La contestualizzazione dei testi letterari: l'uso delle fonti di Archivio


di Alberta Martini
docente Scuola Secondaria di secondo grado
Nelle indicazioni programmatiche recentemente fornite dal MIUR in relazione all'insegnamento dell'Italiano nel secondo biennio della Scuola secondaria di secondo grado, a proposito del versante letterario e storico culturale, viene individuata come abilità da far conseguire agli studenti la collocazione dei testi nella tradizione letteraria e nel contesto storico di riferimento.
Questo approccio didattico non è certo una novità: è evidente che la centralità del testo letterario in quel momento della formazione culturale degli studenti richiede l'ampliamento della prospettiva di analisi verso l'esterno, alla ricerca di tutti quegli elementi storici, culturali, biografici che, accompagnando l'analisi linguistica e testuale, rendano più convincente l'interpretazione dell'opera in lettura.
Lo studio del tempo entro il quale le singole opere hanno avuto vita potrebbe tuttavia ampliarsi a settori non solitamente frequentati dalla didattica tradizionale, quali, ad esempio, l'immenso patrimonio documentario contenuto negli archivi di stato, capace di aprire squarci interessantissimi sulla vita dei secoli passati, e di suggerire imprevedibili rapporti tra letteratura e vita quotidiana.
Possiamo avere un esempio delle straordinarie possibilità di lavoro con gli studenti sulla lingua e sulla cultura italiane del passato attraverso l'analisi di un documento che si trova presso l'Archivio di stato di Torino, risalente al Seicento, una relazione di un funzionario della cancelleria sabauda, indirizzata al guardasigilli del Duca Vittorio Amedeo I (1633):

Clicca per ingrandire

Clicca per ingrandire

(versione in italiano moderno):
Relazione su ciò che accadde tra il Signor Segretario Claritti e il signor Presidente Buonfiglio, il giorno 20 ottobre 1633.

Il signor Segretario Claritti si stava recando verso la Corte, dalla parte della strada dove si trova la bottega del commerciante Sumo, che rimaneva alla sua destra. Quando si trovò vicino al negozio di un commerciante in ferro, il signor Fiorenzo Forno uscì dal suo magazzino, e dopo aver attraversato il corso d'acqua al centro della strada, si accostò al suddetto signor Claritti per sapere da lui se aveva trasmesso una certa supplica [a suo favore], mentre quello continuava a camminare. Dalla medesima parte della strada, che quindi si trovava alla sua sinistra, stava sopraggiungendo intanto il Signor Presidente Buonfiglio, che si dirigeva verso la piazza.
Il signor Claritti, congedatosi dal Furno, avendo imboccato la strada a destra della piazzetta, dopo un breve tratto di strada si portò alla prima bottega, che era quella di un sarto, situata all'angolo della piazzetta. Il Signor Presidente Buonfiglio, che avrebbe potuto evitare l'incontro con il signor Claritti, in quanto lo aveva visto venire la lontano, invece di cedere il passo verso sinistra, si accostò anch'egli strettamente al medesimo muro, così che, per non cedersi reciprocamente il passo, si urtarono, ingiuriandosi rabbiosamente.
Il capitano Gambarana, che seguiva il signor Claritti, fu il primo a mettere mano alla spada, e ferì con una coltellata il signor Presidente. Così almeno affermano alcuni testimoni degni di fede, sebbene ve ne siano altri che sostengono che fu il Vetraio Veneziano, che seguiva il Signor Presidente Buonfiglio, a sfoderare per primo la spada.
Essendo stati poi separati l'uno dall'altro, per l'intervento di alcune persone che erano in loro compagnia, il signor Claritti proseguì il suo cammino verso la Corte, dove giunse anche poco dopo il Signor Presidente Buonfiglio. Quest'ultimo, avendo visto il capitano Gambarana oltrepassare il corpo di guardia nel primo portico del palazzo, lo minacciò gridandogli che era un traditore assassino. Il signor Claritti, avendo udito ciò, e vedendo che il signor presidente stava attraversando il cortile del Palazzo per andare nell'anticamera [del duca], procedette anch'egli per la stessa strada e disse al Signor Presidente Buonfiglio: "Tu me la pagherai". A queste parole Signor Presidente Buonfiglio ribatté: "Tu sei un coglione". Allora il Claritti gli si accostò più da presso, ricambiando l'ingiuria con un'altra ingiuria, che però non fu sentita dai testimoni, ma lo stesso signor Claritti confessa di avergli risposto: "Tu sei un furfante". Subito il Signor Presidente Buonfiglio alzò la mano e tirò un pugno al signor Claritti, che si riparò col braccio. Urtandosi, entrambi si sforzarono per entrare per primi nell'anticamera di Sua Altezza Reale.
Qui il Presidente Buonfiglio si lamentava a voce alta sostenendo di essere stato assassinato, tanto che il Gran Cancelliere fu costretto ad ordinargli di tacere.

Per un maggiore coinvolgimento degli studenti sarebbe opportuno dare loro la fotocopia del documento originale, in modo che possano esercitarsi nell'interpretazione della grafia, per altro chiara ed elegante, del suo anonimo estensore.
Per giungere a una completa interpretazione del testo, è opportuno chiarire immediatamente la sua funzione specifica: si tratta di una relazione volta a chiarire all'autorità giudiziaria, in modo efficace e sintetico, l'esatto susseguirsi di un certo numero di azioni violente e di scambi verbali ingiuriosi tra due eminenti personaggi della Corte.
Come avviene per ogni relazione, i problemi con i quali l'estensore secentesco ha dovuto confrontarsi sono stati di diverso ordine: descrivere minutamente una serie di azioni simultanee susseguitesi in un breve frammento temporale; collocare queste azioni nello spazio in cui si sono svolte; far risaltare solo i particolari che potessero risultare importanti per far comprendere quanto era accaduto; tralasciare ciò che avrebbe potuto distrarre il destinatario dello scritto.
La soluzione che a questi problemi dà il nostro funzionario di Cancelleria risulta assai efficace, tanto per il rigoroso ordine mimetico della scrittura rispetto alla realtà, quanto per la vivacità della rappresentazione delle singole scene, nelle quali i ruoli dei protagonisti e dei comprimari sono stati assegnati con grande perizia.
Alla base di questo risultato si colloca un complesso progetto compositivo, modulato su diversi piani, in rapporto ai diversi momenti dell'azione descritta.
La prima parte della relazione (dall'inizio a "ingiuriandosi acerbamente") si espande seguendo il movimento lineare e ininterrotto dei due protagonisti della storia, che da punti diversi convergono l'uno contro l'altro.
L'incipit del testo fornisce la scena dell'azione; l'imperfetto iniziale andaua propone il procedere del signor Segretaro Claritti come un'azione durativa, distesa nel tempo e neppure interrotta dall'arrivo di messer Fiorenzo Forno (... non lasciando egli di continuare tuttavia il suo camino).
La simultaneità del procedere dell'antagonista, il signor Presidente Buonfiglio, verso il medesimo punto è resa attraverso la riproposta del medesimo tempo verbale, seguito dall'avverbio intanto; "stava sopraggiungendo intanto il Signor Presidente Buonfiglio, che si dirigeva verso la piazza" .
Le reazioni dei due illustri personaggi, una volta scontratisi, sono proposte invece con una serie di passati remoti che fissano in maniera definitiva e incancellabile il senso delle loro azioni: "s'accostò", "si strinse", "s'urtarono".
La parte centrale della relazione, che si riferisce allo scontro vero e proprio, (da: Il capitano Gambarana... a: sfoderar la spada), tende invece a isolare i singoli movimenti interponendo tra la coltellata sferrata dal signor Presidente e il colpo di spada del Vetraro Veneziano, le opinioni dei "testimoni più degni di fede".
L'isolamento delle azioni, al fine di accentuarne il rilievo, diventa ancora più netto mediante l'uso del tempo presente dei verbi che si riferiscono alle testimonianze, quasi per riproporle come vive e presenti all'attenzione di chi dovrà valutarle ("come dicono i testimoni"... "quali depongono").
La parte della relazione che riporta gli avvenimenti successivi allo scontro (da: "Essendo poi stati separati" alla fine) è distinta dalle precedenti dal connettivo "poi" che introduce il lettore non solo in un diverso tempo, ma anche in uno spazio nuovo: da questo momento lo sfondo in cui si svolgerà l'azione è il Palazzo ducale nel quale si ritrovano i due contendenti.
In quest'ultima parte della relazione la tecnica compositiva varia, assumendo caratteristiche che sembrerebbero mutuate dalla scrittura per il teatro o dal canovaccio di qualche Commedia dell'Arte. La rappresentazione degli eventi avviene infatti attraverso scene successive, nelle quali le battute dei contendenti, riportate direttamente, sono accompagnati da interventi descrittivi simili a didascalie. Le due scene centrali sono inoltre distinte tra loro mediante l'introduzione di specifici connettivi temporali: "Allhora" e "Subito".
Il precipitare degli eventi si collega all'assunzione di una sintassi concitata, con periodi ampli e complessi, ma ben articolati, nei quali i numerosi gerundi svolgono la funzione di accelerare i tempi.
La consapevolezza dell'estensore della relazione di aver reso percepibile, nella sua esagitazione, il crescendo degli eventi rappresentati, si esplicita nella chiusa dello scritto, nella quale il sipario sembra calare definitivamente sulla scena con l'imposizione del silenzio: "in maniera che fu necessitato il signor Gran Cancelliere commandargli che tacesse".
Alla rilevazione della struttura del testo si può far seguire l'analisi del materiale lessicale che gli dà vita.
Appare evidente, in primo luogo, la scarsezza di aggettivi qualificativi rispetto agli aggettivi determinativi; i pochi aggettivi qualificativi inseriti nella relazione si limitano a precisare alcuni elementi importanti per l'azione, senza svolgere alcuna funzione di arricchimento della scena: "banda diritta"; "breve giro"; "più degni di fede".

A questo punto si può mettere a confronto il testo della relazione con passi descrittivi di altre opere contemporanee, iniziando da quelle di tipo narrativo, delle quali può costituire un esempio questo breve passo di Giovanni Ambrosio Marini, tratto dagli Scherzi di fortuna a pro dell'innocenza (1662):

Ritrovandosi un dì sulla strada maestra che conduceva direttamente alla città di Ampuria, si vide a man diritta un bosco d'alberi di qua e di là con bell'ordine compassati, che, fermando il piè nudo in terra e in distanza uguale l'uno dall'altro, formavano lunghi e diritti i viali; poi, sollevando al cielo fronzuti i rami, collegavansi in sulle cime a' favore de' passeggieri, chiudendo affatto la via a' cocenti raggi del sole, non alla luce.
Allettato il prencipe dalla vaghezza e dagli agi che gli promettea quella così ben ordinata boscaglia, presegli desio di attraversarla, massime intendendo da un paesano che il viale di mezzo, e più largo degli altri,dirittamente conducea a un delizioso non men che superbo palagio della bella vedova duchessa d'Ampuria..."

Nel confronto tra i due passi appare evidente la diversa funzione dell'aggettivazione, finalizzata nel testo narrativo non solo a definire nei particolari gli oggetti descritti, ma anche ad arricchirli di elementi emotivi, collegati al modo di percepire la realtà di colui che la sta osservando.
Per una più completa interpretazione della Relazione, si rende necessario anche un lavoro di ricerca di tipo linguistico e filologico: la ricerca del significato esatto che alcuni vocaboli contenuti nel testo avevano nel contesto culturale di appartenenza, la città di Torino nella prima metà del sec. XVII.
Può essere questa un'occasione per spingere gli studenti ad accostarsi al Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia (UTET); soprattutto per la determinazione del significato di alcuni termini quali "fondaco", "banda", "cantone" ci si può avvalere delle citazioni ivi riportate di testi non letterari (in particolare i Libri del commercio dei Peruzzi).
Di difficile comprensione, particolarmente per gli studenti non piemontesi, può risultare il termine "dora", non riferibile al nome del fiume che attraversa Torino. Nel dialetto piemontese "doira" significa infatti "corso d'acqua"; la "dora" citata nel documento era un canale che attraversava la città, terminando nella piazza dove ancor oggi si trova il Palazzo ducale; questa via era appunto denominata "via Dora grossa".
Per giungere a precisare questo significato, si può consultare il Gran Dizionario Piemontese Italiano di Vittorio di Sant'Albino (Edizione anastatica L'Artistica Savigliano); un analogo lavoro di ricerca si può svolgere a proposito di alcune espressioni di calco piemontese, come "fa cantone" "pigliarono la strada a dritta".
Per rendere comprensibile agli studenti il percorso compiuto dal Signor Claritti e dal Signor Buonfiglio si possono utilizzare le antiche mappe di Torino contenute nel volume edito dalla UTET Forma urbana ed architettura nella Torino barocca.

Ma il tema centrale della relazione, quello del "duello" richiede un approfondimento: se se ne trovasse il tempo, diventerebbe molto interessante la lettura di alcuni passi del trattato di Francesco Birago Consigli cavallereschi (1623): il passaggio poi da questo trattato al cap, IV dei Promessi Sposi apparirebbe naturale ed inevitabile.
La rilettura del passo manzoniano in cui viene presentato lo scontro tra Ludovico e "un signor tale, arrogante e soverchiatore di professione", acquisterà per gli studenti un sapore nuovo, alla luce di conoscenze assunte da una precisa documentazione.
Può suscitare addirittura una certa sorpresa la scoperta di analogie costruttive tra la Relazione prima analizzata e il romanzo manzoniano, come avviene, per esempio, nell'incipit di quel celebre passo: "Andava un giorno per una strada...". che propone lo stesso verbo con cui inizia il documento.
Si deve tuttavia osservare che in molti verbali delle Cancellerie si riproduce la stessa formula iniziale, ed è possibile che Manzoni abbia preso visione di testi analoghi.
Ma al di là delle analogie sul fatto raccontato e su alcuni moduli descrittivi, balza subito in evidenza la differenza dei punti di vista dai quali è stata osservata la stessa scena, collegata agli scopi diversi che gli estensori dei due testi si proponevano. Si può far rilevare nel testo manzoniano l'attenzione per la caratterizzazione dei protagonisti della storia narrata, ritratti minutamente tanto nel loro comportamento pubblico, quanto nel loro mondo interiore.
Nel romanzo il narratore si interpone spesso, durante la descrizione dei diversi momenti dello scontro, introducendo proprie considerazioni ("dove mai va si va a ficcare il diritto!") o interpretando le intenzioni dei due contendenti ("Ludovico mirava piuttosto a scansare i colpi, e a disarmare il nemico, che ad ucciderlo").
Dal racconto manzoniano emerge senza possibilità di equivoco un giudizio morale non solo sulla responsabilità di chi ha causato lo scontro, ma anche sulla consuetudine "cavalleresca" dei duelli: questa, d'altra parte, era l'intenzione precisa dell'autore.
Dalle relazione secentesca, invece, non si ricava alcuna valutazione personale: il giudizio è lasciato a chi legge, dopo avergli fornito tutti gli elementi per una corretta valutazione.

Questo piccolo lavoro su un documento cancelleresco può servire anche a far percepire agli studenti la presenza di una lingua italiana d'uso accanto a quella letteraria da essi solitamente affrontata, e a farne rilevare le differenze tanto nell'ambito del lessico quanto in quello della sintassi.