INVITO ALLA LETTURA DI DORIS LESSING
di prof. Francesco Pettinari
Walter Benjamin, una
delle maggiori figure di pensatore della modernità che ci ha
lasciato il Novecento, in un saggio dedicato alla figura del
narratore, comincia la sua argomentazione dichiarando che “l’arte
di narrare si avvia al tramonto” e precisa la propria diagnosi
con questa motivazione: “E’ come se fossimo privati di
una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e
sicura di tutte: la capacità di scambiare esperienze (…)
Una causa di questo fenomeno è evidente: le azioni
dell’esperienza sono cadute. E si direbbe che continuino a
cadere senza fondo”.
Che cosa narrare dopo
un evento come la Grande Guerra? Questo era il quesito attorno al
quale ruotava la riflessione di Benjamin? E che cosa elevare a
materia narrativa oggi?, possiamo chiederci noi spettatori di un
mondo globalizzato e di un flusso informatico che vediamo scorrere
incessantemente davanti ai nostri occhi, a una rapidità
vorticosa. Che cosa fermare in questo
continuum? E,
soprattutto, siamo ancora in grado, noi, di fermarci? Siamo ancora
capaci di scegliere, di selezionare nell’oceano informatico in
cui navighiamo i fatti che meritano attenzione, cura, arresto? O è
più comodo che a scegliere per noi siano altri, coloro che
curano il flusso e in particolare che regolano il monitoraggio della
nostra attenzione? E nel nostro quotidiano, in quello che è il
nostro spazio di vissuto, quale consapevolezza abbiamo del nostro
fare esperienza? Non c’è dubbio che uno dei compiti
della narrazione sia quello di guidare il lettore a una maggiore
capacità di consapevolezza rispetto al proprio essere nel
mondo e, di conseguenza, a sapersi orientare all’interno del
proprio bagaglio esperienziale.
Doris Lessing, alla
veneranda età di ottantotto anni, ha vinto il Premio Nobel per
la Letteratura 2007. Nonostante il conferimento di questo premio, tra
i più prestigiosi, e nonostante quasi mezzo secolo di
produzione narrativa, Doris Lessing non è un autore
“mediatico”: purtroppo, perché la sua opera non
arriva a essere divulgata come meriterebbe; d’altro lato, si
può dire per fortuna, in quanto non è un autore
assimilabile ai cosiddetti autori di successo, dove il successo
sembra essere più una questione di immagine, di marketing e
quant’altro, che non un fattore di merito come invece dovrebbe
essere. In modo prevedibile, a ridosso della notizia del Nobel, i
giornali le hanno dedicato qualche articolo, e, cosa più
importante, le case editrici italiane che hanno in catalogo le sue
opere – prima fra tutte, Feltrinelli – le hanno
ristampate e nelle librerie la presenza dei libri di questa autrice è
stata resa maggiormente visibile. Oggi, alla sua età, Doris
Lessing, nelle fotografie piuttosto rare che la ritraggono, appare
come una signora molto semplice, estranea all’immagine di
scrittrice per come la si può intendere secondo i canoni del
circuito mediatico; appare come una donna schiva, appartata, che
trasmette una resistenza ai dettami dell’epoca dell’immagine,
dell’apparire a tutti i costi; piuttosto, appare come una
figura familiare, una sorta di nonna dei lettori, una persona
dispensatrice di sapienza e di saggezza – la sapienza e la
saggezza maturate dalla elaborazione della propria esperienza -, due
doti che tutti i migliori narratori dovrebbero possedere.
Tra la sua vasta
produzione letteraria, vorremmo sottoporre all’attenzione del
lettore che voglia accostarsi a questa autrice un testo del 1983,
Il
diario di Jane Somers, edito da Feltrinelli. Si tratta di un
romanzo che si porta dietro tutta una aneddotica legata alla vicenda
editoriale: l’autrice avrebbe inviato il manoscritto agli
editori firmandolo col nome della protagonista, Jane Somers per
l’appunto; il testo sarebbe stato rifiutato più volte
fino alla rivelazione del vero autore, e al grande successo che ne è
seguito fino a renderlo un libro di culto. È un romanzo questo
che si dipana attorno a una serie di operazioni che lo rendono molto
particolare, quasi anomalo si potrebbe dire, in ogni caso un’opera
di grande pregio, uno di quei libri che formano il patrimonio
culturale del lettore, lo arricchiscono, una lettura che si qualifica
a tutti gli effetti come un fare esperienza - uno scambio di
esperienza tra autore e lettore nell’accezione che conferiva a
questa espressione Walter Benjamin.
Il fattore principale
su cui è costruito il romanzo è quello che si intuisce
come un lavoro sulla autobiografia, sulla ri-elaborazione del vissuto
autobiografico nel passaggio al mezzo espressivo della scrittura
narrativa innanzi tutto, ma, in senso allargato, quel processo che
ne determina il passaggio rispetto al suo diventare una storia da
raccontare agli altri - ai lettori. In questo caso c’è
di più: anche se la proiezione dell’io reale di un
autore nell’io convenzionale di un narratore altro – vale
a dire di un personaggio altro da sé – è un
espediente che da sempre si accompagna al gesto del narrare, in
questo romanzo, il passaggio di persona da Doris Lessing in Jane
Somers, pur realizzandosi in un testo di finzione – come
giocoforza è il destino di tutti i testi, anche di quelli
scopertamente autobiografici – si manifesta al lettore secondo
una dinamica molto sottile, che rende incerti i confini rassicuranti
che vorrebbero separare il terreno della realtà da quello
della finzione. Ciò che contribuisce a questo effetto rimanda
principalmente a due fattori. Da un lato, la scelta di servirsi della
tipologia di scrittura più legata all’intimità
dell’io esperienziale, quella per eccellenza più vicina
all’esternizzazione, all’oggettivazione, dei contenuti
autobiografici: la scrittura diaristica. Certo, su un diario, in modo
particolare se redatto da uno scrittore, pesa sempre il sospetto di
una scrittura intenzionalmente prodotta per essere esibita,
pubblicata, slegata quindi dall’indirizzarsi a un destinatario
unico, l’io scrivente. Anche da questo punto di vista, anzi,
quale vero e proprio elemento di merito, Doris Lessing ha saputo
creare in questo romanzo un equilibrio a dir poco perfetto tra la
restituzione di un’esperienza personale, individuale, e il
racconto della stessa come storia degna di essere estesa,
partecipata, a tutti i lettori.
Il secondo fattore è
quindi proprio quello per cui elementi mutuati dalla grammatica dello
scrivere di sé e per sé diventano in questo romanzo
fattori straordinariamente funzionali a creare l’impianto
morfologico dell’opera e a caratterizzarla come narrativa nel
senso più alto – eticamente alto – del termine,
quel senso che permette di qualificare una narrazione come scrittura
per gli altri giustappunto, e non per sé; una scrittura che
non è esibizione fine a se stessa del proprio vissuto –
anche nel caso in cui si fosse rivelata come un percorso felicemente
terapeutico per la rielaborazione della propria esperienza, in
quanto, anche in un caso simile, non si esce comunque
dall’autoreferenzialità -; al contrario, quella di Doris
Lessing, è una scrittura che attraverso il proprio
manifestarsi rende trasparente la vocazione a qualificarsi come un
tessuto narrativo scritto, prima di tutto per gli altri, per
trasmettere agli altri – come voleva Benjamin –
un’esperienza; e si può ben arrivare a dire, senza
timore di spaventare, che lo scambio di esperienza così inteso
si arricchisce senza ombra di dubbio di un intento educativo,
didascalico, come si rileva in tutta la grande letteratura.
Entriamo nel vivo di
questo romanzo. Quale tipo di esperienza Doris Lessing ha voluto
tematizzare in questa storia? Se si pensa all’ideologia
corrente, al senso comune per come lo si può intendere dal
livello espressivo più basso a quello più
concettualizzato,
Il diario di Jane Somers è un romanzo
scomodo, in quanto non si attiene per nulla ai codici della narrativa
di consumo, di intrattenimento, di evasione, ma, all’esatto
opposto, fonda la possibilità di coinvolgimento del lettore
mettendo in campo situazioni narrative e tematiche inerenti a aspetti
dell’esistenza che il mondo contemporaneo tende a nascondere, a
rimuovere: il rapportarsi alla condizione della vecchiaia, alla
malattia, alla morte. Jane Somers è una donna che, alla soglia
dei cinquant’anni, si trova a fare un bilancio della propria
esistenza: e si trova di fronte una se stessa sdoppiata in due
individualità: da un lato, la donna di successo, la
self-made
woman della nostra contemporaneità, quella che si è
fatta da sé e, partendo dal gradino più basso, è
arrivata a dirigere, insieme a Joyce, la sua migliore amica, una
rivista di moda e di costume,
Lilith, rivolta al pubblico
femminile, portandola a un notevole successo; dall’altro lato,
rispetto alla dimensione interiore, si trova a fare i conti con il
proprio egoismo, con il proprio senso di colpa, soprattutto rispetto
a due eventi che di recente hanno cambiato la sua vita: la morte
della madre e quella del marito Freddie, due eventi che
contribuiscono a mettere in crisi la sua esistenza e la portano a
intraprendere un percorso di ricerca, di messa in discussione delle
proprie certezze e dell’insieme dei codici del perbenismo
borghese, e questo processo si materializza, si documenta, si rende
oggettivo, attraverso la scelta di scrivere un diario.
Ecco l’incipit:
“Questa prima
parte è il riepilogo di circa quattro anni. Non tenevo un
diario, allora. Vorrei averlo fatto. Quello che so è che ora
vedo quel periodo in maniera diversa da quando lo stavo vivendo”.
In questa prima frase
si evidenzia in modo esplicito il particolare rapporto che la
scrittura – in primo luogo quella diaristica – stabilisce
con il tempo, un rapporto in cui la dimensione temporale crea un
piano dialettico tra il tempo del vissuto e il tempo in cui il
vissuto si traduce in scrittura, dando luogo a quella possibilità
tutta particolare, magica si direbbe, di riavvolgere il nastro e
ri-vedersi vivere, potendo offrire un commento, un’analisi in
prima persona dei fatti narrati. Il fattore temporale conferisce a
questo romanzo un aspetto morfologico molto interessante e molto
particolare nello stesso tempo: il lettore che si aspettasse la
successione ordinata di una cronaca quotidiana – il senso più
scontato e banale legato alla redazione di un diario –
resterebbe deluso dalla lettura di questo romanzo, in quanto è
proprio la gestione dell’asse temporale a stabilire il ritmo
della narrazione, l’alternarsi di pieni e di vuoti – di
detto e di non detto -, di parti più distese e di parti più
compresse.
“Quello che non
riuscivo a smettere di pensare, però, era che avevo deluso
Freddie, che avevo deluso mia madre, e che in definitiva ero
quel
tipo di persona. Se dovesse succedere qualcos’altro, se
dovessi affrontare un’altra situazione difficile, come la
malattia o la morte, se dovessi dire a me stessa, Ora, cerca di
comportarti come un essere umano, non come una bambina – non ci
riuscirei, non potrei. Non è questione di volontà, ma
di chi si è, di come si è.
Ecco perché
decisi di imparare qualcos’altro”.
Ecco come si definisce
nella scrittura il piano riflessivo, analitico, rispetto a quello che
pertiene alla narrazione oggettiva, quella che mostra semplicemente
l’accaduto. Nel corso del testo, il lettore incontra spesso
termini e espressioni evidenziati dal corsivo, termini e espressioni
che acquistano un rilievo maggiore, e vengono a costituire una sorta
di glossario che raccoglie le parole chiave che hanno caratterizzato
il percorso della protagonista. La decisione di voler imparare
qualcosa di diverso da ciò che costituisce il codice
esistenziale inerente all’appartenenza a
quel tipo di
persona – un’appartenenza che si allarga giocoforza,
seppure con gradi differenziati, a tutti i lettori – si
manifesta nell’attivare un tipo di sguardo e un conseguente
tipo di attenzione che portano Jane a fare la conoscenza della
coprotagonista del romanzo, Maudie Fowler, una anziana signora
ultranovantenne, la quale offre alla protagonista – e al
lettore – la possibilità di confrontarsi con un universo
esistenziale che non è sufficiente definire all’insegna
della lontananza e della diversità da quello abitato da
quel
tipo di persona, ma che diventa il terreno nuovo sul quale si
rende concreta la possibilità di imparare – di
recuperare - qualcosa di radicalmente altro. Ecco allora che due
mondi tanto diversi si incontrano e si avvicinano a poco a poco, si
fiutano, dovendo superare tutta una serie di diffidenze e di barriere
legate alle diverse condizioni esistenziali, e non certo riducibili
alla differenza dell’età anagrafica:
“Mrs. Fowler
arrivò con una vecchia teiera marrone e un paio di tazze da
tè, di porcellana, piuttosto graziose. Fu la cosa più
difficile che avessi mai fatto, bere da quella tazza sporca. Non
parlammo molto perché non volevo rivolgerle domande dirette, e
lei tremava di orgoglio e dignità. Continuava ad accarezzare
la gatta – “Bellezza mia, tesoro”, in tono duro ma
con una sorta di dolcezza – e disse senza guardarmi, “Quando
ero giovane mio padre aveva un negozio, e poi abbiamo avuto una casa
in St. John’s Wood, e così lo so come dovrebbero essere
le cose”.
Se proprio si volesse
dare una dicitura scientifica alla vicenda raccontata in questo
romanzo si potrebbe chiamarla: un caso geriatrico: Jane decide di far
entrare nella sua vita Maudie, stabilisce un rapporto con lei, un
rapporto che chiede, che ri-chiede tempo, per potersi definire e
avviare. Come già detto, alla narrazione oggettiva si
accompagna, da parte di Jane, l’ascolto della reazione della
propria interiorità rispetto a questa esperienza:
“So che ci vorrà
molto tempo, prima che la mia ignoranza, la mia mancanza di
esperienza, e la sua reticenza, i suoi rancori – perché
ora li vedo ribollire, le illuminano gli occhi di quella che da
principio vien fatto di scambiare per gaiezza, per comicità,
addirittura – molto tempo, prima che il suo essere, la mia
rozzezza, permettano che io mi formi un’impressione globale di
lei”.
L’occhio della
grande scrittrice; la sapienza nel saper cogliere e restituire
attraverso la scrittura particolari e dettagli che non sono
necessariamente prioritari rispetto alla funzionalità
narrativa – per quanto il principio non possa ritenersi valido
a livello ortodosso in quest’opera -; ecco allora, comparire,
nelle pagine di questo diario, passi come quello che segue, lontani
dalla cronaca, lontani dalla riflessione, risultato dell’alchimia
che si viene a creare “da certi accordi singolari fra l’anima,
l’occhio e la mano di chi è nato per coglierli in sé
e per produrli a se stesso”, secondo parole ancora di Walter
Benjamin, ancora dal suo saggio folgorante dedicato al narratore. Il
gesto di Maudie descritto brevemente da Jane è qualcosa che
tutti abbiamo visto almeno una volta nella vita; è un gesto
che la scrittura di Doris Lessing eleva a una bellezza universale,
poetica:
“Quando andai via
mi accompagnò fino alla porta esterna, e fece qualcosa che ho
visto solo a teatro, o letto nei romanzi. Indossava un vecchio
grembiule a righe, che si era messa per fare il tè, e si mise
a pieghettare la stoffa con le mani, poi la lasciò andare, poi
ricominciò a pieghettarla”.
L’abitazione di
Maudie, come è prevedibile, è il correlativo oggettivo
della suo stato esteriore; Jane chiama un elettricista per far
sistemare l’impianto elettrico che rischia di essere seriamente
pericoloso; Jim, l’elettricista, è un campione
dell’umanità che rifiuta di “vedere” le
persone come Maudie e le condizioni in cui vivono. Jane gli legge nel
pensiero:
“
Perché
non sono in un ricovero? Bisogna toglierli di mezzo, metterli dove la
gente giovane e sana non li possa vedere, perché non sia
costretta a pensare a loro”.
Ma Jane non esclude se
stessa dall’appartenenza a
quel tipo di persona; nelle
pagine del suo diario è impietosa prima di tutto verso il
proprio io – invitando anche il lettore a condividere e
sottoporsi le stesse domande:
“A che cosa serve
Maudie Fowler? Stando ai criteri che mi sono stati inculcati, a
niente”.
E ancora:
“Pensai che
quello che io spendevo in un mese per l’acqua calda sarebbe
bastato a cambiare la vita di Mrs. Fowler”.
Frasi dove si
percepisce la messa a fuoco di un atto di accusa a tutto il sistema
di vita occidentale, al progresso, al benessere, alla corsa alla
ricchezza materiale, e, per contro, al prezzo da pagare, l’incapacità
di attenzione verso tutto ciò che si perde e si trascura,
verso tutto ciò che si rimuove partecipando a questo sistema.
Nel progredire
dell’avvicinamento che si viene a creare tra Jane e Maudie,
emergono gli aspetti delle rispettive personalità, dei
rispettivi caratteri: le debolezze, le fragilità, la
vulnerabilità; nel caso di Maudie, c’è un
elemento del suo carattere che si qualifica come il motore vero e
proprio che la anima, che la tiene in vita, e che non la lascerà
neppure di fronte all’ineluttabilità della vicinanza
alla morte: la rabbia: è nella sua rabbia ostinata e fragile
nello stesso tempo il luogo in cui risiede la vitalità di
Maudie: scrive Jane:
“Mi sono
arrabbiata, là sui gradini, quando lei è entrata in
casa senza parlarmi, probabilmente anche lei era arrabbiata,
pensava, adesso stiamo esagerando! E seduta in quella stanza, con la
gatta, ero furiosa, pensavo, bel modo di ringraziare! Poi
l’irritazione se n’è andata per far posto al
piacere di stare davanti al fuoco, con la pioggia che cadeva fuori. E
ci sono sempre i momenti brutti, come quando devo prendere la tazza
unta e bisunta e portarmela alle labbra: quando devo inalare le
zaffate di quell’odore dolce e penetrante che emana da lei:
quando vedo come mi guarda, a volte, il ribollire di qualche rabbia
antica... E’ un’altalena di emozioni, ogni nostro
incontro”.
Quello che nella
analisi semiologica della narrazione è il conflitto di opposti
- il fattore che crea drammaticità, mostrando il conflitto per
l’appunto tra due personaggi antagonisti -, in questo romanzo è
rappresentato dal confrontarsi di Jane e di Maudie; in un contesto
simile, i momenti più forti, quelli che siamo abituati a
chiamare colpi di scena, snodi narrativi, e via discorrendo, si
configurano sotto una luce molto particolare. Per esempio, Doris
Lessing, nelle vesti di Jane Somers, non ha certo voluto evitare o
trascurare uno degli aspetti più difficili da trattare
rispetto a questa esperienza: la corporeità, il rapporto con
il corpo, il fatto che da parte di Jane occuparsi e prendersi cura di
Maudie, vincere la sua diffidenza, la sua resistenza al mondo esterno
di cui Jane stessa fa parte, significa anche toccare il corpo
debilitato, offeso, non più macchina autosufficiente di questa
anziana donna. Ecco allora che un vertice davvero alto – per la
giusta distanza, per l’assenza di qualunque caduta nella
retorica, per il livello di oggettività – lo raggiunge
la descrizione di un gesto come questo:
“Poi si è
presentato il problema della parte inferiore del corpo. Ho deciso di
aspettare istruzioni.
Le ho infilato la
maglia “pulita” dalla testa, le ho avvolto il cardigan
“pulito” intorno al torace, e ho visto che lei intanto si
stava sfilando lo spesso strato di sottane. È stato allora che
mi ha colpita diritta in faccia: la puzza. Oh, non serve che non ci
pensi, mi è
impossibile far finta di nulla. Troppo
debole o troppo stanca per muoversi, ha cacato nelle mutande, ha
cacato dappertutto.
Mutande, luride…
Be’, non ho intenzione di continuare, nemmeno per sfogarmi, mi
sento ancora male a pensarci. Ma stavo guardando la maglia e le
sottovesti che si era tolta, ed erano gialle e marroni di merda.
Comunque. Se ne stava là in piedi, la metà inferiore
del corpo completamente nuda. Le ho fatto scivolare dei giornali, uno
spesso strato, sotto i piedi. E ho cominciato a lavare e lavare, la
parte inferiore del corpo. Lei si teneva al bordo del tavolo con
quelle mani forti. Quando sono arrivata al sedere, Maudie l’ha
spinto in fuori, come avrebbe fatto una bambina, e io ho lavato anche
quello, pieghe e rughe comprese. Poi ho buttato via tutta l’acqua,
ho riempito di nuovo la bacinella, ho rimesso in fretta i bollitori
sul fuoco. Le ho lavato le parti intime, e per la prima volta ho
pensato davvero al significato di quell’espressione: Maudie
soffriva orribilmente proprio perché una sconosciuta stava
invadendo la sua intimità”.
Il percorso di Jane è
reso difficile dal mondo stesso in cui si trova a vivere:
dall’ambiente lavorativo, dal quale non le giunge nessuna
capacità di comprensione verso la scelta che porta avanti;
anzi, le si rimprovera la quantità di tempo che sottrae alla
professione; ma è soprattutto il proprio passato che per Jane
si costituisce come un muro invalicabile; è dalla voce della
sorella Georgie che arriva la sentenza, a indicare che il cambiamento
di rotta intrapreso da Jane non serve comunque a redimerla
dall’atteggiamento che ha tenuto verso i propri cari:
“Mi dispiace
Jane, ma se stai finalmente decidendo di diventare una persona
responsabile, forse dovrebbe anche venirti in mente che non è
facile vederti arrivare qui con una domandina o due:
E la morte
della nonna? Com’è stata? Difficile? È stato
orribile, Jane.
Capisci? Orribile. Io andavo giù quando
potevo, incinta all’ultimo stadio o col bambino piccolo, e
trovavo la mamma distrutta. La nonna non poteva alzarsi dal letto,
alla fine.
Non si è alzata per mesi interi. Riesci a
immaginarlo? No, scommetto di no. Dottori sempre intorno. Dentro e
fuori dall’ospedale. E la mamma sola. Papà non poteva
aiutarla molto, era quasi invalido a sua volta…”
Non sono molti, ma sono
presenti nel testo alcuni momenti in cui l’io scrivente scrive
della propria scrittura, apre parentesi sull’interrogazione e
la problematica relative al senso di un’operazione come questa;
nello stesso tempo, si esplicita nei confronti del lettore la
dichiarazione di onestà rispetto al fatto che quello che sta
leggendo è un diario di finzione, vale a dire che è
scritto appositamente perché possa essere letto da altri;
inoltre, con il passare del tempo e attraverso il suo articolarsi e
sedimentarsi nei vuoti e nei pieni della scrittura, l’io
scrivente acquista consapevolezza dell’autenticità di
questa esperienza, che si configura come “l’unica cosa
vera che mi sia successa” – a indicare come la veridicità
di un fatto è data non tanto dal suo accadere quanto
dall’incidenza che manifesta sulla possibilità di
cambiare l’esistenza di chi lo ha vissuto:
“Anche mentre
scrivo questo diario, ho ben chiaro in mente l’occhio esterno,
l’osservatore. Ciò significa forse che ho intenzione di
pubblicare quello che sto scrivendo? Di certo non era questo che
avevo in mente quando ho cominciato. È una cosa strana, questo
bisogno di scriver giù le cose, come se non avessero
un’esistenza propria fino a quando non sono registrate.
Presentate”.
E ancora:
“Questo è
stato un anno fa. Se avessi avuto il tempo di tenere questo diario
con una certa costanza, ora sembrerebbe il cantiere di un edificio in
costruzione, frammenti di questo e di quello ammucchiati, sparsi,
disordine, cose varie, nessuna più importante dell’altra.
Ho dovuto visitarne uno per un articolo la settimana scorsa, e c’era
un mucchio di sabbia qua, una pila di vetri là, qualche trave
d’acciaio, sparsa, sacchi di cemento, palanchini. Così
dev’essere un diario, i frammenti degli avvenimenti, messi
insieme disordinatamente. Ma ora, a distanza di un anno, comincio a
capire quali cose sono state importanti e quali no”.
Nella seconda parte di
questo romanzo
sui generis, il lettore trova un incremento del
livello di frantumazione: il racconto vive di isole che rivendicano
un carattere anche autonomo oltre che integrarsi nel tutto
dell’insieme; l’opera acquista un aspetto che si può
anche definire sperimentale e che contribuisce a caratterizzarla come
un grande esempio di romanzo contemporaneo, oltre che per il
contenuto, anche per l’aspetto morfologico. Si tratta di brani
in cui Doris Lessing dà voce a Maudie facendole raccontare la
propria vita, attraverso la rievocazione di momenti felici e di
momenti tragici; oppure, brani in cui una medesima giornata –
la stessa unità temporale – viene raccontata in terza
persona seguendo i gesti lenti di Maudie e poi in prima persona da
Jane stessa fino a che le due temporalità si incontrano; e
ancora, Doris Lessing/Jane Somers – in queste parti il confine
appare davvero impalpabile - racconta le giornate di altre due
anziane, vicine di casa di Maudie, e la giornata di Bridget, una
donna che lavora proprio con il ruolo di Aiuto Domestico e che in
qualche modo diventa un doppio di Jane. In tutto questo mondo,
popolato da anziani malati e vicini alla morte, si apre anche lo
spazio per momenti di gioia che, proprio per il contesto in cui sono
inseriti, acquistano una straordinaria luminosità. Eccone un
esempio, forse il compenso più bello che Jane si è
guadagnata grazie al rapporto con Maudie:
“Una meravigliosa
giornata calda e serena.
Ho detto a Phyllis,
“Pensa tu a tutto,” e sono corsa fuori dall’ufficio,
al diavolo il lavoro. Sono andata da Maudie, e quando mi ha aperto,
molto lentamente, arrabbiata, le ho detto, “Ti porto a fare una
passeggiata al parco.” Lei mi ha guardata,
furiosa. “Oh,
no,” le ho detto. “Oh, cara Maudie, non arrabbiarti, non
arrabbiarti, vieni invece con me.”
“Ma come faccio?”
dice lei. “Guardami!”
E alza gli occhi, oltre
la mia testa, verso il cielo. È così bello, azzurro, e
Maudie dice, “Ma… ma… ma…”
Poi all’improvviso
sorride. Si mette quella sua spessa giacca nera da scarafaggio, e il
cappello estivo, di paglia nera, e ce andiamo al Rose garden
Restaurant. Trovo un tavolo un po’ in disparte, lontano dal
passaggio, vicino ad alcuni cespugli di rose, riempio un vassoio di
paste alla crema, e restiamo sedute lì tutto il pomeriggio.
Lei ha continuato a mangiare ininterrottamente, in quel suo modo
lento, struggente, che dice, Questo me lo metto nella pancia finché
c’è! – poi è rimasta seduta a guardare,
guardare. Sorrideva, felice. Oh, carini, continuava a cantilenare
sommessamente, carini… i passeri, le rose, un bambino in
carrozzina lì vicino. Ho capito che era fuori di sé per
la gioia, una gioia selvaggia, quasi furibonda, quel mondo caldo,
assolato, dai colori brillanti, era per lei uno splendido regalo.
Perché ormai l’aveva dimenticato, là sotto, in
quel suo squallido seminterrato, in quelle orribili strade.
Io mi preoccupavo che
fosse troppo per lei dentro quel suo spesso guscio nero, e faceva
così caldo, c’era tanto rumore. Ma lei non voleva
andarsene. È restata là seduta fino alla chiusura.
E quando l’ho
riportata a casa canticchiava con aria sognante tra sé e sé.
L’ho accompagnata alla porta, e lei ha detto, “No, vai,
vai, voglio sedermi a pensare a questa giornata. Oh, che cose
deliziose da pensare.”
La cosa che più
mi ha colpita quando l’ho vista là fuori, nella luce
forte del sole: il suo colorito giallo. Occhi azzurri brillanti in
una faccia che sembra dipinta di giallo”.
Un ricordo indelebile
per Jane – e per il lettore -; un’esperienza fatta di
poco, sommessa, da passarsi inosservata ai più – quante
ne vediamo, quante ne riconosciamo nel nostro quotidiano? – e
che diventa materia per una memoria esistenziale, formativa, e
dispensatrice di una serenità estranea a tutta la ricerca
della felicità impossibile, sempre proiettata verso
un’oltranza oltremisura, virtuale, e che fa perdere di vista
ciò che si ha sotto gli occhi, e che fa parte – o che
dovrebbe fare parte - del percorso naturale dell’esistenza.
Il lettore lo sa, lo
avverte tra i non detti di ogni pagina, se lo aspetta di continuo: se
si trattasse di una narrazione convenzionale si potrebbe parlare di
prevedibilità, in questo caso rientra nell’ordine
naturale delle cose: le condizioni di salute di Maudie peggiorano, le
viene diagnosticato un cancro allo stomaco, nonostante la sua
resistenza dovrà essere ricoverata in ospedale. Si avvicina
quindi il momento dell’incontro con la morte, un momento che
segna la stretta finale di un rapporto nato per caso e non solo, e
che ha cambiato, arricchendole, le esistenze di due persone che –
si può dire davvero – provenivano da mondi diversi e
lontani, dimostrando che da qualunque prospettiva si arrivi, è
possibile ritrovare e riscoprire l’autenticità di una
vicinanza, di un dialogo, di uno scambio di esperienza e anche di un
valore affettivo nel nome dell’autenticità. Di fronte
alla malattia e alla morte, di fronte a una condizione esistenziale
che è ormai fatta di poco e di niente, solo limiti e
riduzioni, l’atteggiamento dell’anziana non abdica né
all’accettazione né alla rassegnazione: “Quello
che Maudie vuole è – non morire!”, diventa una
sorta di slogan, di motivo ricorrente nelle pagine del diario di
Jane; e ancora: “Maudie non è pronta a morire”, si
leggerà più oltre.
Se si volesse parlare
di aspettative da parte del lettore, la parte conclusiva del romanzo
regala brani di scrittura straordinari legati ovviamente al rapporto
tra Jane e Maudie, consapevoli entrambe dell’approssimarsi
della fine:
“Le prendo sempre
la mano, quando siedo lì, accanto a lei, ma lei lascia cadere
la sua, inerte, una, due, anche tre o quattro volte, prima di
stringere forte la mia. Con la faccia girata dall’altra parte,
gli occhi assenti, la bocca semiaperta, perché le medicine le
fanno perdere il controllo di sé, una vecchia cupa, furiosa,
la sua mano parla nondimeno il linguaggio dell’amicizia”.
Fino alla fine,
l’armatura di freddezza e di distacco apparenti di Maudie terrà
duro, ma nei momenti in cui Jane le sta vicino, ben al di là
dell’apparenza esteriore, si intensifica e si realizza tra le
due quel codice di gesti e di comportamenti che ormai si è
stabilito tra loro, fatto di piccoli movimenti, di azioni contenute,
evitando ogni possibile caduta nel patetico e nel melodrammatico: a
emergere allora e a arrivare al lettore è l’emozione
più vera, quella non manipolata, quella che scaturisce dalla
tenerezza delle ragioni del cuore – quelle di cui parlava
Pascal -, che non necessita di alcuna mediazione; e proprio in queste
pagine, dove il rischio poteva esserci sulla base della situazione
narrativa e delle tematiche, la scrittura di Doris Lessing/Jane
Somers mantiene una giustezza di equilibrio e raggiunge un livello di
assoluto pregio.
“Siamo salite
nell’ambulanza, tutt’e tre, Rosemary con una borsa
contenente gli oggetti di Maudie: un pettine, una spugna, il sapone,
la borsetta. Nella borsetta ci sono il certificato di matrimonio, una
fotografia del “suo uomo”, un bel tipo dall’aria
imbronciata, sulla quarantina, elegantemente vestito, e una di un
bambino, piccolo, ben curato, che sorride con aria infelice al
fotografo”.
Le cose, la poesia
delle cose ultime, di quello che rimane, ben poco apparentemente,
eppure tanto, tutto per questa persona, per Maudie. Una natura morta,
che grida:
still life, ancora vita – la dicitura in
lingua anglosassone che, curiosamente, rovescia totalmente la portata
di senso che veicola invece l’espressione nella nostra lingua
-, un monito e un
memento mori per tutti noi, tanto impegnati
a rimuovere, a nascondere, a eliminare, tutti gli oggetti che ci
parlano di cose ultime a meno che non posseggano un valore materiale,
esibizionistico.
“Maudie è
seduta sul letto, il labbro inferiore pendulo, gocce di saliva che le
cadono continuamente dalla bocca, gli occhi torvi. Quando arrivo,
comincia subito: “Tirami su, tirami su.” La aiuto a
raddrizzarsi sul letto, ma appena ho finito e mi metto a sedere,
ricomincia a sussurrare, “Tirami su, tirami su”.
La aiuto di nuovo, mi
siedo. La aiuto, mi siedo. Poi mi metto in piedi accanto al
capezzale, la tiro su finché si china in avanti, incapace di
restar ritta.
“Maudie, sei già
su, più su di così non si può!” protesto.
Ma: “
Tirami
su, tirami su!”
Ubbidisco per darle
l’illusione di poter ancora esercitare qualche influenza sul
mondo in cui si trova a vivere, dove c’è sempre qualcuno
che fa le cose al posto suo, dove non può lottare; e poi in
questo modo ho una scusa per toccarla, per abbracciarla. Anche se non
dice mai, Abbracciami, voglio che mi abbracci; dice invece, Tirami
su, tirami su”.
Questo è il
momento più intimo, l’apice affettivo che raggiunge il
rapporto tra Jane e Maudie: per apprezzarlo, non è sufficiente
dire che è commovente, toccante; è necessario arrivarci
alla luce di tutto il percorso che ha portato queste due persone a
trovarsi a condividere questo momento; solo così si può
condividere con maggiore profondità un linguaggio altro da
quello usuale, un codice linguistico dove dire Tirami su equivale a
dire Abbracciami. E fa male, anche semplicemente leggere.
Maudie se ne va in
silenzio, si spegne in un momento in cui Jane non è vicino a
lei. Al funerale, Jane ha modo di rivedere i parenti di Maudie, la
sorella e la sua famiglia che aveva conosciuto una domenica durante
una gita: neppure da loro riceve comprensione, lei è solo
stata una persona che si è presa cura di un’anziana
prossima alla fine, e che ora dovrà cercarsene un’altra:
questo è l’esito del cinismo e dell’indifferenza
di quel tipo di persone, coloro che hanno lasciato a casa i
bambini, in quanto “di questi tempi si cerca in ogni modo di
evitare ai bambini ogni contatto con cose fondamentali quanto la
morte e i funerali”. A Jane resta la ricchezza della sua
esperienza con Maudie, la quantità di storie che gliela
renderanno sempre presente – a lei, e anche al lettore:
“C’è
un’altra storia, che mi raccontava sempre, questa: era
disoccupata, perché aveva avuto l’influenza e aveva
perso un lavoro di domestica. Stava andando a casa, col borsellino
completamente vuoto, e mentre camminava, pregava, Dio mio, aiutami,
Dio mio, ti prego, aiutami… Guardò per terra, e vide
una moneta da mezza corona sul marciapiede. Disse, Dio mio, ti
ringrazio. Entrò nel primo negozio, comperò una pasta
al ribes, e la mangiò sui due piedi, tant’era affamata.
Poi comperò pane, burro e marmellata, e un po’ di latte.
Le restavano sei pence. Sulla via del ritorno, entrò in
chiesa, infilò i sei pence in una scatola per le offerte, e
disse a Dio, Tu mi hai aiutato, e ora io aiuto Te”.
Qualcosa è
cambiato nella vita di Jane: si è staccata parecchio dal
lavoro, dopo che Joyce è partita per l’America con la
famiglia, ma anche perché ha capito che è ora di far
posto alle nuove generazioni, a Phyllis che sembra intenzionata a
prendere il suo posto per tenere sempre in auge il nome della
rivista, e a sua nipote Jill che le è piombata in casa per
seguire le orme della zia stravagante e di successo. Jane ha
sicuramente modificato il proprio rapporto col tempo: per esempio, ha
smesso di passare ore nella vasca da bagno. Nulla di definitivo, di
concluso una volta per tutte: del resto, in un romanzo come questo
non c’era da smascherare nessun assassino né da
sciogliere nessun nodo d’amore; è un finale sospeso,
aperto, in corrispondenza col fatto che ha mostrato una
tranche de
vie, un segmento di esperienza che di sicuro condizionerà
il futuro della protagonista. L’ultima immagine ci mostra una
Jane nervosa, arrabbiata si direbbe: “Purché tu sappia
con
chi, sei arrabbiata,” ha detto mia nipote Jill, ed è
andata a prepararmi una bella tazza di tè”. Va da sé
che con quel
chi corsivizzato - un allarme lampeggiante -
ciascun lettore ha da fare i propri conti.
La bellezza del romanzo
sta tutta nella fascinazione per quella capacità di mettere a
fuoco la materia narrativa dalla distanza che si rivela la più
giusta, la più esatta, la più congeniale per produrre
una narrazione esemplare, ricca, significativa per i lettori. Può
essere stimolante a questo punto confrontarsi con uno dei vari testi
dichiaratamente autobiografici che arricchiscono il catalogo delle
opere di questa autrice,
Mia madre, edito da Bollati
Boringhieri, nel quale Doris Lessing racconta se stessa come figlia
ribelle, durante i primi trent’anni di vita, dal 1919 al 1949,
mentre racconta nello stesso tempo le personalità dei genitori
e il loro rapporto. E se è difficile catalogare un romanzo
come
Il diario di Jane Somers, trovargli una collocazione tra
i generi romanzeschi che fanno comodo a chi necessita di etichette
rassicuranti, anche sul versante della scrittura autobiografica,
l’autrice offre al lettore un esempio di eccellenza per la
modalità in cui fatti che riguardano la persona reale del
narratore vengono esposti con un senso della distanza che ancora una
volta ci piace definire di pregevole valore etico, come se parlasse
di altre persone, di terzi, con la stessa obiettività; in
questo modo, Doris Lessing non costruisce un monumento al proprio io,
non scade nell’autocompiacimento, nell’autoreferenzialità;
al contrario, pur utilizzando il proprio vissuto in qualità di
materia narrativa da offrire in pasto ai lettori, la motivazione del
gesto non è quella di soddisfare curiosità da gossip
tanto di moda; non è per redigere un blog sempre tanto di
moda; non è per fare spettacolo dei fatti personali alterando
la verità in una soluzione chimica di finzione al quadrato più
finta delle finzioni dichiarate in quanto tali; ma è per
scambiare con il lettore un percorso di esperienza nel senso più
alto del termine – quello che auspicava Walter Benjamin come
obiettivo primario della narrazione.
Questo è
l’incipit:
“C’è
una fotografia in cui si vede mia madre da giovane: è una
ragazzetta robusta, florida, che esprime una sicurezza tutta
vittoriana. Ha i capelli legati dietro con un fiocco nero e indossa
l’uniforme della scuola, un’ampia camicetta bianca e una
lunga gonna scura. Un’altra fotografia, scattata quarantacinque
anni dopo, mostra una donna anziana, segaligna, severa, che guarda
fieramente da un mondo di delusioni e di frustrazioni. È in
piedi, la mano appoggiata alla spalliera della sedia di mio padre.
Lui deve stare seduto: come sempre, è malato. Si capisce che è
a malapena padrone di sé, ma si è messo un abito adatto
all’occasione, certamente perché lei gli ha detto che
deve fare questo sforzo. Lei ha un vestito piuttosto elegante e ben
fatto, ricavato da uno scampolo acquistato ai saldi.
Della differenza tra
queste due fotografie devono parlare queste pagine. È come se
mi ci fosse voluta una vita intera per capire i miei genitori, e con
continuo stupore”.
Il testo è del
1988, posteriore di cinque anni al
Diario di Jane Somers:
l’autrice, quasi settantenne, scrive del proprio vissuto, dei
propri genitori, trasferendo sulla pagina la propria intimità,
avendo ormai conquistato una saggezza e una capacità di
distanza a dir poco straordinarie, potendo lasciarsi alle spalle ogni
maschera, ogni io convenzionale – anche quello di Jane Somers –
con la capacità di evitare tutti i pericoli che si insidiano
in questa operazione. Il tono della voce narrante, se si fa
astrazione dai possessivi che qualificano il legame personale diretto
con il vissuto dell’autore, è lo stesso che si potrebbe
trovare se non fosse dichiarata nel testo nessuna implicazione
autobiografica: un esito di scrittura - un traguardo - davvero
difficile da raggiungere, in quanto richiede la capacità di
liberarsi del livello propriamente soggettivo che nella realtà
è inevitabilmente connesso al proprio vissuto, quanto meno
liberarlo da tutti i condizionamenti derivanti dal fatto che si
tratta del proprio io e che vorrebbero entrare nel racconto.
Il riferimento al
romanzo di cui si è parlato non è casuale se proprio
quello e non altri trova spazio in questo testo per un riferimento
esplicito per mano dell’autrice stessa mentre racconta della
propria madre:
“Solo
recentemente, scrivendo i libri di Jane Somers, mi sono resa conto
che i vestiti erano la passione di mia madre (che, se vivesse oggi,
assomiglierebbe un po’ a Jane Somers), anche se per gran parte
della vita non ebbe né i soldi per comprarli, né
l’occasione di metterli”.
Il rapporto difficile,
più problematico – come del resto si può evincere
tra le righe dell’incipit stesso – Doris Lessing l’ha
avuto con la madre, un rapporto fatto da una miscela inscindibile di
rabbia, di tenerezza e di pietà. È a partire da questo
livello di consapevolezza che si devono accostare passi come quello
che segue, dove il tono asciutto, crudo, scarno, non solo non
cancella ma, anzi, per contrasto, evidenzia al lettore la portata di
senso che si evince dalla lettura:
“Il parto fu
difficile. Dovettero intervenire col forcipe che mi lasciò un
segno scarlatto sulla guancia. E soprattutto, ero una bambina. Quando
volle sapere il mio nome, sentendo che nessuno ci aveva pensato, il
dottore si chinò sulla culla e disse conciliante: “Doris?”
Raccontando l’episodio mia madre, come suo solito, rendeva con
grande efficacia tutta la scena, la stanchezza del dottore dopo la
lunga notte di veglia, il larvato rimprovero nel modo sommesso, pieno
di tatto, con cui aveva suggerito il nome”.
Per contro, rivivere
attraverso la memoria il periodo dell’infanzia trascorsa
nell’ex Rodhesia oggi Zimbabwe - dove il padre aveva colto
l’opportunità del colonialismo per diventare agricoltore
prima e in un secondo tempo per inseguire il sogno della ricerca
dell’oro e della scienza della rabdomanzia - apre squarci di
grande riconoscenza e positività nei confronti della figura
materna, come questo:
“…leggeva
ad alta voce per noi, ci raccontava storie: era una maestra
meravigliosa. Imparavamo la geografia per mezzo di mucchietti di
fango e di sabbia rimasta dalla costruzione della casa: erano
continenti e montagne e paesi che si indurivano al sole e si potevano
riempire di acqua per farci i fiumi e gli oceani. Semi, uova di
galline, pulcini le servivano per insegnarci la matematica. Inventava
giochi in cui noi eravamo i pianeti, il Sole, la Luna, per farci
capire il sistema solare. Ci faceva notare le stelle, gli uccelli,
gli animali”.
Giovanissima, all’età
di quattordici anni, Doris Lessing attiva la propria ribellione in
nome della rivendicazione di indipendenza e di libertà
soprattutto dai codici di perbenismo vittoriano legati alle
aspettative della propria madre. L’autrice-narratore,
inquadrando la propria figura in campo lungo, a una distanza modulata
e misurata come da uno stroboscopio, e questo proprio in relazione al
rapporto con la madre, riesce a rendere anche attraverso questo segno
stilistico la lontananza che le separava nella vita reale. Si
susseguono nel giro di pochi anni, due matrimoni con uomini assai
diversi, entrambi lontani da quelli che poteva aspettarsi la madre,
entrambi finiti con un divorzio a cui fa seguito la decisione di
Doris di partire per la Gran Bretagna e dedicarsi alla scrittura; la
narrazione acquista un ritmo accelerato, sembra attenersi al solo
livello informativo, senza concessioni a descrizioni, a divagazioni,
a dilatazioni che inquinerebbero l’oggettività del
narrato, che introdurrebbero troppa fiction in una materia che vuole
attenersi, come obiettivo primario, alla restituzione del vissuto,
riducendo al minimo l’ingerenza del punto di vista di chi
narra, un fatto che acquista una valenza fortissima quando chi narra
è la persona reale dell’autore:
“Fino a tre anni
addietro era stata una ragazza sgarbata, scontrosa, arrogante, un
carattere impossibile. Ora era gentile, e ugualmente impossibile.
Sentendo che sua madre sarebbe arrivata l’indomani, avrebbe
sicuramente risposto con grande gentilezza che purtroppo non era in
casa, o aveva da fare, o chissà che altro”.
“Sembrava che le
cose non potessero andar peggio. E invece all’improvviso, sua
figlia annunciò che intendeva lasciare il marito e i figli.
Questo naturalmente
non era possibile: cose simili non si
fanno. Ma stava succedendo davvero. Quella ragazza era tremenda,
distruttiva, una vera croce. Non andava d’accorso con Frank,
diceva, e invece non si erano mai visti segni di disaccordo in
quattro anni. Quella vita non la sopportava, la detestava, detestava
tutto quanto, diceva”.
“Due anni dopo
tornò in Rhodesia. Era stata respinta. Dal clima, perché
non ricordava più quanto potesse essere inclemente. E da sua
figlia, che non voleva il suo aiuto. Non lo voleva, anche se ne aveva
bisogno, lo si vedeva benissimo”.
Passi come questi,
letti alla luce della consapevolezza che l’autore sta parlando
di sé, del proprio io, sono un esempio straordinario del
lavoro compiuto sulla scrittura autobiografica, che si pone in questo
modo come evidente correlativo oggettivo di un lavoro svolto prima di
tutto sulla propria persona reale, segno di un percorso esistenziale
che diventa allora valido in qualità di esempio da proporre al
lettore.
Non resta che augurarsi
che un numero sempre maggiore di lettori, e in modo particolare i
giovani – proprio alla luce di quella che inizialmente può
essere percepita come distanza dal proprio universo - presti
maggiore attenzione a una scrittrice che tiene alto il senso etico
legato al gesto del narrare.
Uno Speciale dedicato a
Doris Lessing, ricco di articoli, interviste, video e registrazioni
audio, si trova sul sito
www.feltrinellieditore.it