COMPETENZE LINGUISTICHE, COMUNICAZIONE, EDUCAZIONE ALLA CITTADINANZA:
PER UN MODELLO INTEGRATO
di Sergio Blazina, Dirigente Scolastico IIS G.Giolitti, Torino
L'educazione
linguistica è uno dei nodi che da oltre quarantacinque anni
percorre tutte le ipotesi di riforma e di innovazione della scuola
italiana, continuando tuttavia a presentarsi periodicamente come un
punto critico.
L'insorgere
della consapevolezza del problema è facilmente identificabile.
Nel 1962, con l'entrata in vigore della
media unificata,
si superò finalmente e in modo irreversibile la distinzione
classista fra l'”alfabetizzazione strumentale”,
impartita negli ultimi tre anni di post-elementare ai ragazzi
destinati a interrompere presto gli studi per inserirsi nel mondo del
lavoro
1,
e la lingua colta, insegnata agli studenti destinati al liceo e
all'università. Era, quella, una distinzione
strutturalmente classista, perché la forbice fra le due
(diremmo oggi) filiere presupponeva come sostegno all'iter
scolastico, anche se non lo dichiarava, una condizione non solo
economica, ma anche linguistica e culturale diversa nelle famiglie di
appartenenza. Gli
anni '60 furono dunque il tempo eroico
della
lingua come conquista di uguaglianza e di democrazia. Il
problema da risolvere, allora, era l'accesso illimitato agli
strumenti linguistici, la distribuzione a tutti di un patrimonio che
sino a quel momento era stato di pochi: la mano paziente del maestro
Alberto Manzi nella trasmissione televisiva
Non è
mai troppo tardi, la battaglia di don Milani per “la lingua
che fa eguali” possono essere considerati i simboli di
un'Italia che si avviava a una scolarizzazione di massa
attraverso una battaglia per l'italiano come patrimonio comune,
diritto di cittadinanza e porta maestra verso la cultura.
Questo
patrimonio, però, sempre meno poteva essere considerato
un'eredità stabile, perché era inevitabilmente
soggetto alle trasformazioni della lingua d'uso, che i mezzi di
comunicazione avevano reso rapide, fluide, imprevedibili. La
questione del rapporto fra
lingua e civiltà industriale,
sollevato, su un piano letterario, da Calvino e Vittorini nelle
pagine del ”Menabò” già alla fine degli
anni ‘50, divenne, nel mondo della scuola, ricerca di una
lingua più moderna, adatta a cose e situazioni nuove. Il
processo innovativo riguardò in senso più ampio
l'
educazione linguistica e si realizzò
lentamente, attraverso la pubblicazione di alcuni programmi
scolastici ministeriali. Questi ultimi, ispirati alle teorie della
comunicazione e alla sociolinguistica, ebbero il merito di collocare
la lingua in una dimensione sociale, interattiva, articolata in
tipologie e registri e proiettata, anche grazie agli studi
semiologici, in uno scenario più ampio, non esclusivamente
verbale. I passaggi fondamentali di tale trasformazione coinvolsero
principalmente un segmento di vita scolastica considerato cruciale
per la costruzione delle abilità linguistiche e comunicative:
la scuola media e il biennio iniziale della superiore. Frutti di
questa elaborazione, le cui radici culturali vennero sintetizzate
nelle
Dieci tesi per l'educazione linguistica democratica
GISCEL (1975), furono i
programmi per la scuola media (1979) e
i
programmi sperimentali della Commissione Brocca (1992), in
particolare nella parte dedicata al
biennio.
Queste
nuove risorse normative lasciarono aperte, nella scuola reale, alcune
criticità: a differenza di quello che accadde per il programmi
della scuola elementare del 1985, non fu avviato per le medie e il
biennio superiore un piano di
formazione degli insegnanti.
L'innovazione venne così in gran parte affidata
all'
editoria scolastica, con conseguenze non del tutto
positive
2.
Infatti, i libri di testo introdussero le novità significative
proposte dai programmi in termini principalmente contenutistici, come
saperi teorici. Era la soluzione più facile da realizzare, ma
non la più efficace sul piano didattico. Due esempi, per
chiarire questo pensiero:
- La
vecchia nomenclatura della grammatica normativa venne affiancata dal
lessico della linguistica, producendo mescolanze e ambiguità:
le riclassificazioni concettuali rimasero nella molteplicità
delle proposte e a traino delle discussioni accademiche, senza
riuscire a produrre una koinè scolastica.
- Le
tassonomie riguardanti i linguaggi verbali e non verbali
(giornalistico, scientifico, letterario, pubblicitario,
cinematografico...), le tipologie del testo scritto e i registri
linguistici andarono spesso a costituire un repertorio di conoscenze
astratte, anche molto complesse, le cui potenzialità
operative furono più dichiarate che praticate.
Su
questa strada, continuò a risultare difficile o comunque non
scontato per i docenti italiani sviluppare, negli studenti della
scuola secondaria, oltre a nozioni,
competenze e abilità
linguistiche complesse e aggiornate, sottratte alla vecchia
impostazione pedagogica della retorica, che non risolve problemi ma
costruisce discorsi. L'obiettivo della padronanza di una lingua
funzionale agli usi vivi non è mai diventato, in Italia, uno
standard nazionale. E, nei libri di testo, numerosi esercizi di
lingua, super-aggiornati nel lessico e nelle situazioni come nella
veste grafica, mascherano spesso dietro un
restyling
accattivante gli scenari artificiosi del gioco retorico.
E'
noto, peraltro, che un lavoro scolastico che privilegi competenze e
abilità in situazione di
problem solving
rispetto alle conoscenze teoriche organizzate è quanto da
tempo l'Europa chiede al sistema di istruzione italiano, come
condizione per considerarlo competitivo sul piano della valutazione
internazionale. Le ultime notizie di disfatta sull'
OCSE-PISA
2006, riguardanti anche le capacità di comprensione del
testo, oltre a quelle matematiche e scientifiche, testimoniano che a
questo deficit non si è ancora rimediato.
Una
revisione complessiva era stata avviata, in previsione
dell'innalzamento dell'obbligo di istruzione poi
realizzato con la legge 9 del 1999 (successivamente abrogata), dalla
Commissione dei saggi di Roberto Maragliano. La Commissione,
nell'ampia documentazione del 1997 (sintetizzata ad opera dello
stesso Maragliano) e nel documento presentato all'Accademia dei
Lincei nel 1998 aveva sottolineato, nell'ambito dell'educazione
linguistica, l'importanza di un rinnovamento didattico
profondo. L'intento era quello di sviluppare negli studenti
famigliarità con molteplici tipi di testo e di abituarli
all'interazione continua fra linguaggi. L'articolazione
dei contenuti essenziali dell'istruzione obbligatoria (i
cosiddetti “saperi minimi”) che costituiva l'obiettivo
operativo della Commissione non giunse però a definizione
normativa. Ciò nonostante, i materiali dei “saggi”
– anche se raramente vennero citati come fonte - ispirarono
tutti i documenti del decennio successivo. Fra gli aspetti più
interessanti e innovativi, spiccavano l'idea di collocare i
curricoli nella prospettiva di una crescita della persona, la
concezione ampia dell'educazione alla cittadinanza e la
definizione di apprendimento per tutto l'arco della vita. Anche
l'educazione linguistica traeva, da questi concetti, più
ampio respiro.
Tali
concetti sono stati ripresi in tutti i documenti ministeriali che,
negli ultimi anni, hanno portato a termine progetti di riforma,
sottraendosi però alla dimensione prescrittiva dei vecchi
programmi ministeriali. Mi riferisco alle Indicazioni Nazionali sul
primo ciclo (in due versioni) e al documento sugli assi culturali
che ha accompagnato il Decreto Ministeriale 139 del 22 agosto 2007
relativo al nuovo obbligo di istruzione.
Come
è noto, le
Indicazioni Nazionali sul primo ciclo sono
state pubblicate la prima volta nel 2004 e sono state successivamente
oggetto di revisione nel 2007. Le diverse stagioni politiche e anche
teoriche a cui appartengono i due testi danno ragione delle loro
differenze. Le Indicazioni Nazionali in allegato al
Dlgs 59/04,
a norma della legge delega 53/03, contengono i cosiddetti obiettivi
specifici di apprendimento. Questi ultimi non definiscono le
competenze personali, ma sono strumentali alla loro costruzione
didattica: si dovrebbero trasformare, infatti, in obiettivi formativi
attraverso le unità di apprendimento liberamente progettate
dai docenti. Da ciò, deriva la schematicità pragmatica
degli O.S.A., che risulta particolarmente evidente nella parte
dedicata all'italiano nella scuola secondaria di primo grado
(allegato C): conoscenze e abilità sono organizzate intorno ai
verbi all'infinito (
ascoltare, parlare, leggere, scrivere,
riflettere sulla lingua), la cui organicità reticolare è
affermata in linea di principio, ma in concreto affidata
all'iniziativa individuale del docente.
Nelle
Indicazioni per il curricolo del 2007, allegate al
D.M. 31-7-2007,
la novità più interessante è costituita dai
“Traguardi per lo sviluppo delle competenze”, che per
l'italiano al termine della scuola secondaria di primo grado
comprendono capacità di comunicazione e autonomia
linguistico-espressiva da parte del ragazzo. Tuttavia, gli “obiettivi
di apprendimento” a supporto di tali traguardi, inseriti ancora
nella struttura dei quattro verbi all'infinito delle
Indicazioni 2004, hanno il profilo di operazioni specifiche ispirate
al repertorio scolastico classico: dal racconto orale “essenziale
e chiaro” alla lettura ad alta voce, dalla stesura di una
lettera al riconoscimento della funzione dei segni interpuntivi.
Il
documento sugli assi culturali, ispirato esplicitamente al
quadro europeo delle competenze chiave
3,
indica una direzione di lavoro, da percorrere attraverso una
sperimentazione nelle scuole. L'asse dei linguaggi viene
articolato qui in competenze, abilità/capacità e
conoscenze, la cui validità è largamente condivisibile,
sia in termini generali, sia in particolare, nell'individuazione
degli esiti attesi a conclusione dell'obbligo di istruzione.
Una sottolineatura merita la prima competenza delle tre relative alla
“Padronanza della lingua italiana”: “Padroneggiare
gli strumenti espressivi ed argomentativi indispensabili per gestire
l'interazione comunicativa verbale in vari contesti”.
Essa è la competenza strategica della comunicazione, quella
che meglio di ogni altra serve a definire un diritto di cittadinanza
e la dinamicità di un apprendimento continuo. Una delle sei
abilità/capacità che rimandano a tale competenza
descrive un contesto di relazione che è un piccolo modello
semiologico di democrazia: “Affrontare molteplici situazioni
comunicative scambiando informazioni e idee per esprimere anche il
proprio punto di vista”. Come rendere operativo questo
approccio interpersonale? La risposta non arriva certo dall'elenco
parallelo delle conoscenze, che tocca struttura, codici e principi
organizzativi della comunicazione. E il documento stesso sugli assi
culturali precisa che la corrispondenza fra abilità/capacità
e conoscenze “è rimessa all'autonomia didattica
del docente e alla programmazione collegiale del Consiglio di
classe”. Questo legame non è accessorio, ma è il
materiale di costruzione fondamentale della competenza.
Quello
che accomuna i documenti degli ultimi anni è la difficoltà
a legare la dimensione tecnica della disciplina con le competenze
attese, visto che esse non si limitano a una padronanza della lingua,
ma sono un vero e proprio profilo di cittadinanza nella prospettiva
dell'apprendimento lungo l'arco della vita. Il rimando
all'autonomia della scuola e alla libertà del docente
segnala più un imbarazzo che una sicurezza dei risultati.
Diventa
allora importante più che mai, oggi, uscire dal tecnicismo che
ha contrassegnato anni di educazione linguistica. L'esercizio a
freddo sulle tecniche, quella sorta di
nouvelle rhétorique
un po' stucchevole che occhieggia da tanti libri di testo
rischia di trasformare in esercizio esterno una competenza che ha
bisogno invece di essere il più possibile interiorizzata,
diventando pratica attiva, partecipata e socializzata.
Il
campo di applicazione per un miglioramento non manca. Se riflettiamo
sulla discrepanza che divide, da un lato l'enfasi posta sulla
comunicazione, dall'altro l'elevato grado di
conflittualità e di egoismo sociale che tocca sempre più
spesso la scuola nei rapporti fra studenti, fra studenti e docenti e
fra docenti e famiglie, comprendiamo quanto l'educazione alla
relazione sia un nodo psico-linguistico vitale. Il campo delle
educazioni – e in particolare quello dell'educazione alla
cittadinanza – è il riferimento fondamentale per
costruire la competenza comunicativa nel rispetto autentico, non
formale, dell'altro. Insomma, controllo linguistico e schemi
argomentativi devono innestarsi nel senso di responsabilità
personale, consentendo il passaggio dall'artificio comunicativo
alla comunicazione reale.
Sappiamo
tuttavia che il passaggio dall'astrattezza delle ipotesi
all'esercizio concreto “in situazione” è
vissuto talvolta dai docenti come un pericolo. Affrontare i problemi
veri – anche se piccoli -, aprire confronti di opinioni su casi
concreti ecc. è visto come un rischio e vissuto come un
disagio. Questo senso di difficoltà non è senza motivi.
La mediazione dei conflitti attraverso il discorso, il confronto
delle opinioni, il coordinamento di gruppi, il lavoro di ricerca come
costruzione collettiva del sapere, la soluzione di problemi
richiedono infatti una elevata capacità di
controllo da
parte del docente, il quale è chiamato a gestire
un'interazione vera, dagli sviluppi non interamente
prevedibili, mettendosi in gioco. Non si tratta di improvvisare, ma
di
formare docenti capaci di guidare una
didattica
interattiva. Il rischio è necessario: un'educazione
linguistica autentica può svilupparsi solo in un contesto di
apprendimento significativo, in cui la lingua sia strumento al
servizio di interessi veri. Così, essa potrà diventare
una palestra non solo di cultura, ma anche di cittadinanza.