondaria di primo grado e nel biennio superiore. Tuttavia, anche su queste aperture pesano i limiti di vecchie prassi difficili da rimuovere: per citarne una, le piccole storie della letteratura italiana che costituiscono una sezione quasi obbligata dei testi adottati in questi segmenti scolastici. Uno svecchiamento è necessario ed è legittimo chiedersi se la riforma sappia offrire risposte adeguate a questa esigenza.

Dai Programmi alle Indicazioni Nazionali:
l'Italiano bifronte

Da alcuni anni la letteratura sembra patire più di altre discipline gli effetti dei nuovi orientamenti didattici. Le sue difficoltà nascono non solo dalla perdita di prestigio e di identità che abbiamo fin qui descritto, ma anche dalla convivenza, all'interno degli orari e dei programmi scolastici, di educazione letteraria ed educazione linguistica. Quest'ultima, considerata nella vecchia impostazione gentiliana come conoscenza strumentale e ancillare, ha acquistato il rilievo di una competenza di base, grazie al suo valore trasversale. Proprio l'educazione linguistica registra però, nella scuola italiana, esiti complessivamente deboli, se non addirittura sconfortanti. E le indagini PISA-OCSE, che collocano gli studenti italiani al di sotto della media dei paesi industrializzati, hanno confermato sia nel 2000 sia nel 2003 questa diagnosi. Gli ultimi programmi sperimentali hanno cercato di agire su questo deficit, non senza difficoltà. Le proposte Brocca del 1992, infatti, hanno da un lato accresciuto l'importanza dell'educazione linguistica (riconoscendole pari dignità rispetto alla letteratura), dall'altro focalizzato l'educazione letteraria sul testo più che sul profilo storico. Quello che però non è stato realizzato (e che senza dubbio pesa sulla qualità finale dell'insegnamento) è uno sforzo di integrazione fra il versante linguistico e il versante letterario della disciplina posta sotto il titolo generale di "Italiano". Di questa svolta, la riforma appena completata contiene solo alcuni presupposti generali. Non per caso.

La riforma Moratti, infatti, nasce all'interno di un quadro normativo diverso rispetto alla scuola dei programmi: la riscrittura del titolo V della Costituzione posta in essere nel 2001e in particolare il testo del novellato articolo 117 hanno assegnato allo Stato una potestà legislativa più limitata, che riguarda la definizione delle "norme generali sull'istruzione" (come già prevedeva l'articolo 33), i "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali" (LEP) e, per le materie di legislazione concorrente con le Regioni, i "principi fondamentali". Il passo indietro dello Stato non corrisponde solo a un'accresciuta potestà legislativa assegnata alle Regioni (potestà concorrente con lo Stato nell'ambito dell'istruzione; esclusiva nell'ambito dell'istruzione e formazione professionale), ma trova giustificazione e limite anche nell'autonomia delle singole scuole, che acquisisce rango costituzionale dalle parole dell'articolo 117 "salva l'autonomia delle istituzioni scolastiche".

Questa premessa è indispensabile per capire che la Legge delega 53/03 e i relativi decreti legislativi, al di là delle valutazioni di merito, propongono un intervento regolatore sui contenuti didattici alquanto ridotto rispetto al passato. Contengono Indicazioni Nazionali, dunque, e non più Programmi, affidando alle scuole una responsabilità progettuale molto grande e onerosa.

L'impianto riformatore, imperniato sugli Obiettivi Generali del Processo Formativo (OGPF) e sul Profilo Educativo, Culturale e Professionale dello studente in uscita (PECUP), declina gli Obiettivi Specifici di Apprendimento (OSA) sulla doppia linea delle conoscenze e delle abilità, finalizzando entrambe – per mezzo delle Unità di Apprendimento (UA) che vanno a comporre i Piani di Studio Personalizzati – all'acquisizione di competenze e al raggiungimento di Obiettivi Formativi (OF) da parte del singolo studente. Per quanto concerne l'Italiano, gli OSA sembrano prevedere un'integrazione lingua/letteratura più nella Scuola Secondaria di Primo Grado, dove sono raggruppati per azioni, che nel Secondo Ciclo, dove invece ritorna la distinzione tradizionale fra "versante linguistico" e "versante letterario e storico-culturale". Certo, va considerato il carattere non sequenziale degli OSA, che sono aree di attraversamento libero (e personalizzato) e non percorsi precostituiti; ma un'integrazione lingua/letteratura va, nel Secondo Ciclo, interamente pensata. E' solo dichiarato un principio orientativo generale: le conoscenze sono campo di costruzione di competenze significative e non obiettivi finali; dunque, l'approccio didattico alla letteratura prevede, oltre alla conoscenza astratta, lo sviluppo dell'operatività. La didattica laboratoriale e la dimensione creativa della scrittura sono presumibilmente le strade attraverso cui la letteratura può tradursi in competenze e l'educazione linguistica promuovere consapevolezza espressiva.

Le criticità relative alla riforma sono numerose. Mi riferisco non solo al tormentato iter del decreto sul secondo ciclo, approvato in extremis e di fatto inapplicabile, a causa della bocciatura della sperimentazione 2006/07 da parte della Conferenza Stato-Regioni; non solo ad alcuni OSA che richiedono ripensamenti e riformulazioni; ma anche e soprattutto all'insidiosa doppia natura - normativa e propulsiva - delle Indicazioni Nazionali. Gli OSA allegati alle Indicazioni declinano infatti i contenuti come Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP); dunque, in una forma intenzionalmente scarna e frammentaria. Sono le scuole e gli insegnanti a dover assumere il compito della progettazione di dettaglio, riferita agli Obiettivi Formativi, alle Unità di Apprendimento e di conseguenza ai Piani di Studio Personalizzati.

E' un compito che implica seri rischi: che gli OSA vengano interpretati come i vecchi programmi ministeriali e quindi irrigiditi; che il decentramento progettuale incida negativamente sulla qualità complessiva del sistema di istruzione; che le Indicazioni Nazionali siano considerate come gride inutili, che non devono turbare prassi didattiche consolidate; che la progettazione di dettaglio sia silenziosamente demandata all'iniziativa degli editori.

Si è già constatato, nel caso dell'applicazione del Decreto legislativo 59/04 sul Primo Ciclo, che questi rischi esistono e che le possibilità di superarli passano attraverso una partecipazione dialettica degli insegnanti ai processi di innovazione metodologica e disciplinare, per evitare un semplice arroccamento sull'esistente e per usare in modo positivo i poteri e le responsabilità dell'autonomia.

Strumenti didattici e passione letteraria

Gli strumenti didattici sono un punto chiave dei processi di innovazione. Si è insistito molto, negli ultimi anni, sul valore della multimedialità in sostituzione e in appoggio al tradizionale libro di testo. Ciò rappresenta certo una svolta verso la didattica laboratoriale, ma contiene un limite: la sopravvalutazione della modalità relazionale rispetto alla struttura e al contenuto testuale. Dietro a un approccio tecnologicamente avanzato può nascondersi la banalità culturale: per questo, talvolta, un vecchio Bignami sembra un testo di alto livello se messo a confronto con una presentazione in Power point, graficamente brillante ma gracile. Inoltre, la forma-libro continua a modellare – indipendentemente dall'oggetto-libro - molte strutture del sapere e dell'insegnamento, nell'organizzazione, ad esempio, di una lezione (cfr. Maragliano La didattica del libro, Roma, Anicia, 1992). La conseguenza, può essere una divaricazione di schemi mentali fra chi insegna e chi apprende, anche all'interno della modalità più avanzata. All'innovazione tecnica, insomma, va affiancato uno sviluppo del pensiero e uno scambio linguistico e concettuale attento fra docenti e discenti.

Nell'educazione letteraria, come è noto, l'antologia cartacea svolge ancora un ruolo dominante, che molti insegnanti considerano insostituibile. Forse, però, questa posizione dominante non viene utilizzata al meglio. La ripetizione di vecchi schemi usurati, la copiatura reciproca fra le opere, i restyling ingannevoli, la mancanza di coraggio nelle scelte sono solo alcuni dei problemi. Nella Secondaria di Primo grado, la riforma ha portato un rinnovamento forzato e rapido, che è andato a toccare l'apparato didattico (o le sue etichette), più che le scelte. Nella Secondaria di Secondo grado, l'ultima svolta è stata quella prodotta nel triennio dai Programmi Brocca, con la nuova partizione storica e il conseguente potenziamento del Novecento. Molti aspetti rimangono fermi a una dimensione inerziale e irrisolta. Penso, per il biennio, alla standardizzazione del format sui generi letterari, alla ridondanza notomizzatrice di tante schede di analisi del testo che perdono di vista il senso generale della lettura, agli illeggibili inserti sulla storia dei generi in forma di voce enciclopedica. Penso, per il triennio, all'allargamento internazionale che molte antologie concepiscono ancora in forma di notizia storica o di capitolo monografico sull'autore straniero, alla ripetitività dei percorsi tematici nelle antologie modulari, alla debole o assente testimonianza della produzione letteraria dell'ultimo ventennio. Le proposte più innovative passano attraverso riviste didattiche, alcuni IRRE, alcune SSIS e siti sparsi, lasciando poche tracce nell'editoria scolastica. Quest'ultima, peraltro, fa il suo mestiere e risponde a logiche di mercato che non coincidono necessariamente con quella "ricerca, sperimentazione e sviluppo" che l'articolo 6 del Regolamento sull'autonomia (DPR 275/99) indica come uno dei compiti fondamentali delle Istituzioni Scolastiche Autonome. La critica giornalistica, a sua volta, non offre molto: le recenti polemiche sulla mancanza di scrittori italiani degni di entrare nel "canone" dopo Calvino e Volponi e/o sulle inadempienze della critica (cfr. ad esempio Carla Benedetti e Alberto Arbasino su "L'espresso" nn. 39 e 41 / 2005) rendono bene la misura di questa sterilità, che è anche una sorta di paralisi indotta.

Una via di uscita può essere, per gli insegnanti, quella di un uso più ampio e diffuso della rete (e delle reti di scuole), nella raccolta – modello INDIRE - delle "migliori pratiche". Ma per avere ricadute significative bisognerebbe prestare di nuovo attenzione a quell'attività che, nella scuola dei tanti, spettacolari progetti, è la più oscura e deprezzata: la didattica quotidiana, curvata sul dettaglio e sulla fatica dell'acquisizione, ma anche aperta al dialogo e all'invenzione. Lì la letteratura può conquistare appassionati nuovi, a patto di liberarsi dal peso immaginario di un programma tirannico, stipato in un tempo-scuola sempre più stretto; e a patto di far risuonare veramente la voce dei testi, prima delle tante parole che li affiancano e che non sono sempre un "toglierli dalle pieghe", cioè spiegarli. La letteratura corre sempre indubbiamente il rischio, nell'evoluzione del sistema scolastico, di apparire superflua o di trasformarsi in un bene strumentale, finalizzato - chissà perché - alla lingua, alla retorica, alla metrica, alla teoria dei generi, che certo la arricchiscono culturalmente ma non la possiedono. Il suo fascino tuttavia resta intatto ed è un'arma didattica straordinaria, che può permetterle di uscire dalle aule per diventare qualcosa che interessa davvero, se chi la insegna sa trasmettere non solo ma anche una passione.