Il "fossato" impedisce alla memoria di
inarcarsi e ne segna lo scacco.
"Così si svela prima di legarsi "Il Rabbi disse: Sta scritto nel Salmo Grandéi la pace (Salmo
118. v.165. Perché anche se gli Israeliti diventassero idolatri, ma facessero opera di
pace, Dio direbbe: Non posso far nulla contro di loro" Bereshit Rabba
a immagini, a parole, oscuro senso
reminiscente, il vuoto inabitato
che occupammo e che attende fin ch'è tempo
di colmarsi di noi, di ritrovarci."
La lirica
andrebbe letta a partire dall'epifania finale che è però rivelazione "del
vuoto" e lascia aperti alcuni interrogativi.
In
"Satura", il primo dei libri non più lirici, Montale getterà
finalmente la maschera e dirà: "Tu sei stata l'unica viva, tutti gli
altri sono morti e non sanno di esserlo".
Per cui lo spazio pieno, la storia, e in realtà il mondo dei morti.
Nel finale sembra che la caduta della parete
divisoria tra la vita e la morte, tra il tempo dell'esistere e l'assoluto, non
riveli una dimensione nuova: è uno sprofondare nel buio non sorretto dalla
speranza nella resurrezione.
Osserviamo ancora come il ruolo della parola qui non
potrebbe essere che depresso, ironizzato. "Immagini e parole" non
sono lo scrigno che rivela il senso ultimo del reale come pretendeva Proust ma,
al contrario, sono "oscuro senso reminiscente" .
Siamo dinanzi a una premonizione del vuoto che la
parola,non riuscirà a svelare: siamo all"'elogio della balbuzie"
come attesta Angelo Jacomuzzi nel suo validissimo saggio montaliano.
Concludiamo con l'esegesi di "Giorno e
notte" scelta perché nel breve arco dei versi si ritrova l'oscillazione
tra gli opposti poli della memoria come epifania di un'assenza e come
ritrovamento di una presenza baluginante.
Il poeta pare qui disegnare un profilo di donna in un
paesaggio borghigiano tracciato su echi pascoliani. Tali tracce, così eteree
da rapportarsi a una piuma o a un raggio di luce, evocano una figura femminile
degradata tuttavia dalla greve presenza di oggetti materiali quali il
"pappagallo" o "la ruota dell'arrotino", forse segnali di
una monotona ripetitività scandita dall'alternarsi delle albe e dei tramonti.
Nonostante rimandi a numerosi elementi del
quotidiano, la poesia non va letta come un idillio familiare: s'incastrano in
essa di continuo l'uno nell'altro lo strato primo e lo strato onirico.
L'uomo sogna se stesso bambino; in un sonno agitato
rivive la morte dell'allodola "perigliosa annunciatrice dell'alba" e
sulla memoria dell'infanzia s'innesta l'evocazione del presente: la tragedia
della guerra, l'urlo delle sirene, lo schianto delle bombe, le scene di panico.
"Si destano i chiostri e gli ospedali
a un laceri o di trombe."
Qui un filo sotterraneo collega la memoria diurna
della donna divina al sogno infantile dell'allodola lacerata e, con
un'ambiguità tipica di questo terzo libro, ci consegna l'immagine femminile
messaggera del giudizio ultimo ma anche angelo dell'Annunciazione.
Nel finale il sogno infantile si carica di nuove
valenze apocalittiche: sulla morte dell'allodola e sulla memoria di un trauma
infantile s'innesta il giudizio dell'umanità con quel tanto di nuovo che
comporta l'autentico "kairòs", segnato dal confluire del tempo
nell'eterno.
E' la storia riscattata dal giudizio di Dio.
I
bombardamenti, i chiostri, gli ospedali affollati di feriti diventano metafora
del giudizio universale e la figura aviforme riacquista peso e senso come
annunciatrice del nuovo che non è l'alba radiosa della resurrezione ma il
giorno tetro della sentenza ultima.
Possiamo concludere riflettendo sull'avverbio "sempre"
dell'ottavo verso:
"Poi la notte afosa
sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura
fatica di affondare per risorgere eguali
da secoli, o da istanti, d'incubi che non possono
ritrovare la luce dei tuoi occhi nell'antro
incandescente - e ancora le stesse grida e i lunghi
pianti sulla veranda"
che connota la chiusura entro un plumbeo orizzonte, la condanna alla
ripetitività, e sull"'ancora" che, al contrario, rimanda all'idea
kirkegaardiana di un ritorno dell'impossibile, dell'uno, verificato però
soltanto in sogno e tuttavia premonizione del giudizio universale, della
"bufera" come ci ricorda il titolo del libro.
La poesia di Montale è tutta tesa tra la sensazione
angosciante del sempre di contro alla speranza di un ritorno che rompa la
monotonia della ripetitività. In tal caso la memoria montaliana si carica di
un'apertura all' Assoluto, è veramente dialogica proprio perché non demorde
dall'attesa dell'epifania del nuovo anche se incapace di trattenerlo come
accade a Dante nei confronti della visione beatifica di Dio.
E.Montale La
Bufera e altro Milano - Mondadori 1961
GIORNO E NOTTE
Anche una piuma che vola può disegnare
la tua figura, o il raggio che gioca a rimpiattino
tra i mobili,
il rimando dello specchio
di un bambino, dai tetti. Sul giro delle mura
strascichi di vapore prolungano le guglie
dei pioppi e giù sul trespolo s'arruffa il pappagallo
dell'arrotino. Poi la notte afosa
sulla piazzola, e i passi, e sempre questa dura
fatica di affondare per risorgere eguali
dai secoli, o da istanti, d'incubi che non possono
ritrovare la luce dei tuoi occhi nell'antro
incandescente - e ancora le stesse grida e i lunghi
pianti sulla veranda
se rimbomba improvviso il colpo che t'arrossa
la gola e schianta l'ali, o perigliosa
annunziatrice dell'alba,
e si destano i chiostri e gli ospedali
a un lacerio di trombe...
PICCOLO TESTAMENTO
Questo
che a notte balugina
nella
calotta del mio pensiero,
traccia
madreperlacea di lumaca
o
smeriglio di vetro calpestato..:
non
è lume di chiesa o d'officina
che
alimenti
chierico
rosso, o nero.
Solo
quest'iride posso
lasciarti
a testimonianza
d'una
fede che fu combattuta,
d'una
speranza che bruciò più lenta
di
un duro ceppo nel focolare.
Conservane
la cipria nello specchietto
quando
spenta ogni lampada
la
sardana si farà infernale
e
un ombroso Lucifero scenderà su una prora
del
Tamigi, del Hudson, della Senna
scuotendo
l'ali di bitume semi-
mozze
dalla fatica, a dirti: è l'ora.
Non
è un'eredità, un portafortuna
che
può reggere all'urto dei monsoni
sul
fil di ragno della memoria,
ma
una storia non dura che nella cenere
e
persistenza è solo l'estinzione.
Giusto
era il segno: chi l'ha ravvisato
non
può faIlire nel ritrovarti.
Ognuno
riconosce i suoi: l'orgoglio
non
era fuga, l'umiltà non era
vile,
il tenue bagliore strofinato
laggiù
non era quello di un fiammifero.
VOCE GIUNTA CON LE FOLAGHE
Poiché la via percorsa, se mi volgo, è più lunga
del sentiero da capre che mi porta
dove ci scioglieremo come cera,
ed i giunchi fioriti non leniscono il cuore
ma le vermene, il sangue dei cimiteri,
eccoti fuor dal buio
che ti teneva, padre, erto ai barbagli,
senza scialle e berretto, al sordo fremito
che annunciava nell'alba
chiatte di minatori dal gran carico
semisommerse, nere sull'onde alte.
L'ombra che mi accompagna
alla tua tomba, vigile,
e posa sopra un'erma ed ha uno scarto
altero della fronte che le schiara
gli occhi ardenti ed i duri sopraccigli
da un suo biocco infantile,
l'ombra non ha più peso della tua
da tanto seppellita, i primi raggi
del giorno la trafiggono, farfalle
vivaci l'attraversano, la sfiora
la sensitiva e non si rattrappisce.
L'ombra fidata e il muto che risorge,
quella che scorporò l'interno fuoco
e colui che lunghi anni d'oltretempo
(anni per me pesante) disincarnano,
si scambiano parole che interito
sul margine io non odo; l'una forse
ritroverà la forma in cui bruciava
amor di Chi la mosse e non di sé,
ma l'altro sbigottisce e teme che
la larva di memoria in cui si scalda
ai suoi figli si spenga al nuovo balzo.
- Ho pensato per te, ho ricordato
per tutti. Ora ritorni al cielo libero
che ti tramuta. Ancora questa rupe
ti tenta? Sì, la bàttima è la stessa
di sempre, il mare che ti univa ai miei
lidi da prima che io avessi l'ali,
non si dissolve. lo le rammento quelle
mie prode e pur son giunta con le folaghe a
distaccarti dalle tue. Memoria
non è peccato fin che giova. Dopo
è letargo di talpe, abiezione
che funghisce su sé...
Il vento del giorno
confonde l'ombra viva e l'altra ancora
riluttante in un mezzo che respinge
le mie mani, e il respiro mi si rompe
nel punto dilatato, nella fossa
che circonda lo scatto del ricordo.
Così si svela prima di legarsi
a immagini, a parole, oscuro senso
reminiscente, il vuoto inabitato
che occupammo e che attende fin ch'è tempo
di colmarsi di noi, di ritrovarci...
2.
DALL'ETICA ALL'ONTOLOGIA DELLA
PERSONA:
PER UNA RILETTURA DI
DOSTOEVSKIJ
La "Leggenda del
grande inquisitore" è fondamentale nell'opera di Dostoevskij. Secondo
autorevoli filosofi quali Giuseppe Riconda e Sergio Givone rappresenta anche
uno snodo nella storia della cultura russa prerivoluzionaria tra il 1880, data
di pubblicazione dei Fratelli Karamazov, e gli anni della grande guerra.
I nomi di Rosanov, di Chestof, di Berdjaev sono la riprova di come la
"Leggenda", ben lungi dall'essere ritenuta un mero pretesto
narrativo, abbia tormentato gli spiriti più inquieti qualunque sia la posizione
da loro assunta. .
Ebbene, in un luogo
centrale dei "Fratelli Karamazov", nel bel mezzo di una
discussione tra Ivan e Alioscia in un ristorante della Città di provincia dov'è
ambientata la vicenda, Ivan chiede al fratello se conosce le ragioni del loro
incontro: "Forse a noi due, sono cose che ci riguardano - si mise a ridere
Ivan - di quello che preme a noi (problemi di famiglia, torbide situazioni in
cui si è invischiato il padre) avremo pur sempre tempo di discorrere. Tu mi
guardi meravigliato; Ma perché ci troviamo qui insieme? Forse per parlare del
vecchio, o di Dimitri, o dell'este- ro,dell'inquietante
situazione della Russia, dell'imperatore Napoleone. E' per questo?"
"No, non per questo" risponde Alioscia
"Allora lo capisci anche tu - Ivan riprende - A ciascuno la sua
preoccupazione. A noialtri, teneri di becco, interessa prima di ogni altra cosa
risolvere i problemi eterni.
"
Qui è in gioco il problema di Dio e per bocca di Ivan parla Dostoevskij
stesso. Dirà poco più avanti Ivan: "Da dove cominciare? Cominciamo da
Dio?" Il problema di Dio è il "problema" per eccellenza. Non è
una discussione accademica che lascia tutto al punto di prima, ma è qualcosa
che raggiunge le radici stesse dell'esistenza, chiama in causa il
"sottosuolo", tipica espressione dostoevskiana, almeno da un certo
momento della sua produzione in poi, chiama in causa l'essere dell'uomo e
l'Essere stesso.
L'energia con cui Dostoevskij ha posto il problema
del rifiuto di Dio o della sua riaffermazione lo fa ascrivere tra gli
antesignani della filosofia dell'esistenza. Il problema di Dio coinvolge a tal
punto l'uomo da non poter essere accantonato e si situa lungo una linea che
giunge sino a Heidegger e a Sartre.
Il problema di Dio, tuttavia, non sempre viene
affrontato direttamente come nei Fratelli Karamazov, ma resta sullo
sfondo anche nei libri apparentemente disimpegnati quali il Sosia, appartenente
alla produzione giovanile, o in opere in cui non si fa cenno ad esso se non
molto indirettamente come nelle Memorie del sottosuolo che segna una
svolta nella produzione dostoevskiana degli anni sessanta. Non compare
direttamente neppure nei Demoni. E' sempre tacitato, rimosso, rinviato e
tuttavia urgente, come una presenza misteriosamente fascinosa ma anche conturbante,
una presenza addirittura annichilente che s'impone al punto tale da costrin-
gere anche l'indifferente
a pronunciarsi su di essa.
La ricerca di Dio, o
meglio dell' Assoluto, che inizia nell'incertezze nell'angoscia, terminerà
nella certezza e nella gioia, almeno dal punto di vista della finzione
romanzesca, nell'ultima opera senza tuttavia liberare lo scrittore dal dubbio
che reclama il diritto di convivere con la fede.
.Uno dei nodi decisivi della narrativa dostoevskiana ha il
suo nucleo nel cosiddetto "Uomo del sottosuolo" o nel cosiddetto
"sottosuolo" inteso come luogo in cui vivono i personaggi, come
grembo oscuro in cui si agitano pulsioni, istinti repressi, l'inconscio
freudiano potremmo dire con un'anticipazione quasi mitopoietica, e nello
stesso tempo esperienza che sbocca in presenza dello stesso essere.
Esperienza del sottosuolo psicologica, pertanto, ed etica o meglio
antipsicologica ed antietica nel senso che si configura come una
contraddizione in termini di ogni psicologia della verisimiglianza anche dal
punto di vista narrativo e come esaltazione dell'insussistenza della morale. È
la prima affermazione coerentemente nichilistica che tuttavia sbocca dal piano
meramente etico e psicologico al piano ontologico in quanto le strutture
profonde dell'essere sono le strutture stesse del sottosuolo.
Ma chi è l'uomo del sottosuolo? Volendo tentarne una
definizione possiamo vederlo come il primo uomo vuoto apparso nella
letteratura mondiale, il progenitore di Raskolnikov di Delitto e castigo, di
Svidrigailov nella stessa opera, è la forma originaria che assumerà il nulla
profondissimo, senza "limìti, che nei "Demoni" si chiamerà
Stavrogin. L'uomo. del sotto suolo è anche l'ultima incarnazione del demoniaco
rappresentata da Ivan Karamazov.
Se l'uomo del sottosuolo è vuoto, non può possedere
carattere, non condivide alcuno dei sentimenti e delle idee che cadono in quel
"lago d'indifferenza", direbbe Montale, che è il suo cuore, non
sopporta definizioni, è un contrario, un rovescio, il negativo di qualsiasi
negativo.
Pur divorato dalla sete di rendere male per male, non
crede nei propri sentimenti, gli manca quella fiducia in se stesso che dovrebbe
animare la sua sete di vendetta.
All'origine dell"'uomo del sottosuolo" sta
una sottile noia invincibile che avvolge la sua esistenza e rende inutile ogni
tentativo per redimersi da essa. Gli resta una sola risorsa: fingere sentimenti
che non prova per cui si offende, declama, s'innamora, recita le parti del
marito felice, del padre amoroso trapassando insensibilmente da uno stadio
all'altro, attraversando, si può dire, l'intera gamma dei sentimenti umani
senza soffermarsi su alcuno di essi stabilmente, non trovando mai un "ubi
consistam" non c'è esperienza che gli sia estranea ossessionato com'è
dall'ansia di vincere la noia.
Vive così nella menzogna o meglio in uno spazio in
cui il discrimine tra menzogna e verità viene a cadere.
Nello "spirito del sottosuolo" o
"spirito sotterraneo", a seconda di come viene tradotto il titolo del
libro, si colloca l'esperienza del protagonista che pone tutto il suo impegno
nel redimere una prostituta al punto da conquistarla al suo amore e indurla ad
abbandonare la sua vita di perdizione salvo poi congedarsi da lei con una
risata sprezzante e umiliarla gettandole una manciata di rubli quale ricompensa
per il servigio prestato, o meglio mancato.
Questo è lo spirito proprio dchi non crede a nulla: "Amare significa tiranneggiare
e dominare moralmente" scrive infatti l'uomo del sottosuolo: "Durante
tutta la mia vita sono giunto al punto di pensare che l'errore non consista in
altro che nel diritto, liberamente accordato dall'essere amato a colui che ama,
di tiranneggiarlo. Nella mia prima fantasia da sottosuolo, non m'immaginavo
l'amore che come una lotta. Cominciavo sempre con l'odio per finire con
l'assoggettamento morale."
È tipica poi dell'uomo del sottosuolo la
rivendicazione di una libertà senza limi
ti per cui disconosce l'ordine necessario della natura e della ragione.
La
libertà dell'individuo si afferma infatti come rivolta contro la necessità del
l'ordine e della coscienza morale.
Non solo vengono ripudiate le verità matematiche, ma
addirittura nel vissuto concreto l'uomo del sotto suolo rivendica la sua
originalità ricercando sensazioni di dolore, proclama il suo diritto
all'infelicità negando l'idea che la felicità sia una condizione naturale: la
sofferenza diventa il paradiso in cui si crogiola masochisticamente.
Quali le ragioni di questa innaturalità di sentire?
Questo atteggiamento di contraddizione, di rivolta, di negazione, volutamente
sado-masochistico ha una radice che la ragione può illuminare o è avvolto nel
buio dell'irrazionale?
A un'analisi approfondita tale esperienza può
definirsi come una configurazione distorta del rapporto tra l'io e gli altri.
La sfiducia in se stessi, il non-amore di sé hanno come correlato non l'amore,
ma l'odio del prossimo. La sovversione dell'ordine naturale, la non
accettazione della propria finitudine, sfociano nell'odio per gli altri.
Uno strano rapporto lega l'uomo del sotto suolo ai suoi simili.
All'origine c'è una sorta di masochismo: il masochista è l'artefice affascinato
dalla propria infelicità che ricerca quindi l'umiliazione proprio perché
immensamente vanitoso e orgoglioso. La situazione originaria è pertanto una
situazione di peccato che si configura come rivolta contro l'ordine naturale,
come non accettazione dei propri limiti, come superbia sconfinata,
incarnazione moderna della colpa di Adamo. Quest'orgoglio ingenera
un'illusione di onnipotenza tanto più facile da dissipare quanto più è totale.
Tra l'io e gli altri si stabilisce sempre un rapporto e il prestigio che l'uomo
attribuisce a un rivale troppo fortunato diventa così la misura della propria
vanità.
L'orgoglio è una potenza contraddittoria, è l'egoismo
estremo che può convertirsi in apparente abnegazione, può trasformarci
addirittura in schiavi dell'altro il cui successo scatena questa forza di
autonegazione, di automortificazione. E' il peccato mortale di Stavrogin ne I
demoni; non si dimentichi che "Stavros" nella pronuncia russa
del greco "stauròs" è "l'imitatore della croce" non
nell'umiltà ma nella superbia, colui che, deluso dalle esperienze precedenti,
trova nell'umiliazione di sé una ragione di soddisfazione nascosta, occasione
di farsi spettacolo agli altri e giungere così a un' esperienza inedita, a una
sensazione mai assaporata.
Per i
due innamorati di una stessa donna, questa è un pretesto per scatenare il
proprio odio sconfinato per il rivale, stretto parente dell'elogio sperticato
di lui e addirittura dell'umiliazione di sé. Si instaura un rapporto tra il
sadico e il masochistico dove il primo sa di essere funzionale al secondo nel
senso che ne asseconda la voluttà di umiliazione, questi ha ragion d'essere
nella misura in cui trova chi appaga la sua volontà di autoumiliazione.
La morale della generosità è quindi in tal caso
apparente. Nel mondo del sottosuolo regna la verità dell'egoismo,
dell'ambizione, dell'orgoglio, della volontà di prevaricazione. In superficie
non emergono che i cerimoniali di una società vuota in cui il masochista fa
professione di illimitata soggezione agli altri.
Al culmine dell'esperienza del sottosuolo si situa
l'esperienza del doppio, cioè della coscienza scissa e sdoppiata. L'orgoglioso
è infatti colui che si crede uno mentre si divide in un essere disprezzabile
ai suoi occhi e in un osservatore che disprezza. In un certo senso l'io diventa
altro, un altro che assume figura di essere odioso cui tuttavia non si può non
rendere omaggio in quanto incarna la riuscita delle ambizioni frustrate del
soggetto stesso.
Il fallimento delle proprie ambizioni lo costringe a
prendere il partito dell'altro che gli rivela la sua nullità. Si ha quindi una
profonda divisione in cui l'io per un verso si riconosce miserabile, indegno di
pietà e prova vergogna profonda di sé mentre l'altro assume la duplice figura
di chi tiranneggia a buon diritto perché rappresenta l'inveramento dei sogni in
cui l'io è fallito, ma ha anche un volto odioso in quanto è l'ostacolo gettato
sulla strada dell'io e delle sue ambizioni smisurate e quindi tutte fallibili.
Il rapporto con l'altro si configura a questo punto
come un compromesso inevitabile non solo sul piano esistenziale ma, vedremo
più avanti, addirittura metafisico. L'altro viene allora assolutizzato, assume
figura di Dio, rappresenta quella totalità dell'essere di cui ci sente
espropriati. Avviene qui il trapasso dal piano dell'esperienza psicologica ed
etica (anzi della negazione dell'etica) a quello dell'esperienza metafisica.
L'ontologia del sottosuolo ci presenta un essere scisso in cui l'io e l'altro
sono in perpetua guerra. Non solo la storia e l'umanità sono lacerate da
profondi conflitti, ma l'io è tormentato sino alla tomba dal fantasma
dell'altro, dramma emergente soprattutto nell' opera che precede i grandi
romanzi.
Compaiono già segnali nel Sosia e persino in Umiliati
e offesi ma il nodo decisivo è rappresentato dalle Memorie del
sottosuolo dove si narra l'avventura della scissione del proprio io e
dell'impossibile sua ricomposizione.
Il Dostoevskij maggiore dei quattro grandi romanzi: Delitto
e castigo, L'idiota, I demoni, I fratelli Karamazov non fa che dare forma a
queste diverse figure del sottosuolo, scisse e sdoppiate ad eccezione de L'idiota
dove compare un personaggio totalmente positivo che, forse per questo, a
molti non piace.
In Delitto e castigo c'è un tentativo di
uccidere l'altro, di ricomporre questa unità scissa e frantumata. Infatti
Raskolnikov, il cui nome deriva da "raskol" che nella lingua russa
significa "divisione", uccide con lo scopo di porre il suo orgoglio
su basi incrollabili.
Si cerca di oltrepassare l'etica naturale che impone
di non uccidere. Nella vecchia usuraia si uccide un principio, una sorta di
demone del male; si uccidono l'usura e l'avarizia. Egli è cosciente di
pregustare già l'inveramento di un sogno prometeicoromantico che da Nietzsche
in poi si chiamerà il sogno del superuomo.
Raskolnikov, per dare una base sicura al suo orgoglio, immagina che il
suo delitto, escludendolo dalla morale comune, lo preservi dall'irruzione
dell'altro nei propri territori. Ma l'altro ricompare come provano i rimorsi
che assediano la coscienza di Raskolnikov, l'inquietudine che lo opprime subito
dopo il delitto, e lo prova il fatto che il rapporto di soggezione quasi
vittimistico dei romanzi precedenti, dall'Eterno marito alle Memorie
del sottosuolo si instaura anche qui. La figura dell'altro è incarnata da
Porfiri, il giudice inquisitore, e tale è la forza di suggestione emanata da
questi, che l'omicida non avrà alcuna esitazione nel denunciarsi a lui.
L'immagine della sicurezza, della riuscita, il tutore della legge che
Raskolnikov pretendeva di espellere, è proprio incarnata da questi biechi
giudici, burocratici custodi di quell'ordine sociale repressivo che è lo
zarismo. Dal punto di vista di un'analisi meramente socio-politica l'anarchico
rientra nei ranghi della conservazione riconoscendo l'ordine assoluto incarnato
dall'altro. La salvezza avviene per via mistica ma la conversione è appena
intravista, propiziata da una prostituta. Non è un caso che la luce misteriosa
intravista da lontano gli giunga attraverso la lettura del miracolo della
resurrezione di Lazzaro, dal capitolo undicesimo del Vangelo di San Giovanni,
fatta a lui da Sonia stessa.
Nei Demoni il
protagonista, Stavrogin, è oggetto di venerazione da parte di tutti perché agli
occhi di tutti è un dio, non in sé, ma per gli altri. In questa
fenomenologia del sottosuolo dio non esiste, o meglio, esiste per gli altri
nel senso che è l'altro a essere assolutizzato. Qui viene assolutizzato Stavrogin,
oggetto di ammirazione non solo per il padre spirituale, il vecchio Stepan
Verchovenskij, contraffazione del padre della trilogia trinitaria, di cui lui è
figlio adottivo, eletto a preferenza del figlio naturale, Piotr Stefanovic, ma
anche da parte del circolo dei nichilisti che si muove intorno ad essi.
Si compie nei Demoni
il trapasso alla metafisica già preannunciato in Delitto e castigo. E'
proprio in tale opera che l'idolo assume figura di ostacolo permanente e non
rimovibile contro cui si infrangono i sogni del rivale-adoratore. Solo in questa
condizione esso può essere assolutizzato da chi ritiene se stesso un dio e
tende a identificarsi con l'idolo-ostacolo.
Il contatto con
l'idolo avviene nella sofferenza, ed è celebrato nella cornice di un‘immensa
liturgia del male che si specifica nella negazione assoluta, nella dissociazione
e, nelle sue forme più rituali, nella
profanazione, in un Satanismo senza confini.
L'esperienza del sacro è rovesciata nella sua
controfigura e nella parodizzazione
del divino, ma
la sofferenza non è apportatrice di salvezza come quella dell'Evangelo,
propiziata da Sonia Marmeladova che lascia presentire la redenzione Raskolnikov. Essa è un'esperienza che annienta
ed ha come esito ultimo la morte.
Masochismo e
sadismo costituiscono i sacramenti di questa mistica del sottosuolo: la sofferenza cui si votano i suoi adepti non è
espiatrice, ma è un altro risvolto dell'orgoglio smisurato costretto a venire
a patti con l'altro. Orgoglio smisurato perché il sogno prometeico di
divinizzazione di sé è irrealizzabile, perché le risposte della storia sono
limitanti e ogni realizzazione non può che darsi nella finitezza che esclude
l'infinità del sogno.
Qui il Romanticismo consuma la sua estrema parabola. Dostoevskij
rappresenta non solo la liquidazione del Romanticismo, ma fa piazza pulita
delle filosofie pragmatistiche.È stato
detto da un insigne studioso come René Girard che viene qui smascherata
l'utopia della morale dell'utile propugnata dalla borghesia ottocentesca per
cui l'interesse dei singoli coincide con l'interesse comune. Esito ultimo è il
nichilismo che rappresenta una stazione sperimentale per poter ritrovare se non
la fede, la ricomposizone della persona, la ricomposizione in unità e in
armonia dell'io con l'altro. La morale dell'utile è una pseudo-morale. L'opera
dostoevskiana rappresenta la risposta dal versante di Raskolnikov, di Petr
Verchovenskij, di Kirillov, di Stavrogin e di Ivan Karamazov all'insipienza e
all'impraticabilità dell'utopia laico-liberale del pragmatismo ottocentesco.
La cultura del nichilismo che ha assunto l'ego come
misura del mondo, misura illimitata costretta pertanto a venire a un patto, non
più sul piano esistenziale ma metafisico, di non aggressione con l'altro, ha
ucciso consapevolmente Jahvé, il Dio biblico, un dio geloso, morto prima che
Nieztsche lo uccidesse. La filosofia moderna, da Cartesio in poi, è venuta a
uccidere Dio nel senso che loha espropriato delle sue prerogative di
esclusività. Il culto di Jahvé, il "dio geloso", esclude gli idoli,
esclude qualsiasi mediazione, si rende in spirito e verità. Dio lopretende
per sé solo,per cui l'idolatra è l'infedele che devia tale culto sostituendosi
a Dio sia che l'idolo sia lui stesso, sia che venga a compromesso con altri.
L'io assume per sé questa pretesa di esclusività, di culto divino. Ogni
filosofia del soggettoe, detto in termini esistenziali, ogni
soggettività, deve pertanto fondare l'essere del reale nella sua totalità e
affermare le parole con cui Jahvé si rivela a Mosé nel roveto ardente:
"lo sono Colui che è". La pretesa di occupare l'intero orizzonte
dell'essere è il sogno smisurato che si cela già nel "Cogito"
cartesiano e attraversa tutta la parabola della cultura laico-liberale
settecentesca sino all'Illuminismo. La filosofia moderna pretende di fare
della soggettività la fonte unica dell'essere stravolgendo così l'ontologia
classica. È qui che si afferma lo spirito del sottosuoloche secondo
Dostoevskij, uomo dell'oriente slavo, connota la cultura occidentale fondata
sul soggettivismo. L'io non è tuttavia un oggetto contiguo ad altri io oggetto:
è con l'altro in un rapporto ineludibile e tale bipolarità insistita rappresenta
un ostacolo permanente alla divinizzazione dell'uomo, ansia prometeica che
sostiene la cultura moderna da Cartesio a Hegel. Il rapporto con l'altro
comporta questo patto di non aggressione metafisica che, come tutti i patti di
non aggressione, è fittizio e non coglie la profondità dell'essere. La divinità
pertanto non può toccare né all'io né all'altro. Se tocca all'io, l'altro ne è
escluso, ma all'io non potrà mai toccare al di fuori del rapporto dialettico
con l'altro destinato ad essere il bastone gettato fra le ruotedell'io.
Se è così, la divinità non può che essere incessantemente disputata tra l'io e
l'altro.
L'impostazione del
rapporto io-altro come atteggiamento antagonistico non tocca quindi soltanto il
terreno etico. La mancata accettazione dell'altro come persona irriducibile
all'io, il rifiuto di accettare la propria finitudine conseguono alla pretesa
di spossessamento diDio. Le tante soggettività di cui è formata l'umanità,
irriducibili come sono l'una all'altra, non possono infatti che vivere in un
rapporto di permanente dissidio l'esperienza centuplicata del doppio (nel
senso che ciascuno di noi è un doppio). Tale esperienza diviene tuttavia
insopportabile e non può pertanto avere come frutto che la follia suicida di
Ivan, di Kirillov e soprattutto il suicidio disperato di Stavrogin nei Demoni.
Che cosa avviene
secondo lo spirito del sottosuolo?
Secondo la diagnosi
di Kirillov, il grande martire di tale religione del nulla, il male viene dal
desiderio di immortalità acceso da Cristo nell'uomo e Kirillov stesso si uccide
non per la disperazione di non essere immortale, ma per possedere l'infinito
della propria libertà nell'accettazione totale della propria finitezza. Emerge
qui un altro paradosso: l'estrinsecazione della propria infinita libertà è
compiuta nell'atto stesso in cui si accetta la propria finitezza. La sete di
mortalità accesa dal germe dell'Evangelo viene così repressa e il suicidio di
Kirillov diventa gesto esemplare, con una sua efficacia metafisica; egli non
ha più bisogno come Raskolnikov di uccidere l'Assoluto immolando un proprio
simile, uccide se stesso e quindi la pretesa di immortalità nascosta nel suo
io. Kirillov sembra quindi tendere ad una redenzione rovesciata di segno.
Uno strano rapporto di amore e odio a un tempo col
Cristo lo conduce non tanto all'imitazione ma se mai alla parodizzazione
dell'Evento redentivo della Croce quasi volesse correggerlo. Il Cristo assume
quindi la figura di un rivale amato e odiato a un tempo; nella prospettiva
nichilistica di Kirillov, è la reintegrazione più sublime dell'altro che si
cerca di imitare secondo una struttura tipica dell'Evangelo e delle civiltà
postcristiane per cui non si può agire se non assecondando l'impulso ad imitare
l'altro, se non contraffacendo. L'essenza del sottosuolo qui rivelata non è
quindi l'umile imitazione di Gesù, ma l'imitazione orgogliosa e satanica dei
demoni.
Al suicidio di Kirillov, che ha qui significato
esemplare, fa riscontro il suicidio disperato di Stavrogin, di chi pretende di
umiliarsi, ma senza pentimento, sentimento di cui prova vergogna. La
confessione appare invece dettata da una libidine di natura masochistica che fa
annettere all'orizzonte dell'esperienza qualcosa di inedito e spettacolare
senza quel fondo di umiltà autentica, condizione del perdono vero.
Dostoevskij denuncia con spirito veramente profetico
la ricaduta del popolo di Dio e qui, direi, dell'intera civiltà postcristiana
nell'idolatria. Si ripete qui esemplarmente, in filigrana, la storia di
Israele dove però la sofferenza non appare strumento di espiazione, ma
elemento di un inferno in cui ci si autoesalta, dove l'uomo cerca
un'impossibile gioia.
Il mio discorso appare
sino a questo punto tutto incentrato sul negativo in quanto non si è preso in
considerazione L'idiota. Ma il principe Myskin è una presenza gelida
che ritorna nella sua condizione silente di testimone del male del mondo dopo
aver assistito impassibile all'uccisione di Nastasia Filippovna ad opera del
fratello-rivale, probabilmente una delle due anime in cui sdoppia la sua
stessa identità. Rogozin rappresenta la carnalità e Myskin la forma di un'idea
che però non s'incarna proprio perché passa come una meteora e per questo non
redime anche se conquide i bambini e costituisce un polo d'attrazione per le
donne che ne apprezzano la sensibilità. lntravvediamo la redezione solo alla
fine di Delitto e castigo e dei Demoni.
Dostoevskij è il diagnostico implacabile dei mali dell' occidente.
Non chiamerei in causa Il diario di uno scrittore teorico e
prolisso; il grande messaggio è consegnato ai romanzi così come sono
strutturati, al modo in cui ha dato forma al rapporto con l'altro.
La verità è intravista sullo sfondo, vale a dire la
profezia dello scrittore è intrinseca alla sua stessa denuncia: l'esigenza di
una ricomposizione in unità della coscienza lacerata.
Qui il professor Pareyson ha visto molto bene nei
suoi saggi dostoevskiani, che ci auguriamo vengano raccolti in volume, laddove
riconosce che una libertà senza limiti, avulsa da punti di riferimento e da
valori, che ruoti intorno a se stessa come una bussola priva di ago magnetico e
pretenda di attraversare i confini della realtà, assunta come insegna ma non
garantita da Dio, è una libertà del nulla e per il nulla, aperta su di uno
spazio in cui s'insedia il padre della menzogna e il negatore della vita.
Una libertà che Dostoevskij non dice o dice nel
"Buona Pasqua" rivolto da Alesa nel finale dei Karamazov ai
bambini che hanno assistito al banchetto funebre come usava allora nella Russia
zarista. "Ci rivedremo tutti, lo rivedremo Kolia (il figlio di un
ufficiale degradato che viveva in una baracca), lo rivedremo tutti in Paradiso".
È un rinvio all'escatologia dove si compirà la gioia.
Tuttavia il messaggio di Dostoevskij non si limita a
ciò anche se il suo verbo è costantemente animato da un'utopia messianica, di
un messianismo storicamente connotato e con i tratti di un'ideologia slavofila.
Il suo messaggio è il superamento del doppio e quindi dell'allucinazione
(possiamo qui ricordare l'apparizione del diavolo a Ivan e Stavrogin che
rivede se stesso), ricomposizione in unità possibile solo qualora l'uomo
accetti un garante di tale unità e sappia orientare la sua libertà ai valori,
qualora non pretenda di ottenere una libertà assoluta e instauri i rapporti con
l'altro in termini non di ipocrita soggezione, rovescio di un orgoglio
smisurato, ma nell'accettazione della propria finitudine e della libertà
altrui, irriducibile al proprio ego. Da questo punto di vista Dostoevskij pone
veramente le premesse per la rifondazione di un'ontologia ricostituita nella
sua unità e integrità.
3. IL CRISTIANESIMO TRAGICO DI GEORGE BERNANOS
Lo scrittore George Bernanos durante il soggiorno
brasiliano al termine dell'ultima guerra mondiale inviò al suo editore
parigino una breve ('notice bioghraphique" che contiene alcuni cenni,
essenziali nella loro rapidità, sulla sua formazione non solo religiosa, ma
anche morale e umana.
(Traduco puntualmente sperando di essere fedele):
"Se volessi riassumere in poche parole per gli amici l'essenza di ciò che
è stata la mia formazione religiosa e morale, direi di essere stato educato nel
rispetto, nell'amore, ma anche nella più libera comprensione possibile non solo
del passato del mio paese, ma anche della mia religione.
Comprendere per amare, amare per comprendere, in
questo credo consista la nostra più profonda tradizione spirituale nazionale ed
è la ragione che spiega la nostra ripugnanza per ogni forma di fariseismo.
Nella mia famiglia cattolica e monarchica ho sempre sentito parlare con grande
libertà, spesso con severità, e dei monarchici e dei cattolici. lo credo sempre
che non si sarebbe capaci di servire davvero, nel senso tradizionale di questa
splendida parola, se non mantenendo nei confronti della causa che si serve
un'assoluta indipendenza di giudizio. È la regola delle fedeltà senza
conformismi, ossia delle fedeltà autentiche."
Il rapidissimo profilo tracciato da Bernanos stesso
nel '45 dà ragione delle asperità e contraddizioni apparenti, ma anche della
coerenza di un monarchico che, cresciuto in una famiglia
cattolico-reazionaria, non ha mai accettato la democrazia e la repubblica, vagheggiando
un anacronistico ritorno dei Borboni intesi come il solo potere legittimo sul
trono di Francia per diritto divino.
A partire dalla metà degli anni venti entra in forte
collisione con Charles Maurras, nume tutelare della destra francese, esponente
di un nazionalismo lontano dal razzismo hitleriano e dalle venature
imperialistiche proprie di tutti i fascismi e ne prende le distanze negli anni
'30. Nel '36, durante un soggiorno alle Baleari, ha modo di osservare la
repressione franchista con il seguito di crudeltà, arbitri, dispotismo in nome
della crociata anticomunista.
Tornerà in Francia con il terribile pamphlet: I
cimiteri bianchi sotto la luna, forse il primo atto d'accusa venuto da un
uomo della destra conservatrice, già affermatosi come singolarissimo
romanziere con Sous le soleil de Satan, la trilogia pubblicata nel '25,
"La joie" del '29 e l'abbozzo di Monsieur Ouine.
Si tratta di un'accusa insospettata che tuttavia lo
isola e induce taluni ambienti della sinistra a progettare di catturarlo nelle
file del "front populaire", ma le accuse sferzanti mosse
all'ideologia di origine marxista e l'anticomunismo implacabile finiscono per
ghettizzarlo maggiormente. Infatti allo scoppio della guerra, dopo aver dato il
suo appoggio non al governo di Vichy ma a De Gaulle, non si rifugia in Algeria
dove era rimasto un barlume di libertà, ma preferisce l'esilio brasiliano.
Dopo la guerra tornerà in Francia dove manterrà lo stesso atteggiamento
in nome di un assoluto etico che non
trova riscontro nella storia vista come "il regno del male" abitato dal
Principe delle tenebre su cui Dio ha consentito il dominio.
Dal '45 al '50 i suoi rapporti con la quarta
repubblica sono tesi al punto che preferisce vivere in esilio in Tunisia dove
chiuderà i suoi giorni non completando il capolavoro rappresentato dai Dialoghi
delle Carmelitane.
Tali
notizie biografiche ci aiutano a meglio inquadrare uno scrittore che non è solo
romanziere, ma anche il pamphletaire dei Cimiteri sotto la luna, il
diarista di Verrà il vendicatore e il giornalista che scrive sui
maggiori giornali francesi di opinione di destra e di centro quali il Combat
e il Figaro. È l'uomo d'azione, il cittadino, il patriota, il
cristiano.
Postulare una separatezza di ambiti tra il
letterario, la militanza civile e l'impegno religioso sarebbe far torto a
Bernanos e precluderci la comprensione del suo universo etico-religioso.
Riuscirà utile ora citare alcuni passi molto eloquenti
a tal proposito: "Ho lasciato la Spagna nel '37 per rientrare in Francia.
La sconfitta delle coscienze vi faceva prevedere quella degli eserciti. La
triplice corruzione nazista, fascista e marxista non aveva risparmiato quasi
nulla di ciò che mi avevano insegnato a rispettare e ad amare. Ho lasciato
subito il mio paese: non era più possibile per un uomo libero vivervi,
scrivervi e addirittura respirarvi". E nel 1940, dopo la disfatta francese
che precede la costituzione del governo collaborazionista di Vichy, Bernanos,
nel dichiarare il suo atto di fede nella Francia libera gaullista, scrive:
"Non ho grandi speranze di vivere un domani in un mondo libero. Temo per
la libertà una crisi terribile che metterà in pericolo di morte la cristianità
universale. Il fenomeno più singolare della guerra di oggi è che i
totalitarismi non si democraticizzano per nulla, al contrario sono le
democrazie a totalizzarsi."
Bernanos scrive qui in piena coerenza con se stesso e
il suo pessimismo storico troverà conferma nell'industrialismo e nel montante
consumismo del dopoguerra. Uno degli ultimi scritti politici di Bernanos La
France con tre les robots si presenta come un appello alla nazione teso a
imporre un'inversione di marcia alla robotizzazione della società, il peggiore
dei totalitarismi (dopo quello del nazismo e dello stalinismo ).
L'uomo libero è per Bernanos il figlio della grazia,
ma il dramma della libertà si gioca in un universo dominato dalle forze del
male, per cui l'orizzonte storico in cui si situa il combat pour la verité, la
testimonianza per la verità, si realizza in un orizzonte cupo, dominato da
Satana.
Nel '40, anno cruciale per la "défaite", la
vergogna nazionale francese, segno di contraddizione per molti intellettuali,
il Nostro pubblica dall'esilio brasiliano il romanzo: Monsieur Ouine a
cui aveva dedicato sei lunghi anni. La ragione di tale lentezza non è
contingente e investe le condizioni stesse dello scrittore cristiano cui non è
indifferente la fede. In una pagina di Monsieur Ouine, come
capita sovente, l'autore interferisce nel dibattito ideologico dei personaggi
commentando: "È venuta l'ora in cui sulle rovine di ciò che ancora resta
dell'antico ordine cristiano nascerà il nuovo ordine che sarà veramente
l'ordine mondano, l'ordine del principe cui appartiene il regno di questo
mondo. Allora sotto la dura legge della necessità, più forte di ogni illusione,
l'orgoglio degli uomini di chiesa, trattenuto per troppo tempo da semplici
convenzioni sopravvissute alle credenze, avrà perso perfino il suo oggetto.
"
La figura dell' Anticristo trova qui tutta una serie
di incarnazioni storiche: è la corruzione della borghesia finanziaria della
Terza Repubblica, è il dispotismo guerrafondaio nazista e fascista, è il
comunismo, ma è soprattutto il robotizzarsi della Francia, il cadere
dell'Europa sotto la scure di un industrialismo alienante.
Il cristiano può solo opporre in tal caso un rifiuto
radicale raffigurato da Mosè che nel libro dell'Esodo scaglia contro il Faraone
il suo: 'Non serviam': "tra te e Jahvè ho già scelto e non mi piegherò a
servire le potenze di questo secolo."
In tale contesto va visto il pessimismo
cristiano e "tragico" cui si è inteso richiamare con l'intitolazione
di questa relazione pur sapendo che per un cristiano non si dà mai tragedia
pura in quanto gli è sempre aperta la via della redenzione. Sta di fatto che
nell'orizzonte del secolo non vi è tregua per l'anima che vive posseduta dalla
grazia: questo il punto fermo da cui dobbiamo partire per la comprensione di
Bernanos. Il Cristianesimo apocalittico, la sua sfida a tutte le utopie laiche,
ha radici nella sua stessa tragicità. Per comprendere tale affermazione non si
può prescindere da far riferimento a Satana, presenza che si radica dove regna
la santità.
Sarà qui opportuno ricordare le parole che avrebbe
pronunciato Giovanni Paolo II durante una privata riunione nel corso della sua
ultima visita a Torino. "Questa è città di Santi, ed è proprio per questo
che in essa più a lungo Satana si è insediato." Tale parola è stata di
scandalo per i benpensanti, ma non per il cristiano, per chi ha dimestichezza
con le agiografie e con questa letteratura di segno cristiano nata in terra di
Francia cui appartengono scrittori della levatura di Mauriac e soprattutto di
Bernanos. In quest'ultimo Satana ha una centralità assoluta al punto
che il mondo prende quel colorito tenebroso, stigma della sua presenza.
Ciò spiega anche la tetraggine dei paesaggi. Bernanos
è grande paesaggista e scrittore di razza per chi abbia il coraggio di
leggerlo nell'originale, ma di un'asciuttezza e di un'austerità che non
lasciano spazio all'indugio coloristico; non c'è attrazione per certi quadri
"en plein air", il paesaggio interiore da lui definito è veramente
infernale, gravato dalla gelida solitudine in cui vivono le anime possedute dal
maligno; è tutto una psicomachia in cui si contendono il terreno e giocano per
la salvezza o la dannazione Cristo e Satana, i due protagonisti che non
lasciano spazio a comparse.
Non meraviglia quindi che il Nostro abbia dedicato
grande rilievo a figure di sacerdoti. Compaiono i religiosi ricorrenti nei
romanzi fogazzariani; le sue preferenze tuttavia non vanno all'intellettuale
raffinato, al modernista che pretende di conciliare scienza e fede e di
atteggiarsi a teologo dando lezioni ai papi come Don Benedetto Maironi. Tali
"curés" nei romanzi bernanosiani sono presenti per essere
sbeffeggiati e messi alla gogna dalla conduzione stessa del romanzo come gli
Accademici di Francia, vellicati da curiosità agiografiche di cui nel terzo
volume della trilogia, Sotto il sole di Satana il Nostro traccia un
ritratto caricaturale a tutto tondo. In tali figure di religiosi sembra
sbizzarrirsi la vena satirica dell'autore. Lo attrae il "prètre"
negletto, rozzo, come il curato del romanzo L'impostura, "l'abbède
Chevalance". Si tratta di giullari di Dio, apparentemente inesperti, cui spetta
la sola consolazione della grazia, che giocano la loro avventura pastorale in
una situazione di gelo interiore non dissimile da quella di personaggi preda
di Satana. Alludo al "curato di campagna", il miglior personaggio
uscito dalla penna dello scrittore e soprattutto a l'"abbé de Donissan"
della trilogia Sous le soleil de Satan, titolo che non potrebbe essere
più eloquente.
Si tratta di figure prive di un carisma evidente, di un'illustre
tradizione ecclesiastica,appartenenti a famiglie della provincia, destinate dai
vescovi a parrocchie "nere" in cui si è insediato Satana.
Assumendo a modello il "curato di campagna"
o l"'abbé de Chevalance" ci troviamo poi a fare i conti con figure
che si presentano come il loro antitipo quali l'abbè de Cenabre, il dottissimo
scrittore, agiografo, studioso di storia ecclesiastica, protagonista de L'imposture,
il primo romanzo in cui compare un sacerdote, o Monsieur Ouine.
Quest'ultimo albeggia nella fantasia del Nostro nei primi anni trenta e
viene portato a compimento nel' 40. Sempre indeciso, non dice né sì né no ed è
posto al centro di un mondo opposto a quello salvato dalla grazia divina. Di
contro all'infanzia, alla comunione, alla gioia, simmetricamente si pone
l'intelligenza di un uomo invecchiato in una solitudine immedicabile al punto
da non saper amare neppure se stesso.
Caratteristica del personaggio è l'abominevole
tristezza di chi ha soffocato la gioia sotto la spinta della curiosità
demoniaca di tutto conoscere e tutto sapere. Similmente "l'abbé de
Cénabre", il confratello che lo precede di almeno un decennio, scandaglia
i segreti delle anime e scrive splendide agiografie di figure quali Thérèse di
Lisieux o di mistici medievali ai confini dell'eresia come Taulero senza
giungere a cogliere il segreto della santità perché manca l'attrazione per
essa.
Nella tremenda notte in cui tenterà il suicidio si
sentirà rispondere dall'antico compagno di seminario, l'abbé de Chevalance:
"Se non ama se stesso come può amare Dio? " Il curato ama di sé una
larva, un'immagine sublimata, ma quell'intrico verminoso di istinti ripugna al
raffinato intellettuale per cui la partita si gioca sempre su uno scenario
separato che nulla ha a che fare con la profondità dell'anima dove Satana si
beffa di tanta profusione di intelligenza.
Intorno a Monsieur Ouine nella "paroisse
morte", a causa della sua presenza, gli uomini e le cose sono maldicenza,
paura, delitto anonimo. Il grave è che queste "anime perse" non sono
solo intellettuali, raffinati ricercatori e teologi, ma sono pastori che
pretendono di gestire il loro ruolo facendo sfoggio della loro destrezza e
abilità senza mai giungere alle sorgenti della vita spirituale in quanto manca
loro l'amore profondo per le anime che può solo radicarsi nell'amore per il
Cristo, sorgente su cui si fonda anche l'amore per se stessi.
Monsieur Ouine è antifrasi della figura sacerdotale
in una vera e propria comunità notturna, è il prete di Satana che scandaglia
le anime giungendo a una conoscenza di ben altra natwa da quella biblica. Non
scorge mai le possibilità di salvezza, i rischi di perdizione. Nelle anime
scorge solo il gioco complicato delle passioni, dei desideri, le risorse
psicologiche, le manie, le abitudini viziose. Conosce i loro segreti per
poterle manipolare a suo favore e dirigerle a suo modo: è la sua una guida satanica,
mascherata di unzione religiosa, opposta alla direzione spirituale.
La sorgente della sua chiaroveggenza non è pertanto l'amore affascinato
delle anime, l'ansia per la loro sorte eterna: è una pura curiosità
tremendamente acuta, che gli affida le anime indifese come fossero insetti resi
immobili sotto il microscopio. Da buon giocatore usa la sua perspicacia per manovrare
i meccanismi osservati dirigendoli a suo piacere. Tutto in lui è satanico
perché ha perso il gusto dell'amore di sé che è tutt'uno con la gioia di
vivere.
Chi cercasse nei romanzi di Bernanos, così analitico
delle ragioni del peccato, una sorta di attrazione oscura ne andrebbe deluso
perché in lui è troppo presente il senso della noia e il peccato è vissuto come
qualcosa di ripetitivo.
Infatti nel romanzo Les tentations du desespoir, seconda
parte della trilogia Sotto il sole di Satana, l'abate di Donissan dice
alla piccola Mouchette che pretende di custodire gelosamente il segreto
dell'assassinio e della malcelata maternità: "L'individualità non si
rivela mai nel peccato" e la giovane sente di non essere che l'epigona di
un universo dall'incredibilmente monotona, ossessiva e assurda ripetitività.
Mentre la santità si radica nell'individualità e costituisce
l'essere personale, il peccato è il regno dell'anonimato, il luogo della
non-vita dove si consuma la liturgia del Nulla. Qui Bernanos affonda il suo
bisturi implacabile facendo rilevare come il mondo di Satana, il regno della
noia abbia quale logico compimento la consumazione di sé.
L'autore ha raggiunto uno dei punti più alti della
narrativa dostoevskiana che faceva di Satana il grande artefice
dell'annientamento universale.
Così l'abate di Cenabre, grande agiografo ricercato
da tutta la Parigi-bene, prova la tentazione del suicidio una notte in cui ha
inutilmente tentato di vincere il proprio orgoglio: "Non si può dire che
appoggiò l'arma alla tempia, vi si buttò contro in un minuto terribile in cui
l'inferno non è altro che un odio, una fiamma unica sull'anima in pericolo.
Penetra tutto, distruggerebbe l'angelo stesso, non si arresta che ai piedi
della croce." È infatti la croce il limite dove Satana viene vinto, viene
disvelato nel suo odio.
L'abate di Cénabre è salvato da uno strano istinto,
tuttavia Satana resiste ancora nel suo orgoglio: "La semplice
accettazione, la rinuncia alla lotta inutile, il gesto che confessa la
disfatta, sarebbe stato il solo mezzo per aprire la vera sorgente al pianto, ma
egli temeva quella liberazione più di qualunque supplizio. Si disperava, si
odiava nella sua disperazione, ma non poteva avere pietà di sé."
L'uomo ha perduto il gusto per l'amore di sé,
l'orgoglio lo vince ancora: è questa la ragione per cui il dramma non si
conclude e la notte non è liberatrice come lo era stata per l'Innominato.
Se queste figure sono l'antifrasi dell'autentico
sacerdote, il santo non è quello definito dall'agiografia tradizionale. La
santità è un dono tremendo, vocazione privilegiata a portar la croce di tutte
le miserie, antitesi tra grazia e intelligenza. L'antintellettualismo porta
Bernanos a opporre l'intelligenza cartesiana, di buona tradizione francese, a
questa docilità alla grazia che tuttavia convive, in chi non sappia rinunziare
all'uso della "raison", con l'attrazione per la casistica e la
dialettica.
Il santo è immune da tali tentazioni, ma l'essere segno della scelta
divina lo espone alla furia di Satana come ci narra la pagina del romanzo di
Mouchette già ricordato in cui l'abate di Donissan tenta invano di strappare la
giovane suicida agli artigli del Maligno. È racchiusa in quelle righe anche la
storia del lungo calvario che configura l'avventura terrena del sacerdote:
"Voi lo cerchereste invano nella carne più segreta che il vostro
miserabile desiderio attraversa senza assopirsi e la bocca che mordete non
rende se non un sangue freddo, pallido.
È nell'orazione del solitario, nel suo digiuno, nella
sua penitenza, al culmine della più profonda estasi e nel silenzio del cuore
che Satana si rivela. Egli avvelena l'acqua lustrale, brucia nel cero
consacrato, respira nell'alito delle vergini, vi divora nella disciplina,
corrode ogni via. Lo vediamo mentire sulle labbra dischiuse per dispensare la
parola di verità, perseguitare il giusto in mezzo ai buoni e ai lampi
dell'estasi beatifica. Lo vediamo all'opera persino nelle braccia stesse di Dio."
Questo sembra essere il senso della santità, il
terreno esposto più di tutti agli attacchi del Maligno sempre all'erta nella
flagellazione, nel digiuno, nella preghiera macerante. A questo punto ci si può
chiedere se la santità di Bemanos conosca la gioia.
È un profondo sentimento che non trapela, intrinseco
alla fedeltà stessa alla propria vocazione. Non è una gioia sensibile come si
deduce da una lettera datata 18 luglio 1946: "Avviene della speranza come
avviene della fede. La speranza migliore è senza consolazione sensibile. Che
m'importa di sapere se ho la speranza quando io abbia le opere?" Le virtù
teologali, per Bemanos, non conducono a una gioia immediata, non hanno una loro
divisa; la pienezza della vocazione del Santo consiste nella fedeltà al
proprio battesimo, al dovere come pura forma. Siamo lontani da ogni confronto
sensoriale, da ogni eudemonismo: in questo sta la distanza di Bemanos da ogni
umanesimo cristiano.
In un passo
di Sous le soleil de Satan il Nostro fa dire al curato, maestro
spirituale dell'abate di Donissan, che l'uomo quando agisce non è affatto
legato al calcolo e le etiche utilitaristiche non hanno radice nella concreta
umanità: "L'uomo, si pensa, ricercherà soltanto quello che piace, la sua
coscienza lo guiderà nella scelta. Certi balbettamenti non spiegano nulla. In
un simile universo di animali sensibili e raziocinanti non c'è posto per il
santo o bisogna convincerlo di follia."
Siamo ben lontani dalla
manzoniana ricerca di equilibri, non c'è posto per la santità in un mondo fatto
di mezze misure, in un do saggio sapiente di prudenza, di rischio, di coraggio,
d'intelligenza. È la rivolta contro il buonsenso: "E così si fa,
beninteso, ma con così poco non si risolve il problema. Ognuno di noi è, a
volta a volta, in un certo modo, o un santo o un delinquente portato talvolta
al bene non per un giudizioso calcolo approssimativo dell'utilità, ma
chiaramente, singolarmente, per una slancio totale dell'essere, per
un'effusione d'amore che fa della sofferenza e della rinuncia l'oggetto stesso
del desiderio, d'altro canto tormentato dalla smania misteriosa di avvilirsi,
dalla compiacenza di assaporare il gusto della cenere, dalla vertigine
dell'animalesco, incomprensibile nostalgia. .
Cosa importa l'esperienza della vita morale
accumulata da secoli, che importa l'esempio di tanti peccatori disgraziati e
della loro mala sorte? Il male come il bene lo si ama di per se stesso e lo si
serve."
In quest'ultima frase si compendia tutto il movimento
oratorio del discorso e si suggella il radicalismo cristiano del Nostro. Il
male e il bene divengono qui due ipostasi, figure quasi entificate.
Tale radicalismo apparenta Bemanos a Dostoevskij non solo per
l'equazione Satana-Nulla, ma anche per questo antagonismo tra bene e male che
non consentemediazioni. Quale il senso della tragedia? Il
pessimismo non è qui escatologico, ma solo storico. Il centro della teologia
bernanosiana si alimenta al giansenismo francese di Pascal e di Racine.
Quest'ultimo ha proscritto dalla letteratura come esecrabile il compiacimento
della passione che può essere per lo scrittore credente unicamente oggetto di
analisi. È la linea che da Racine raggiunge Manzoni congiunto a Bernanos dalla
simbologia della notte in cui quest'ultimo raggiunge esiti più alti dal punto
di vista della scrittura intesa come manipolazione del tempo narrativo. Mentre
infatti la vicenda dell'Innominato si svolge nello spazio di un capitolo, alla
tentazione dell'abate di Cenabre, che si sviluppa tra mezzanotte- e le quattro
del mattino, sono dedicate ben cento pagine.
In Pascal il pensiero 553 nell'edizione del
Brunschvicg, il famoso "mystère de l'agonie de Jesus", splendido
commento teologico all'episodio evangelico, suona così "Jesus sera en
agonie jusque à la fin du monde. Il ne faut pas dormir pendant ce temps là." L'espressione francese così pregnante allude a un
tempo che si distende per tutti i secoli sino alla piena sconfitta di Satana,
sino all' Apocalisse. È quindi normale che la passione del Cristo e la
sofferenza del credente durino sino alla fine dei secoli. È questo il senso del
tragico cristiano, di una teologia del Venerdì Santo non ignara della lezione
della croce e del prezzo di una Resurrezione che non asciuga le gocce sgorgate
dal costato del Redentore destinate a inondare il mondo nei secoli.
Satana potrà lottare sino alla Parusia finale. Ciò
spiega anche perché non ci sia spazio per una gioia che non sia epidermica,
superficiale, dimentica della partita in gioco, ma dà anche ragione della frase
voluta dal Nostro a epigrafe dei Dialoghi delle Carmelitane, sceneggiatura
per un film ricavata da una novella della scrittrice tedesca Gertrud V on Le
Fort: L'ultima al patibolo.
L'espressione, tratta dal romanzo La gioia, suona
così: "Sotto un certo aspetto, vedete, la paura è comunque figlia di Dio,
riscattata la notte del Venerdì Santo. Non è bella a vedersi, no; ora derisa,
ora maledetta, rinnegata da tutti. Eppure non illudetevi: essa si trova al
capezzale di ogni agonia, essa intercede per l'uomo."
La paura da vizio si trasforma in virtù, diviene
testimone solitaria della sua agonia, riscattata solo dal sacrificio della
croce. Non è un caso che la tragedia delle carmelitane si compia quando la più
debole, Bianca de la Force, vincerà la paura, sua compagna inseparabile fin sul
patibolo.
Non resta che tentare di comprendere la ragione del
lungo tempo impiegato da Bernanos nella composizione di Monsieur Ouine, l'opera
da lui ritenuta il suo capolavoro.
Scrivere un libro significa risalire alla fonte
perduta, al tormento dell'anima da cui è nato. Il bisturi che fruga nell'intimo
dei personaggi scava in se stesso.
Non basta un'analisi intellettuale per giungere alle
proprie scaturigini per cui l'avventura letteraria, come la militanza politica,
finiscono per coincidere con l'avventura stessa del cristiano cui nessuna
garanzia di salvezza si offre e per il quale tutte le esperienze spirituali
sono dei calvari.
4. IL CRISTIANESIMO TRAGICO DI GEORGE BERNANOS
Lo scrittore George Bernanos durante il soggiorno
brasiliano al termine dell'ultima guerra mondiale inviò al suo editore
parigino una breve ('notice bioghraphique" che contiene alcuni cenni,
essenziali nella loro rapidità, sulla sua formazione non solo religiosa, ma
anche morale e umana.
(Traduco puntualmente sperando di essere fedele):
"Se volessi riassumere in poche parole per gli amici l'essenza di ciò che
è stata la mia formazione religiosa e morale, direi di essere stato educato nel
rispetto, nell'amore, ma anche nella più libera comprensione possibile non solo
del passato del mio paese, ma anche della mia religione.
Comprendere per amare, amare per comprendere, in
questo credo consista la nostra più profonda tradizione spirituale nazionale ed
è la ragione che spiega la nostra ripugnanza per ogni forma di fariseismo.
Nella mia famiglia cattolica e monarchica ho sempre sentito parlare con grande
libertà, spesso con severità, e dei monarchici e dei cattolici. lo credo sempre
che non si sarebbe capaci di servire davvero, nel senso tradizionale di questa
splendida parola, se non mantenendo nei confronti della causa che si serve
un'assoluta indipendenza di giudizio. E' la regola delle fedeltà senza
conformismi, ossia delle fedeltà autentiche."
Il rapidissimo profilo tracciato da Bernanos stesso
nel '45 dà ragione delle asperità e contraddizioni apparenti, ma anche della
coerenza di un monarchico che, cresciuto in una famiglia
cattolico-reazionaria, non ha mai accettato la democrazia e la repubblica,
vagheggiando un anacronistico ritorno dei Borboni intesi come il solo potere
legittimo sul trono di Francia per diritto divino.
A partire dalla metà degli anni venti entra in forte
collisione con Charles Maurras, nume tutelare della destra francese, esponente
di un nazionalismo lontano dal razzismo hitleriano e dalle venature imperialistiche
proprie di tutti i fascismi e ne prende le distanze negli anni '30. Nel '36,
durante un soggiorno alle Baleari, ha modo di osservare la repressione
franchista con il seguito di crudeltà, arbitri, dispotismo in nome della
crociata anticomunista.
Tornerà in Francia con il terribile pamphlet: I
cimiteri bianchi sotto la luna, forse il primo atto d'accusa venuto da un
uomo della destra conservatrice, già affermatosi come singolarissimo
romanziere con Sous le soleil de Satan, la trilogia pubblicata nel '25,
"La joie" del '29 e l'abbozzo di Monsieur Ouine.
Si tratta di un'accusa insospettata che tuttavia lo
isola e induce taluni ambienti della sinistra a progettare di catturarlo nelle
file del "front populaire", ma le accuse sferzanti mosse all'ideologia
di origine marxista e l'anticomunismo implacabile finiscono per ghettizzarlo
maggiormente. Infatti allo scoppio della guerra, dopo aver dato il suo appoggio
non al governo di Vichy ma a De Gaulle, non si rifugia in Algeria dove era
rimasto un barlume di libertà, ma preferisce l'esilio brasiliano.
Dopo la guerra tornerà in Francia dove manterrà lo stesso
atteggiamento in nome di un assoluto etico che non trova riscontro nella storia
vista come "il regno del male" abitato dal Principe delle tenebre su cui
Dio ha consentito il dominio.
Dal '45 al '50 i suoi rapporti con la quarta
repubblica sono tesi al punto che preferisce vivere in esilio in Tunisia dove
chiuderà i suoi giorni non completando il capolavoro rappresentato dai Dialoghi
delle Carmelitane.
Tali
notizie biografiche ci aiutano a meglio inquadrare uno scrittore che non è
solo romanziere, ma anche il pamphletaire dei Cimiteri sotto la luna,
il diarista di
Verrà il vendicatore e il giornalista che scrive sui maggiori giornali
francesi di opinione di destra e di centro quali il Combat e il Figaro.
È l'uomo d'azione, il cittadino, il patriota, il cristiano.
Postulare una separatezza di ambiti tra il
letterario, la militanza civile e l'impegno religioso sarebbe far torto a
Bernanos e precluderci la comprensione del suo universo etico-religioso.
Riuscirà utile ora citare alcuni passi molto
eloquenti a tal proposito: "Ho lasciato la Spagna nel '37 per rientrare
in Francia. La sconfitta delle coscienze vi faceva prevedere quella degli
eserciti. La triplice corruzione nazista, fascista e marxista non aveva
risparmiato quasi nulla di ciò che mi avevano insegnato a rispettare e ad
amare. Ho lasciato subito il mio paese: non era più possibile per un uomo
libero vivervi, scrivervi e addirittura respirarvi". E nel 1940, dopo la
disfatta francese che precede la costituzione del governo collaborazionista di
Vichy, Bernanos, nel dichiarare il suo atto di fede nella Francia libera
gaullista, scrive: "Non ho grandi speranze di vivere un domani in un mondo
libero. Temo per la libertà una crisi terribile che metterà in pericolo di
morte la cristianità universale. Il fenomeno più singolare della guerra di
oggi è che i totalitarismi non si democraticizzano per nulla, al contrario sono
le democrazie a totalizzarsi."
Bernanos scrive qui in piena coerenza con se stesso e
il suo pessimismo storico troverà conferma nell'industrialismo e nel montante
consumismo del dopoguerra. Uno degli ultimi scritti politici di Bernanos La
France con tre les robots si presenta come un appello alla nazione teso a
imporre un'inversione di marcia alla robotizzazione della società, il peggiore
dei totalitarismi (dopo quello del nazismo e dello stalinismo ).
L'uomo libero è per Bernanos il figlio della grazia,
ma il dramma della libertà si gioca in un universo dominato dalle forze del
male, per cui l'orizzonte storico in cui si situa il combat pour la verité, la
testimonianza per la verità, si realizza in un orizzonte cupo, dominato da
Satana.
Nel '40, anno cruciale per la "défaite", la
vergogna nazionale francese, segno di contraddizione per molti intellettuali,
il Nostro pubblica dall'esilio brasiliano il romanzo: Monsieur Ouine a
cui aveva dedicato sei lunghi anni. La ragione di tale lentezza non è
contingente e investe le condizioni stesse dello scrittore cristiano cui non è
indifferente la fede. In una pagina di Monsieur Ouine, come
capita sovente, l'autore interferisce nel dibattito ideologico dei personaggi
commentando: "È venuta l'ora in cui sulle rovine di ciò che ancora resta
dell'antico ordine cristiano nascerà il nuovo ordine che sarà veramente
l'ordine mondano, l'ordine del principe cui appartiene il regno di questo
mondo. Allora sotto la dura legge della necessità, più forte di ogni illusione,
l'orgoglio degli uomini di chiesa, trattenuto per troppo tempo da semplici
convenzioni sopravvissute alle credenze, avrà perso perfino il suo oggetto.
"
La figura dell' Anticristo trova qui tutta una serie
di incarnazioni storiche: è la corruzione della borghesia finanziaria della
Terza Repubblica, è il dispotismo guerrafondaio nazista e fascista, è il
comunismo, ma è soprattutto il robotizzarsi della Francia, il cadere
dell'Europa sotto la scure di un industrialismo alienante.
Il cristiano può solo opporre in tal caso un rifiuto
radicale raffigurato da Mosè che nel libro dell'Esodo scaglia contro il Faraone
il suo: 'Non serviam': "tra te e lahvè ho già scelto e non mi piegherò a
servire le potenze di questo secolo."
In tale contesto va visto il pessimismo
cristiano e "tragico" cui si è inteso richiamare con l'intitolazione
di questa relazione pur sapendo che per un cristiano non si dà mai tragedia
pura in quanto gli è sempre aperta la via della redenzione. Sta di fatto che
nell'orizzonte del secolo non vi è tregua per l'anima che vive posseduta dalla
grazia: questo il punto fermo da cui dobbiamo partire per la comprensione di
Bernanos. Il Cristianesimo apocalittico, la sua sfida a tutte le utopie laiche,
ha radici nella sua stessa tragicità. Per comprendere tale affermazione non si
può prescindere da far riferimento a Satana, presenza che si radica dove regna
la santità.
, Sarà qui opportuno ricordare le parole che avrebbe
pronunciato Giovanni Paolo II durante una privata riunione nel corso della sua
ultima visita a Torino. "Questa è città di Santi, ed è proprio per questo
che in essa più a lungo Satana si è insediato." Tale parola è stata di
scandalo per i benpensanti, ma non per il cristiano, per chi ha dimestichezza
con le agiografie e con questa letteratura di segno cristiano nata in terra di
Francia cui appartengono scrittori della levatura di Mauriac e soprattutto di
Bernanos. In quest'ultimo Satana ha una centralità assoluta al punto
che il mondo prende quel colorito tenebroso, stigma della sua presenza.
Ciò spiega anche la tetraggine dei paesaggi. Bernanos
è grande paesaggista e scrittore di razza per chi abbia il coraggio di
leggerlo nell'originale, ma di un'asciuttezza e di un'austerità che non
lasciano spazio all'indugio coloristico; non c'è attrazione per certi quadri
"en plein air", il paesaggio interiore da lui definito è veramente
infernale, gravato dalla gelida solitudine in cui vivono le anime possedute dal
maligno; è tutto una psicomachia in cui si contendono il terreno e giocano per
la salvezza o la dannazione Cristo e Satana, i due protagonisti che non
lasciano spazio a comparse.
Non
meraviglia quindi che il Nostro abbia dedicato grande rilievo a figure di
sacerdoti. Compaiono i religiosi ricorrenti nei romanzi fogazzariani; le sue
preferenze tuttavia non vanno all'intellettuale raffinato, al modernista che
pretende di conciliare scienza e fede e di atteggiarsi a teologo dando lezioni
ai papi come Don Benedetto Maironi. Tali "curés" nei romanzi
bernanosiani sono presenti per essere sbeffeggiati e messi alla gogna dalla
conduzione stessa del romanzo come gli Accademici di Francia, vellicati da
curiosità agiografiche di cui nel terzo volume della trilogia, Sotto il sole
di Satana il Nostro traccia un ritratto caricaturale a tutto tondo. In tali
figure di religiosi sembra sbizzarrirsi la vena satirica dell'autore. Lo attrae
il "prètre" negletto, rozzo, come il curato del romanzo L'impostura,
"l'abbède Chevalance". Si tratta di giullari di Dio,
apparentemente inesperti, cui spetta la sola consolazione della grazia, che
giocano la loro avventura pastorale in una situazione di gelo interiore non
dissimile da quella di personaggi preda di Satana. Alludo al "curato di
campagna", il miglior personaggio uscito dalla penna dello scrittore e
soprattutto a l"'abbé de Donissan" della trilogia Sous le soleil
de Satan, titolo che non potrebbe essere più eloquente.
Si tratta di figure prive di un carisma evidente, di un'illustre
tradizione ecclesiastica,
appartenenti a famiglie della provincia, destinate dai vescovi a
parrocchie "nere" in cui si è insediato Satana.
Assumendo a modello il "curato di campagna"
o l"'abbé de Chevalance" ci troviamo poi a fare i conti con figure
che si presentano come il loro antitipo quali l'abbè de Cenabre, il dottissimo
scrittore, agiografo, studioso di storia ecclesiastica, protagonista de L'imposture,
il primo romanzo in cui compare un sacerdote, o Monsieur Ouine.
Quest'ultimo albeggia nella fantasia del Nostro nei
primi anni trenta e viene portato a compimento nel' 40. Sempre indeciso, non
dice nè sì nè no ed è posto al centro di un mondo opposto a quello salvato
dalla grazia divina. Di contro all'infanzia, alla comunione, alla gioia,
simmetricamente si pone l'intelligenza di un uomo invecchiato in una
solitudine immedicabile al punto da non saper amare neppure se stesso.
Caratteristica del personaggio è l'abominevole
tristezza di chi ha soffocato la gioia sotto la spinta della curiosità
demoniaca di tutto conoscere e tutto sapere. Similmente "l'abbé de
Cénabre", il confratello che lo precede di almeno un decennio, scandaglia
i segreti delle anime e scrive splendide agiografie di figure quali Thérèse di
Lisieux o di mistici medievali ai confini dell'eresia come Taulero senza
giungere a cogliere il segreto della santità perché manca l'attrazione per
essa.
Nella tremenda notte in cui tenterà il suicidio si
sentirà rispondere dall'antico compagno di seminario, l'abbé de Chevalance:
"Se non ama se stesso come può amare Dio? " Il curato ama di sé una
larva, un'immagine sublimata, ma quell'intrico verminoso di istinti ripugna al
raffinato intellettuale per cui la partita si gioca sempre su uno scenario
separato che nulla ha a che fare con la profondità dell'anim_ dove Satana si
beffa di tanta profusione di intelligenza.
Intorno a Monsieur Ouine nella "paroisse
morte", a causa della sua presenza, gli uomini e le cose sono maldicenza,
paura, delitto anonimo. Il grave è che queste "anime perse" non sono
solo intellettuali, raffinati ricercatori e teologi, ma sono pastori che
pretendono di gestire il loro ruolo facendo sfoggio della loro destrezza e
abilità senza mai giungere alle sorgenti della vita spirituale in quanto manca
loro l'amore profondo per le anime che può solo radicarsi nell'amore per il
Cristo, sorgente su cui si fonda anche l'amore per se stessi.
Monsieur Ouine è antifrasi della figura sacerdotale
in una vera e propria comunità notturna, è il prete di Satana che scandaglia
le anime giungendo a una conoscenza di ben altra natura da quella biblica. Non
scorge mai le possibilità di salvezza, i rischi di perdizione. Nelle anime
scorge solo il gioco complicato delle passioni, dei desideri, le risorse
psicologiche, le manie, le abitudini viziose. Conosce i loro segreti per
poterle manipolare a suo favore e dirigerle a suo modo: è la sua una guida satanica,
mascherata di unzione religiosa, opposta alla direzione spirituale.
La sorgente della sua chiaroveggenza non è pertanto l'amore affascinato
delle
anime, l'ansia per la loro sorte
eterna: è una pura curiosità tremendamente acuta, che gli affida le anime
indifese come fossero insetti resi immobili sotto il microscopio. Da buon
giocatore usa la sua prespicacia per manovrare i meccanismi osservati
dirigendoli a suo piacere. Tutto in lui è satanico perché ha perso il gusto
dell'amore di sé che è tutt'uno con la gioia di vivere.
Chi cercasse nei romanzi di Bernanos, così analitico
delle ragioni del peccato, una sorta di attrazione oscura ne andrebbe deluso
perché in lui è troppo presente il senso della noia e il peccato è vissuto come
qualcosa di ripetitivo.
Infatti nel romanzo Les tentations du desespoir, seconda-parte
della trilogia Sotto il sole di Satana, l'abate di Donissan dice alla
piccola Mouchette che pretende di custodire gelosamente il segreto
dell'assassinio e della malcelata maternità: "L'individualità non si
rivela mai nel peccato" e la giovane sente di non essere che l'epigona di
un universo dall'incredibilmente monotona, ossessiva e assurda ripetitività.
Mentre la santità si radica nell'individualità e
costituisce l'essere personale, il peccato è il regno dell'anonimato, il luogo
della non-vita dove si consuma la liturgia del Nulla. Qui Bernanos affonda il
suo bisturi implacabile facendo rilevare come il mondo di Satana, il regno
della noia abbia quale logico compimento la consumazione di sé.
L'autore ha raggiunto uno dei punti più alti della
narrativa dostoevskiana che faceva di Satana il grande artefice
dell'annientamento universale.
Così l'abate di Cenabre, grande agiografo ricercato
da tutta la Parigi-bene, prova la tentazione del suicidio una notte in cui ha
inutilmente tentato di vincere il proprio orgoglio: "Non si può dire che
appoggiò l'arma alla tempia, vi si buttò contro in un minuto terribile in cui
l'inferno non è altro che un odio, una fiamma unica sull'anima in pericolo.
Penetra tutto, distruggerebbe l'angelo stesso, non si arresta che ai piedi
della croce." È infatti la croce il limite dove Satana viene vinto, viene
disvelato nel suo odio.
L'abate di Cénabre è salvato da uno strano istinto,
tuttavia Satana resiste ancora nel suo orgoglio: "La semplice
accettazione, la rinuncia alla lotta inutile, il gesto che confessa la disfatta,
sarebbe stato il solo mezzo per aprire la vera sorgente al pianto, ma egli
temeva quella liberazione più di qualunque supplizio. Si disperava, si odiava
nella sua disperazione, ma non poteva avere pietà di sé."
L'uomo ha perduto il gusto per l'amore di sé, l'orgoglio lo vince
ancora: è questa la ragione per cui il dramma non si conclude e la notte non è
liberatrice come lo era stata per l'Innominato.
Se queste figure sono l'antifrasi dell'autentico
sacerdote, il santo non è quello definito dall'agiografia tradizionale. La
santità è un dono tremendo, vocazione privilegiata a portar la croce di tutte
le miserie, antitesi tra grazia e intelligenza. L'antintellettualismo porta
Bernanos a opporre l'intelligenza cartesiana, di buona tradizione francese, a
questa docilità alla grazia che tuttavia convive, in chi non sappia rinunziare
all'uso della "raison", con l'attrazione per la casistica e la
dialettica.
Il santo è immune da tali tentazioni, ma l'essere
segno della scelta divina lo espone.
alla furia di Satana come ci narra la pagina del romanzo
di Mouchette già ricordato in cui l'abate di Donissan tenta invano di strappare
la giovane suicida agli artigli del Maligno. È racchiusa in quelle righe anche
la storia del lungo calvario che configura l'avventura terrena del sacerdote:
"Voi lo cerchereste invano nella carne più segreta che il vostro
miserabile desiderio attraversa senza assopirsi e la bocca che mordete non
rende se non un sangue freddo, pallido.
È nell'orazione del solitario, nel suo digiuno, nella
sua penitenza, al culmine della più profonda estasi e nel silenzio del cuore
che Satana si rivela. Egli avvelena l'acqua lustrale, brucia nel cero
consacrato, respira nell'alito delle vergini, vi divora nella disciplina,
corrode ogni via. Lo vediamo mentire sulle labbra dischiuse per dispensare la
parola di verità, perseguitare il giusto in mezzo ai buoni e ai lampi
dell'estasi beatifica. Lo vediamo all'opera persino nelle braccia stesse di
Dio."
Questo sembra essere il senso della santità, il terreno
esposto più di tutti agli attacchi del Maligno sempre all'erta nella
flagellazione, nel digiuno, nella preghiera macerante. A questo punto ci si può
chiedere se la santità di Bemanos conosca la gioia.
È un profondo sentimento che non trapela, intrinseco
alla fedeltà stessa alla propria vocazione. Non è una gioia sensibile come si
deduce da una lettera datata 18 luglio 1946: "Avviene della speranza come
avviene della fede. La speranza migliore è senza consolazione sensibile. Che
m'importa di sapere se ho la speranza quando io abbia le opere?" Le virtù
teologali, per Bemanos, non conducono a una gioia immediata, non hanno una loro
divisa; la pienezza della vocazione del Santo consiste nella fedeltà al
proprio battesimo, al dovere come pura forma.
Siamo lontani da ogni confronto sensoriale, da ogni
eudemonismo: in questo sta la distanza di Bemanos da ogni umanesimo cristiano.
In un passo di Sous le soleil de Satan il Nostro fa dire al curato,
maestro spirituale dell'abate di Donissan, che l'uomo quando agisce non è
affatto legato al calcolo e le etiche utilitaristiche non hanno radice nella
concreta umanità: "L'uomo, si pensa, ricercherà soltanto quello che piace,
la sua coscienza lo guiderà nella scelta. Certi balbettamenti non spiegano nulla.
In un simile universo di animali sensibili e raziocinanti non c'è posto per il
santo o bisogna convincerlo di follia."
Siamo ben lontani dalla
manzoniana ricerca di equilibri, non c'è posto per la santità in un mondo fatto
di mezze misure, in un do saggio sapiente di prudenza, di rischio, di coraggio,
d'intelligenza. È la rivolta contro il buonsenso: "E così si fa,
beninteso, ma con così poco non si risolve il problema. Ognuno di noi è, a
volta a volta, in un certo modo, o un santo o un delinquente portato talvolta
al bene non per un giudizioso calcolo approssimativo dell'utilità, ma
chiaramente, singolarmente, per una slancio totale dell'essere, per
un'effusione d'amore che fa della sofferenza e della rinuncia l'oggetto stesso
del desiderio, d'altro canto tormentato dalla smania misteriosa di avvilirsi,
dalla compiacenza di assaporare il gusto della cenere, dalla vertigine
dell'animalesco, incomprensibile nostalgia. .
Cosa importa l'esperienza della vita morale
accumulata da secoli, che importa l'esempio di tanti peccatori disgraziati e
della loro mala sorte? Il male come il bene lo si ama di per se stesso e lo si
serve."
In quest'ultima frase si compendia tutto il movimento
oratorio del discorso e si suggella il radicalismo cristiano del Nostro. Il
male e il bene divengono qui due ipostasi, figure quasi entificate.
Tale radicalismo apparenta Bemanos a Dostoevskij non solo
per l'equazione Satana-Nulla, ma anche per questo antagonismo tra bene e male
che non consente mediazioni. Quale il senso della tragedia? Il pessimismo non è
qui escatologico, ma solo storico. Il centro della teologia bernanosiana si
alimenta al giansenismo francese di Pascal e di Racine. Quest'ultimo ha
proscritto dalla letteratura come esecrabile il compiacimento della passione
che può essere per lo scrittore credente unicamente oggetto di analisi. È la
linea che da Racine raggiunge Manzoni congiunto a Bernanos dalla simbologia
della notte in cui quest'ultimo raggiunge esiti più alti dal punto di vista
della scrittura intesa come manipolazione del tempo narrativo. Mentre infatti
la vicenda dell'Innominato si svolge nello spazio di Ufi capitolo, alla
tentazione dell'abate di Cenabre, che si sviluppa tra mezzanotte- e le quattro
del mattino, sono dedicate ben cento pagine.
In Pascal il pensiero 553 nell'edizione del
Brunschvicg, il famoso "mystère de l'agonie de Jesus", splendido
commento teologico all'episodio evangelico, suona così "Jesus sera en
agonie jusque à la fin du monde. Il ne faut pas dormir pendant ce temps là." L'espressione francese così pregnante allude a un
tempo che si distende per tutti i secoli sino alla piena sconfitta di Satana,
sino all' Apocalisse. È quindi normale che la passione del Cristo e la
sofferenza del crredente durino sino alla fine dei secoli. È questo il senso
del tragico cristiano, di una teologia del Venerdì Santo non ignara della
lezione della croce e del prezzo di una Resurrezione che non asciuga le gocce
sgorgate dal costato del Redentore destinate a inondare il mondo nei secoli.
Satana potrà lottare sino alla Parusia finale. Ciò
spiega anche perchè non ci sia spazio' per una gioia che non sia epidermica,
superficiale, dimentica della partita in gioco, ma dà anche ragione della frase
voluta dal Nostro a epigrafe dei Dialoghi delle Carmelitane, sceneggiatura
per un film ricavata da una novella della scrittrice tedesca Gertrud V on Le
Fort: L'ultima al patibolo.
L'espressione, tratta dal romanzo La gioia, suona
così: "Sotto un certo aspetto, vedete, la paura è comunque figlia di Dio,
riscattata la notte del Venerdì Santo. Non è bella a vedersi, no; ora derisa,
ora maledetta, rinnegata da tutti. Eppure non illudetevi: essa si trova al
capezzale di ogni agonia, essa intercede per l'uomo."
La paura da vizio si trasforma in virtù, diviene
testimone solitaria della sua agonia, riscattata solo dal sacrificio della
croce. Non è un caso che la tragedia delle carmelitane si compia quando la più
debole, Bianca de la Force, vincerà la paura, sua compagna inseparabile fin sul
patibolo.
Non resta che tentare di comprendere la ragione del
lungo tempo impiegato da Bernanos nella composizione di Monsieur Ouine, l'opera
da lui ritenuta il suo capolavoro.
Scrivere un libro significa risalire alla fonte
perduta, al tormento dell'anima da cui è nato. Il bisturi che fruga nell'intimo
dei personaggi scava in se stesso.
Non basta un'analisi intellettuale per giungere alle
proprie scaturigini per cui l'avventura letteraria, come la militanza
politica, finiscono per coincidere con l'avventura stessa del cristiano cui
nessuna garanzia di salvezza si offre e per il quale tutte le esperienze
spirituali sono dei calvari.
5. Pace e convivenza tra i popoli in letteratura
Nel suo romanzo, composto
nella cella di un carcere nazista e pubblicato nel dopoguerra, La morte di
Virgilio, il romanziere austriaco Hermann Broch immagina un colloquio tra
Virgilio morente e Cesare Ottaviano sul futuro di Roma imperiale, e in
particolare sul modo di mantenere la pace: "Faticoso era il respiro.
faticosa la parola, faticosa la lotta contro la sempre vigile diffidenza di
Cesare, contro il suo suscettibile orgoglio: "Senza spada è la pace che tu
hai fondata all'interno dell'impero, o Cesare, e senza spada essa abbraccerà
tutto il mondo". "Giusto [...] e io cercherò di ordinare la pace
mediante trattati e non con la spada; per quanto l'ombra della spada debba
stare dietro al trattato perché nessuno lo infranga". "Nel regno
della conoscenza la spada diventerà superflua".
"L'imperatore alzò gli occhi quasi stupito:
"Non vuoi premunirti contro eventuali violazioni dei trattati e dei
patti? e come vorresti attuarlo senza l'aiuto delle legioni?"
L'incomprensione tra i due
è totale; per l'uno, lo statista, non vi è che una forma di convivenza
pacifica tra i popoli, quella garantita dalla armi a presidio dei trattati; per
il poeta, l'imperium sine fine, illimitato nel tempo, al di fuori di
ogni coordinata spaziale, è l'impero della conoscenza, di cui il dominio di
Roma non è che un'allegoria.
In ogni caso, sia l'ideale sapienziale di Virgilio,
con i suoi tratti di esoterismo, sia il realismo del politico, sono lontani
dalla visione cristiana della pace, come è delineata con divina semplicità nel
Nuovo Testamento, dall'Evangelo di Giovanni, 14,27 a-b ("Vi lascio la mia
pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi. Non sia
turbato il vostro cuore e non abbia timore"), ai testi paolini della Lettera
ai Tèssalonicesi 3,16 ("Il Signore della pace vi dia egli stesso la
sua pace sempre e in ogni modo"), della Lettera agli Efesini 2,14
19, che identificano in Cristo il fondamento della pace ("Egli è infatti
la nostra pace"), alle esortazioni dell'Apostolo contenute in più passi
della Lettera ai Romani (8, 6: ... i desideri dello Spirito sono vita e
pace" 12,18: "Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in
pace con tutti").
Nella letteratura patristica, tra le tante
testimonianze di ripudio della guerra, ci basti selezionare quella di San
Cipriano (IlI sec. d.C): "Il mondo è bagnato di sangue fraterno:
l'omicidio è crimine quando sono i singoli a commetterlo, ma diventa virtù
quando è compiuto in nome dello stato!
Questa impunità dai delitti non è causata da
innocenza e giustizia, ma dalla grandezza della ferocia" (A Donato, 6).
L'insegnamento della Chiesa Cattolica si riassume nella Costituzione Pastorale Gaudium
et Spes su La Chiesa nel mondo contemporaneo (capitolo V, nn. 77
90), tra i più importanti documenti del Concilio Vaticano II: "La pace non
è la semplice assenza della guerra, né può ridursi unicamente a rendere
stabile l'equilibrio delle forze contrastanti, né è l'effetto di una dispotica
dominazione, ma essa viene con tutta esattezza definita opera della giustizia.
E' il frutto dell'ordine impresso nella umana società dal suo Fondatore e che
deve essere attuato dagli uomini che aspirano ardentemente a una giustizia
sempre più perfetta [...] La pace non è stata mai qualcosa di stabilmente raggiunto,
ma è un edificio da costruirsi continuamente (n. 78 a).
In particolare, "ogni atto di guerra che
indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e
dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità, e con
fermezza e senza esitazione deve essere condannato (n. 80 d)."
Alla condanna della guerra totale come crimine contro
Dio e l'umanità fanno seguito le proposte per la prevenzione e la soluzione dei
conflitti, quali l'istituzione di organismi internazionali; la cooperazione
internazionale sul piano (nn. 84-85), il compito dei cristiani nell'aiuto
economico agli altri paesi, l'efficace presenza della Chiesa nelle istituzioni
e dei cristiani in detti organismi (nn. 88-90), l'arresto alla corsa agli
armamenti.
Il riconoscimento del diritto alla legittima difesa
non autorizza l'imposizione del dominio su altre nazioni (nn. 79).
Ci si perdoni il
lungo indugio sulla posizione della Chiesa per quanto riguarda la convivenza
tra i popoli. Esso valga solo a segnare la distanza tra una concezione passiva
della pace, a cui si ispira lo stesso gesto di Antigone, che con la sepoltura
del fratello rivendicando i diritti dei morti afferma una sorta di trascendenza
della morte sulla vita, e la prassi inaugurata dal Cristianesimo di una promozione
della pace, in termini di collaborazione attiva, non di aristocratico isolamento
o di fuga da un mondo dominato dalla discordia e dall' odio.
E' il rischio che corrono, per rimanere nell'ambito
della letteratura di lingua tedesca del Novecento, scrittori contemporanei del
già citato Broch, come Ernst Wiechert, romanziere di successo anche in Italia
tra i tardi anni Quaranta e i primi anni Cinquanta del secolo scorso, che con La
vita semplice propone nel ritorno alla Natura, nell'estraniarsi dalla vita
urbana, la guarigione di ogni male, o come il celebratissimo autore di Siddharta
Hermann Hesse, con la sua evasione in un passato utopico e la sua
rievocazione della musica del Seicento e del Settecento ne Il gioco delle
perle di vetro. Sia in Hesse che in Wiechert, il tempo è abolito; la fuga
dal presente storico approda a un umanitarismo che condanna la storia in nome
della natura.
Ben altra è la lezione che ci proviene da uno scritto
in forma di diario Nulla di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria
Remarque, tra le più straordinarie testimonianze della crudeltà
dell'estenuante guerra di posizione, quale fu la prima guerra mondiale.
In nessuna opera degli scrittori citati, eccezion
fatta per l'ultimo, che tuttavia insiste più sugli orrori e sulle devastazioni
provocati dalla guerra sulla psiche giovanile che non sulla violazione delle
norme etiche statuite sulla base di principi imprescrittibili, l'amore della
pace provoca una mobilitazione delle coscienze per un'opposizione alla guerra e
un impegno di ricerca di soluzioni condivise dei conflitti.
L'attività letteraria, saggistica, e soprattutto
drammatica di Bertolt Brecht merita ben altro discorso, per l'energica
denuncia, che va ben oltre la sterile protesta dell'accaparramento dei beni
della terra, destinato a sfociare nella guerra totale per la spartizione del
mondo da parte dei detentori del potere economico, e soprattutto per
l'efficacia della rappresentazione della miseria materiale e morale di cui è
causa uno stato di guerra permanente. Esemplare, sotto questo profilo, è Madre
Coraggio e i suoi figli, ambientata durante la guerra dei Trenta Anni, per
la grandiosa rappresentazione del dramma irrisolto nel cuore di una donna tra
il sentimento materno e la dura necessità della sopravvivenza che la porta a
speculare sulle conseguenze della guerra, ritenuta condizione naturale dei rapporti
tra i popoli. Altrettanto efficace, ne L'anima buona di Sezuan, l'impietosa
satira di un inerte atteggiamento pacifista e della bontà passiva in un mondo
dominato dalle forze del Male. La lucida individuazione della origine di tutti
i mali e della loro manifestazione estrema, la guerra, nel capitalismo
finanziario e nella divisione della società in classi, conferisce vigore e
straordinaria incisività al discorso drammaturgico di Brecht, viziato
tuttavia, in buona parte dei lavori teatrali degli anni Trenta, da un marcato
ideologismo di impronta marxista, che fa dipendere la causa della pace tra i
popoli da una rivoluzione sociale che rovesci l'ordine esistente, e non dalla
conversione radicale delle coscienze.
Se si risale a ritroso lungo la tradizione
letteraria, sino al Settecento, epoca d'oro del romanzo satirico, ci si
imbatte, nel quarto de I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, in una
testimonianza raccapricciante nel suo candore, sulle cause delle guerre tra stati,
resa dall'autore al signore della razza degli Houyhnhm presso cui è a servizio:
"La contesa tra due principi nasce talvolta da questo: chi di loro due
dovrà spogliare un terzo di domini sui quali né il primo né il secondo può
accampare alcun diritto. C'é pure il caso in cui un principe fa guerra
all'altro, solo perché teme che quest'altro possa far guerra a lui. La guerra,
inoltre, scoppia, ora perché il nemico è troppo forte, ora perché è troppo
debole. A volte i nostri vicini non hanno le cose di cui noi abbondiamo, o,
viceversa, abbondano delle cose che ci fanno difetto: allora si combatte
finché o quelli ci pigliano la roba nostra, o ci danno la loro. Legittima
ragione di invadere un paese è lo stato di debolezza in cui questo si viene a
trovare dopo una carestia rovinosa, o una pestilenza sterminatrice, o una
guerra civile provocata da fazioni. Si ha diritto di muovere guerra al nostro
più stretto alleato sempre che una delle sue città giaccia in una posizione che
strategicamente conviene a noi, o che un suo territorio possa arrotondare e
integrare i nostri domini.
Quando un principe invade con truppe agguerrite un
paese in cui gli abitanti sono poveri e ignoranti, è perfettamente legittimo
che egli di questi mandi la metà a morte, e converta l'altra metà in tanti
schiavi, per il fine di incivilirli e obbligarli a smettere il loro barbaro
tenore di vita.
Quando un principe chiama in aiuto Tizio per
respingere l'invasione di Caio, la maestà stessa, l'onore e la consuetudine
vogliono che Tizio, cacciato che abbia Caio, usurpi i domini che era venuto a
difendere, e ammazzi, imprigioni o esili il principe in soccorso del quale
s'era mosso.
Le
nazioni povere hanno fame e le ricche sono piene di orgoglio, e orgoglio e fame
si faranno sempre la guerra.
Per tutte queste ragioni il mestiere del soldato è
onorifico più di qualsiasi altro: perché il soldato è uno yahoo che
mediante una mercede si obbliga ad ammazzare a sangue freddo quanti suoi
simili più può, senza che questi gli abbiano mai recato la minima offesa"
(Jonathan Swift, I viaggi di Gulliver, Milano, 1982, pp. 514515,
traduzione italiana).
Il provocatorio racconto dell'autore, da cui si
evince che le relazioni tra i monarchi nel mondo degli yahoo (uomini nella
lingua di quel popolo) comportano uno stato di guerra permanente, suscita la
reazione indignata del suo signore, per il cinismo e la crudeltà e l'uso
perverso e disumanizzante della ragione, di cui tanto gli uomini si vantano
come loro prerogativa.
La posizione di Manzoni, avversa al modello di
relazioni tra i popoli che esclude una pace tra eguali e assume come principio
indiscusso il dominio del più forte, pena lo sterminio di chi voglia
resistergli, come fa intendere il corrosivo estro satirico di Swift, emerge in
modo inequivoco nei Promessi Sposi già nell'antifrasi dell'aggettivo bella
che definisce la guerra: "il guasto e lo sperperio di quella bella guerra
di cui abbiamo fatto menzione di sopra (capitolo XII). Il sarcasmo di Manzoni
sembra investire qualsiasi guerra, non solo quella di successione al ducato di
Mantova di cui sta parlando; essa non trova altra legittimazione se non in una
guerra difensiva, che tuttavia "non può esistere se non alla condizione
di una guerra ingiusta", come egli argomenterà nel Pensiero XV,II.
Se non che tutte le parti in conflitto tentano di
giustificare l'intervento armato a vendetta di un torto subito o per il
ristabilimento dell'ordine turbato, come Manzoni osserva nel capitolo XXVII:
"La corte di Madrid, che voleva a ogni costo (abbiam detto anche questo)
escludere da quei due feudi il nuovo principe, e per escluderlo aveva bisogno
di una ragione (perché le guerre fatte senza una ragione sarebbero ingiuste),
s'era dichiarata sostenitrice di quella che pretendevano avere, su Mantova un
altro Gonzaga, Ferrante principe di Guastalla; sul Monferrato Carlo Emanuele I,
duca di Savoia, e Margherita Gonzaga, duchessa vedova di Lorena".
Il paradosso, confinato nell'inserto parentetico,
denuncia il carattere pretestuoso e strumentale delle ragioni addotte a
legittimare un conflitto, occasionato sempre da un casus belli inventato
ad arte.
La via d'uscita da un mondo ove non contano che i
rapporti di forza e il diritto del più forte, suggerita dalla semplicità
evangelica ,di padre Cristoforo, invitato dai commensali di don Rodrigo a
dirimere una disputa cavalleresca: "il mio debol parere sarebbe che non vi
fossero né sfide, né portatori, né bastonate", provoca la sorpresa del
conte Attilio: "... Con queste massime, Lei vorrebbe mandare il mondo
sossopra. Senza sfide! Senza bastonate! Addio il punto d'onore: impunità per
tutti i mascalzoni! Per buona sorte che il supposto è impossibile"
(capitolo V).
L'utopia cristiana del Regno di pace, di giustizia e
d'amore, apertamente rifiutata e irrisa dal conte Attilio, può essere
accettata solo a patto di essere confinata nello spazio separato del sacro, al
di fuori di ogni relazione con la storia, come osserva Azzeccagarbugli nella
sua argomentata teoria della doppia verità, una, valida nell'ambito del sacro,
l'altra nell'ambito del profano: "[...] la sua sentenza, buona,
ottima e di giusto peso sul pulpito, non vaI niente, sia detto col dovuto
rispetto, in una disputa cavalleresca".
E' la massima concessione che la Realpolitik può
fare al religioso, con cui non intrattiene altro rapporto che non sia di
indifferenza, o-di sottomissione alle proprie ragioni.
Ma nelle Osservazioni sulla Morale cattolica, nel
VII capitolo intitolato Degli odi religiosi, Manzoni riprende un tema
già trattato con dissacrante ironia, ai limiti del blasfemo, da Swift nel
citato VI capitolo de I viaggi di Gulliver, ove l'autore, tra le cause
delle guerre, include anche quelle di religione: "Non si contano i milioni
di vite sacrificate alla discrepanza di opinione: se, per esempio, la carne sia
pane, o non piuttosto il pane sia carne; se il succo di una certa bacca sia sangue
ovvero vino" (pp. 511543, citata edizione).
A proposito della strage degli Ugonotti, da parte dei
cattolici nella notte di San Bartolomeo, Manzoni osserva, in una pagina che
sembra anticipare profeticamente l'insegnamento del Concilio Vaticano II:
"La memoria di quell'atrocissima notte dovrebbe servire a far proscrivere
l'ambizione e lo spirito fazioso, l'abuso del potere e l'insubordinazione alle
leggi, l'orribile e stolta politica che insegna a violare a ogni passo la
giustizia per ottenere qualche vantaggio, e quando poi queste violazioni
accumulate abbiano condotto un gravissimo pericolo, insegna che tutto è lecito
per salvar tutto..."
La sacralità della vita e l'inviolabilità dei diritti
della persona, fine e non mezzo, che nessuna causa, che pur si presuma nobile,
come quella del trionfo della religione, può calpestare, sono proclamate con
fermezza: "Nessun cattolico di buona fede può mai credere d'avere una
giusta ragione per odiare il suo fratello" e ancora in chiusura del
capitolo: "La violenza esercitata in questa religione di pace e di
misericordia è affatto avversa al suo spirito [...] Onore a quegli uomini
veramente cristiani che, in ogni tempo, e in faccia a ogni passione e a ogni
potenza, predicarono la mansuetudine; da quel Lattanzio che scrisse doversi
la religione difendere col morire, e non con l'uccidere, fino agli ultimi
che si sono trovati in circostanze in cui ci volesse coraggio per manifestare
un sentimento così essenzialmente evangelico".
La nostalgia della pace, l'orrore della violenza, il
rimorso per la vendetta che lo stato di guerra e la necessità di sopravvivere
impongono, fanno da controcanto, nel romanzo di Primo Levi Se non ora,
quando? al legittimo orgoglio per la riconquistata coscienza della propria
identità religiosa ed etnica degli ebrei dell'Europa orientale resistenti al
nazismo.
La vendetta è inseparabile dalla testimonianza, come
recita la lirica che dà il titolo al libro "Solo noi pochi siamo
sopravvissuti / per l'onore del nostro popolo sommerso / per la vendetta e la
testimonianza. / Se non sono io per me. chi sarà per me? / Se non così come? E
se non ora, quando?" (Se non ora, quando? Romanzi e poesie, Volume
II, Torino, 1994, cap. VI p. 337)
L'inevitabilità della guerra, sia pure a fini
difensivi, e pertanto dell'uccidere,
non annulla la legge imprescrittibile, statuita dal
quinto comandamento (il sesto nella tradizione ebraica).
Il partigiano ebreo Mendel, il solo sopravvissuto
della sua comunità, dice: "E dopo di allora io penso che uccidere sia
brutto, ma che di uccidere i tedeschi non ne possiamo fare a meno. Da lontano o
da vicino, alla tua maniera o alla nostra. Perché uccidere è il solo
linguaggio che capiscono, il solo ragionamento che li fa convinti. Se io sparo
a un tedesco, lui è costretto ad ammettere che io ebreo valgo più di lui: è la
sua logica capisci; non la mia. Loro capiscono solo la forza. Certo, convincere
uno che muore non serve a molto, ma a lungo andare anche i suoi camerati
finiscono col capire. I tedeschi hanno incominciato a capire qualche cosa solo
dopo Stalingrado. Ecco, per questo è importante che ci siano partigiani ebrei,
ed ebrei nell'Armata Rossa. E' importante, ma è anche orribile; solo se io
uccido un tedesco riuscirò a persuadere gli altri tedeschi che io sono un uomo.
Eppure noi abbiamo una legge che dice "Non uccidere" (capo IV, p.
279, citata edizione).
Durante la ritirata delle truppe tedesche, sul fronte
orientale, i partigiani occupano la sala del Consiglio Comunale di una città e
fanno giustizia degli uccisori di una loro compagna: "Raggiunsero rapidi
e silenziosi la porta del villaggio; le sentinelle non c'erano; irruppero di
corsa per le vie deserte, mentre a Mendel tornavano a mente immagini lontane,
sbiadite e importune, immagini che ti inceppano invece di sospingerti. Simone
e Levi che vendicano col sangue l'affronto fatto dai Sichemiti alla sorella
Dina. Era stata giusta quella vendetta? Esiste una vendetta giusta? Non esiste;
ma se sei uomo, e la vendetta grida nel tuo sangue, e allora corri e distruggi
e uccidi: come loro, come i tedeschi" (pag.472).
L'atto, imposto dall'inesorabile necessità della
guerra, non ha, ai loro occhi, nonostante l'autorevole precedente riportato nel
libro della Genesi, a cui il personaggio fa riferimento, alcuna
legittimazione etica.
Il partigiano rifiuta la legge di guerra, applicata
dal nemico, che stabilisce, per ogni tedesco ucciso, il sacrificio di dieci
vittime, civili e innocenti: la legge di guerra va umanizzata, come dice Mendel
che, dopo la macabra contabilità a fine giornata, osserva con raccapriccio che
purtroppo lo stesso rapporto (dieci per uno) è stato fatto valere anche da
loro: "Il sangue non si paga col sangue. Il sangue si paga con la
giustizia. Chi ha sparato alla Nera è stato una bestia. Se i tedeschi hanno
ucciso col gas, dovremo uccidere col gas tutti i tedeschi? Se i tedeschi
uccidevano dieci per uno e noi faremo come loro, diventeremo come loro, e non
ci sarà pace mai più (pag. 473, capitolo XI).
L'orizzonte della pace sembra dischiudersi, pur nel
disfrenarsi cieco della barbarie, e ogni gesto compiuto, di difesa e di
vendetta, sembra avere un senso in vista di quel fine ultimo che accende i
cuori di speranza.
La riluttanza a uccidere, pur in presenza di un
nemico crudele, e sterminatore, ha radice del resto nella religiosità
dell'ebraismo, che stenta ad ammettere la deroga dalla Legge divina. La
disobbedienza all'ordine di fare fuoco sui nemici da parte di un gruppo di
studenti di una scuola rabbinica dell'impero zarista, che si legge
nell'episodio raccontato da un personaggio dello stesso romanzo di Primo Levi,
conferma il permanere, negli strati profondi dell'ebraismo, di una mentalità
non violenta: "Non vede, signor capitano? Non sono sagome di cartone, sono
uomini come noi. Se gli sparassimo, gli potremmo fare del male (pp. 284 85).
E' una cultura di pace, quella che affonda le sue
radici nella tradizione giudaico-cristiana, interiorizzata al punto da fare
valere la pace come un bene assoluto, al posto più alto nell'ordine dei
valori, più in alto che non l'adorazione del Dio unico, come si legge nel detto
rabbinico citato in epigrafe.
Ma forse non c'è contraddizione: la promozione della
pace è l'opera più gradita a Dio, e può essere ritenuta la forma più autentica
dell'obbedienza alla sua Legge.