PARTE PRIMA
In
ogni età storica, l'Occidente ha conosciuto una lingua che
possiamo definire egemone. Per rifarci al periodo che va dal
Settecento ai primi del Novecento, questa lingua è stata,
riconosciutamente, il francese, che tra l'altro costituiva lo
strumento espressivo della classe dirigente, o aristocratica, anche
nell'Oriente europeo, a cominciare dalla Russia. L'inglese ha preso
gradualmente il posto del francese, in misura crescente, nel
Novecento.
Se
dovessimo rifarci a un evento storico nel quale il francese ha
costituito per così dire la lingua - mi scuso per il gioco di
parole - penseremmo alla conferenza di pace di Versailles, dopo la
prima guerra mondiale. Da quel momento, ad esempio con la
costituzione della Società delle Nazioni, l'inglese ha preso
sistematicamente il sopravvento, pur se il francese resisteva, specie
negli ambienti della diplomazia.
Esiste
un motivo essenzialmente storico per questa irresistibile
transizione, o possiamo identificare anche delle ragioni per così
dire strutturali?
La dimensione
storica riveste senza dubbio un'incidenza cruciale, e si identifica
con l'Impero Britannico e, successivamente o complementariamente, con
il Commonwealth. L'inglese divenne lingua egemone, riproducendo i
suoi modelli grammaticali, sintattici e fonetici, dai Caraibi
all'India, all'Australia, alla Nuova Zelanda. Un caso particolare era
costituito dal Canada, dove l'inglese corrente subiva la risolutiva
influenza dell'American English, un punto sul quale dovremo
ampliamente ritornare. In molte colonia britanniche, grazie anche
all'applicazione delle "Indirect Rule", si diffuse e si
affermò un inglese alquanto semplificato dal punto di vista
lessicale, e soggetto ad adattamenti fonetici, senza contare la
nascita di un inglese intriso di apporti locali, come il pidgin (un
esempio:il romanzo del nigeriano Ken Saro-Wiwa, Sozaboy, ossia
Soldier Boy).
Con tutto ciò,
la spiegazione storico-politica non risulta esauriente, e forse
mantiene una funzione soprattutto veicolare. L'affermazione
internazionale dell'inglese si deve in larga misura alla linearità
della sua grammatica e della sua sintassi, alla sua ricchezza
fonetica che si sottrae a regole perentorie, a priori, alla sua
varietà lessicale, alla sua disponibilità a creare
neologismi.
E'
stato giustamente sottolineato dagli studiosi che l'assenza di
un'accademia, come la francese Académie, ha impedito la
fissazione di normative troppo rigide, onde spesso unicamente la
pratica consente un'autentica competenza, non senza il rischio di
possibili equivoci. Un esempio? La diversa pronuncia di vocaboli
apparentemente identici fa sì che essa diverga in reading (dal
verbo to read) con il fonema "i" e le città di
Reading, in Inghilterra e negli Stati Uniti, con il fonema "e".
Aggiungiamo la
possibilità aperta di appropriazione lessicale, che possiamo
verificare su almeno due piani. Otto Jespersen, il più
autorevole studioso della lingua inglese - a sua volta danese - ha
sottolineato, nel suo un poco invecchiato ma sempre fondamentale "A
Modern English Grammar on Historical Principles" (1909-1949),
sette volumi, ma esiste anche in italiano,
Storia della lingua
inglese (1986) che, se tutti i vocaboli indicanti funzioni
fondamentali, da "to eat" a "to sleep" rivelano
un'origine scandinava e/o anglosassone, numerosissimi altri,
acquisiti dopo l'avvento di Guglielmo il Conquistatore, possiedono
una matrice romanza, se addirittura non rivelano un'appropriazione
diretta, specie dal francese: police, technique, prairie.
Ancora,
dobbiamo giudicare peculiarmente inglese la coesistenza di un termine
anglosassone e di uno romanzo, il secondo dei quali manifesta
generalmente un significato astratto, o subordinato: miscarriage,
abortion, aborto naturale e aborto provocato.
I cosiddetti "false
friends", falsi amici, in genere scaturiscono da apporti
romanzi: "eventually", alla fine e non eventualmente.
Di
più: molti termini di matrice romanza conservano una grande
ampiezza di significato, "missile" indica qualsiasi arma di
lancio, dal giavellotto alla bomba a mano, come aggettivo.
La formazione
dinamica della lingua inglese viene ribadita dal fatto che il primo
dizionario inglese in assoluto, quello di Samuel Johnson, il classico
"Dictionary", appare soltanto nel 1755, e utilizza come
modello quello italiano della Crusca.
PARTE SECONDA
Ogni discorso sulla
lingua inglese deve tenere conto di alcuni presupposti fondamentali,
ma uno di questi oggi si impone sempre più vigorosamente, e
riguarda la progressiva divaricazione, a tutti i livelli, tra
"Standard English" e "American English".
Partiamo dalla
dimensione fonetica.
In Gran Bretagna, a
parte gli accenti locali, la pronuncia riflette decisamente
un'appartenenza di classe, che discende fino al popolare "cockney".
Le classi popolari tendono a non aspirare l' "h" e a
omettere la "s" finale nella terza persona singolare
dell'indicativo presente.
Direi, per
esperienza, che il primo caso segnala uno degli errori nei discenti
italiani. Ma in una delle più popolari commedie di George
Bernard Shaw, Pygmalion, il protagonista insegna la lingua corretta a
una fioraia londinese, e per costringerla a pronunciare l' "h",
le pone davanti una candela accesa e le chiede di dire "hurricane".
Quando l' "h" verrà pronunciata correttamente, la
candela si spegnerà.
Un vezzo degli
intellettuali di Oxford consiste nel pronunciare "really"
con la "e" anziché con la "i", e via
discorrendo.
Sappiamo
relativamente poco della pronuncia shakespeariana e del Seicento,
spesso diversa da quella moderna; non solo, persino lo spettatore
inglese di oggi perde alcuni doppi sensi. Quando in Hamlet, il
protagonista invita Ophelia ad andare in "a nunnery",
intendiamo che si tratti di un convento. Così è, ma nel
Cinquecento si trattava altresì di un bordello: Hamlet,
spiegano in genere i commentatori, suggerisce a Ophelia di stabilirsi
in un luogo dove la donna non possa generare figli.
Il modello
linguistico in tutti i paesi del Commonwealth è lo Standard
English, con l'eccezione, dicevamo, del Canada.
Ci imbattiamo,
peraltro, in singolari fenomeni di contaminazione. Pensiamo
all'Australia: qualsiasi persona colta si scandalizzerà - come
del resto in Nuova Zelanda - sentendo pronunciare "schedule"
all'americana, con il fonema duro ("skédule"). Ma
vari strati di popolazione adottano una pronuncia assai prossima a
quella del "cockney", definita generalmente "broad
Australian" o "rural Australian".
In India, assai
spesso, la pronuncia tradisce una sensibile contaminazione con quella
delle lingue nazionali.
Per molto tempo, la
radio e la televisione nazionale australiana hanno scoraggiato la
programmazione di materiale americano, sia per motivi fonetici, sia
per intere espressioni. Ormai la barriera si sta dissolvendo, ma un
purista australiano rifiuterà sempre di usare l'americano
"lifestyle" in luogo di "way of life".
Quando si ricorre al
modello genuinamente inglese, si ereditano ancora determinati tabù
di chiara origine vittoriana: mai dire "sweat" in luogo di
transpiration per ovvi motivi di decenza. Così, al di fuori
dell'area dello Standard English, praticamente, nessuno conosce il
significato di "loo" (graficamente il numero cento) a
indicare il gabinetto, per il quale esiste addirittura negli Stati
Uniti il familiare "john". L'ascensore sarà, negli
Stati Uniti, un "elevator" e mai un "lift". La
semplificazione grafica indurrà, ad esempio nella
programmazione di un cinema, a scrivere "nite" in luogo di
"night".
Esistono, in
un'automobile, numerose parti che indicano con nomi diversi in Gran
Bretagna e negli Stati Uniti.
I neologismi
(appunto elevator o automobile, in luogo di "car") sono in
larga misura di origine romanza. Ma teniamo presente che la pronuncia
negli Stati Uniti è prevalentemente regionale, e non sociale,
di classe, come in Gran Bretagna. Assistiamo comunque a un fenomeno
di semplificazione onde "new" (come in New York)
pronunciato "nù" anziché "niù".
Sosteneva già
Mark Twain che Standard English e American English si sarebbero
differenziati fino a diventare due lingue diverse: un paradosso
apparente, ma che si sta realizzando. Curiosamente l'inglese
d'America tende a modernizzare ma in talune circostanze resta
conservatore, ad esempio nei toponimi. La "h" mediana, come
in Birmingham, muta nello Standard English, si pronuncia negli Stati
Uniti.
Nell'alfabeto
americano la "z", zed nello Standard English, si pronuncia
zi; un illustre collega linguista della Harvard University insistette
una volta - discutendo con me - che la pronuncia americana di
"either" e "neither", "ìther" e
"nìther", va giudicata più autentica e
genuina di quella dello Standard English, "àither" e
"nàither", in quanto quest'ultima tradisce una sorta
di inquinamento e di influsso germanico.
Si racconta di una
storiella esemplare: un inglese, scese al Kennedy di New York, prende
un taxi e, discorrendo con un autista, questi, con tipico accento
americano gli dice: "You have got a accent. You must be a
foreigner", insomma, dall'accento, capisco che lei è
straniero, ma l'altro ribatte: "No, you are the foreigner. I am
a British", no, lo straniero è lei, io sono britannico.
Ora la diffusione su
scala mondiale, quasi egemonica, dall'inglese d'America deriva
sicuramente da motivi di espansione economico-politica. Ma non basta.
Un aspetto decisivo dell'egemonia americana va scorto nella
inarrestabile capacità dello American English di arricchire il
vocabolario con sempre nuovi neologismi; ecco allora il caso di chi
ha l'abitudine, o il vizio di mutare continuamente canale in
televisione. Si diceva, con termine approdato anche in Italia,
"zapping". Ormai, invece, la parola correntemente usata è
"surfing". "I am a surfer" diceva in questo senso
il presidente Clinton. La televisione e il cinema, naturalmente,
incidono profondamente sul fenomeno. Alcuni decenni or sono, una
ricerca mostrò che in Gran Bretagna lo spettatore medio di un
film americano perdeva dal dieci al trenta per cento delle parole o
delle frasi.
Un autorevole
studioso americano, William Safire, tiene sul New York Times e sul
relativo Megazine una gustosa rubrica intitolata, semplicemente,
"Language". La consiglio agli insegnanti di inglese, e in
genere a chiunque sia interessato all'inglese. Scrissi a suo tempo
sulla Stampa di alcuni neologismi illustrati da Safire, scaturiti
dall'attualità. Uno, ormai classico, è "ground
zero", in un primo tempo riferito allo spazio su cui si ergevano
a New York le Torri Gemelle. Bene: in breve tempo, l'espressione è
entrato nel linguaggio dei giovani per indicare una stanza in
disordine.
Più di
recente, Safire ha indugiato sulla terminologia riferita al disastro
dell'uragano Katrina. Ora, Katrina - ci insegna Safire - è una
variante greca di "Caterina", inventata dalla World
Meteorological Organization. Katrina va definita appropriatamente in
inglese - avverte Safire - come "cataclysm", ancora una
volta un termine di matrice classica. Resta il fatto basilare che
l'inglese d'America, nella sua creatività, spesso disconosce
termini mutuati in Inghilterra per esempio dal francese. In Gran
Bretagna il fermo posta si chiama "poste restante",
esattamente come in Francia, ma l'espressione resta ignota negli
Stati Uniti, dove il fermo posta si chiama "general delivery".
All'opposto, la
complessità etnica degli Stati Uniti, dovuta in larga misura
all'immigrazione, ha comportato importanti acquisizioni linguistiche.
La più incisiva è probabilmente, quella dovuta
all'immigrazione ebraica, e riguarda l'uso corrente di termini
"jiddish" (in inglese scritto "yiddish"), la
lingua vetero-tedesca fatta propria dagli ebrei Ashkenazi. Il grande
studioso americano Leo Rosten pubblicò in merito, nel 1968, un
membro di capitale importanza,
The Joys of Yiddish. Lo jiddish
è entrato talmente nell'uso, che non se ne può
assolutamente fare a meno studiando o insegnando l'inglese d'America.
Analogamente,
bisogna attingere al linguaggio dello sport. Che cos'è, negli
Stati Uniti, un "rain ticket"? E' un biglietto per una
partita di baseball, riutilizzabile se è stata rinviata per
pioggia. L'espressione è entrata nell'uso comune per
significare che un invito è ancora valido anche se il
beneficiario non ha potuto utilizzarlo: diciamo, una cena o una
festa. Mark Twain aveva proprio ragione.
PARTE TERZA
L'inglese è
una lingua polivalente, nel senso che uno stesso termine può
caricarsi di significati diversi, talora complementari.
Apro a caso, a
pagina 441, l'ultima edizione dell'eccellente dizionario Ragazzini, e
leggo il termine "gig". E' un calesse, oppure una fiocina,
oppure -addirittura - un lavoretto per cui si viene ingaggiati. Sarà
il contesto a rivelarci il significato corretto. Ve ne propongo un
altro: bolt. Originariamente è un catenaccio, ma in un'arma da
fuoco è l'otturatore, e nel motore di un'auto, lo spinotto, e
generalmente un bullone. In più di un'istanza non esiste
equivalente italiano.
Un "ghost
writer" è chi scrive discorsi o addirittura saggi e libri
per un altro, insomma, un prestanome, parola che non rende
esattamente la valenza dell'originale. Pipe è un tubo, ma
anche una pipa o uno strumento musicale. Un caso limite, che ha messo
nei guai traduttori anche illustri (non faccio nomi), "arm".
Si tratta di un braccio o di un'arma?
Non di rado, il
processo linguistico di semplificazione genera ambiguità,
specie tra il maschile e il femminile. Ci si può
tranquillamente giocare, ma talvolta rimane l'interrogativo,
risolvibile ancora una volta, soltanto in sede contestuale. Una
benvenuta semplificazione, che - sono convinto - si applicherà
pure alla complessa sintassi italiana, si trova nella virtuale
abolizione del congiuntivo.
Il "political
correct" ha portato ad alcune metamorfosi. La più
accreditata, forse, è "afro-american", diventando
poi "african-america" a indicare quelli che si chiamavano
un tempo, equivocamente, "negri" o "neri". Dal
canto loro, le femministe hanno imposto, in luogo di "Miss"
o "Mrs", il lapidario Ms., intraducibile in italiano. Per
correttezza, non bisogna tassativamente più usare il
maschilista "chairman", da sostituire con "chairperson".
Un contributo
lessicale di decisiva importanza, nel senso che la coniazione del
termine, del tutto intraduzcibile, ha assunto un significato
emblematico in tutte le lingue, e si rapporta al linguaggio del
femminismo, è
gender. Approssimativamente reso in
italiano (cfr. Dizionario Ragazzini) con "sesso", in
effetti indica l'appartenenza a un sesso, ma più
genericamente si riferisce alla cultura, alle rivendicazioni,
all'autonomia della donna. Solo alcuni anni or sono il grande
Oxford Dictionary si è deciso ad aggiungere questa
voce. Per una distinzione tecnica, consiglio il dizionario oggi più
aggiornmato, il
World English Dictionary della
Blomsbury – Microsoft Encarta.
Ecco
allora l'insegnante di inglese dovrà tenersi al corrente,
attingendo a pubblicazioni specializzate. Qualche volta, sarà
costretto, se davvero vuole tenersi al passo, a prestare l'orecchio
al linguaggio dei giovani. Ho già segnalato "ground
zero", ma in alcuni casi il prestito sollecita una traduzione
che non esiste. Mi è capitato di segnalare "cool",
entrato anche nell'uso italiano, per indicare quel giovane
disinibito, in parte trasgressivo: ho proposto, in italiano, "figo".
Ma non credo esista corrispondenza per l'abbigliamento volutamente
trasandato, corrivo, per cui si ricorre a "trash".
Un territorio molto
ampio investe la musica popolare, dal country al rock. Il gruppo
americano R.E.M. rimanda addirittura a un canone della psicoanalisi,
"rapid eyes movement", il movimento degli occhi nel sogno.
Un altro gruppo molto noto, quello degli
Spin Doctors, ha
popolarizzato un'espressione ormai di uso comune sia negli
Stati Uniti sia in Gran Bretagna: spin doctor, "consigleire".
Bono, riconosciuto
personaggio di punta del gruppo U2, ha meritato un ampio e serio
articolo nel New York Times Magazine, a proposito della sua influenza
culturale anche sul piano del linguaggio.
Pensiamo, poi, ai
toponimi, e ricorriamo ancora una volta all'inglese d'America.
New York viene
chiamata "big apple", perché? Nel gergo dei
jezzisti, specie meridionali e di colore, "apple" è
il lavoro, l'impiego, il "job", e New York viene giudicata
la città dove lo si può facilmente trovare. New Orleans
ha una doppia pronuncia, e la più diffusa, Orlians, è
puramente dialettale, come dire, in italiano, Beri anziché
Bari. La pronuncia corretta esige l'accento sulla "o"
iniziale. L'elicottero militare Chinook si pronuncia "shynùk":
è parola indiana ricavata dal nome di un vento che soffia dal
Pacifico.
Altra
differenziazione: i dittonghi. Lo "ou" inglese originario,
come in "labour" perde negli Stati Uniti la "u":
"labor". Nella ormai famosa commedia di Jhon Osborne, "Look
back in Anger", del 1956, uno dei personaggi, preoccupato per
l'influenza globale che proviene da oltre l'Atlantico, esclama: "I
nostri figli saranno tutti americani!". Ma come ho notato prima,
l'intera area del vecchio Commonweath mantiene un'assoluta lealtà
nei confronti dello Standard English. E allora, come ci comporteremo
nell'insegnamento? Tollereremo che i nostri allievi adottino la
pronuncia americana? Io non sono assolutista, e penso che dobbiamo
essere tolleranti. Certo, Shakespeare o, oggi, Yeats, non dovranno
essere americanizzati, ma, come diceva un mio vecchio collega, la
pronuncia americanizzante è sempre meglio di quella
italianizzante. Bisogna soprattutto insistere sul fatto che l'inglese
non è una lingua vocalica e aperta come l'italiano ed evitare
la commistione.
I parlanti inglesi a
tutti i livelli ci riconoscono subito, e ironizzano, quando sentono
dire "little". Così l'italiano si tradisce.
La verità è
che, nell'insegnamento, dobbiamo far ricorso a tutti gli strumenti a
disposizione: conta sempre il vecchio detto che la pratica vale più
della grammatica. Via libera alla radio, alla televisione, ai cd; i
Beatles non contraddicono i classici.
PARTE QUARTA
Veniamo al
drammatico e crescente inquinamento dell'italiano ad opera
dell'inglese. Voglio citare innanzitutto due casi macroscopici: il
"ticket", che è in effetti un buono, un tagliando,
che a Torino le classi popolari hanno saggiamente abbreviato in
"tic"; il travolgente "devolution", pronunciato
generalmente all'americana, e che significa decentramento. In Canada,
stato federale e decentrato per eccellenza, si ricorre a
"decentralization". Perché mai dobbiamo avere un
ministro del Welfare, pronunciato in Italia nei modi più
stravolti possibili, o, alla Camera, il "question time"?
Questa colonizzazione linguistica mi sembra assolutamente
inaccettabile, e, inquina, appunto, la nostra lingua.
Anni or sono tenni a
New York una conferenza, dov'era presente il mio vecchio amico
Umberto Eco, sui travestimenti linguistici dovuti alla traduzione
letterale dei termini inglesi. La intitolai, con una espressione
inglese, "Strange Bedfellows", strani compagni di letto. Il
fenomeno sta ormai dilagando, e basta ascoltare i discorsi dei
politici o aprire un quotidiano per constatare la sempre maggiore
frequenza di termini inglesi o di termini italiani trasferiti
direttamente dall'inglese. Uno dei termini che più mi
infastidisce è "testato". Sappiamo che l'inglese
"tested" significa collaudato, verificato, e via
discorrendo. Pensate, nella mia conferenza citai un caso limite: in
una rivista di automobilismo, si consigliava a chi intraprendeva un
lungo viaggio di portare sempre con sé un canestro di benzina.
Naturalmente l'originale era l'inglese d'America "canister",
bidone, e l'idea della benzina in un canestro mi sembrò
davvero impagabile.
L'insegnamento delle
lingue deve essere sempre parallelo, comparativo, e mi sembra che
l'inglese non faccia certo eccezione.
Gli equivoci,
soprattutto fonetici, affiorano prepotentemente, come già mi è
accaduto di scrivere, nei giornali radio o nei telegiornali, oltre
che nella difficile arte del doppiaggio. Esiste a Torino l'eccellente
scuola di doppiaggio diretta dall'amico Brusa, e penso che anche a
livello di insegnamento gli allievi potrebbero beneficiare di
esperimenti del genere. La traduzione, o la riscrittura, insegnati
con metodi moderni e fondamentalmente comparativi, forniscono anche
uno strumento di prim'ordine nell'apprendimento delle lingue, in
primo luogo proprio l'inglese. Naturalmente, la lettura di giornali e
riviste rimane un fattore cruciale, a cominciare dalla stringatezza
dei titoli, a noi sconosciuta. Impariamo l'inglese, serviamoci
dell'inglese, ma per carità, non facciamoci sottomettere.
Niente conquista, dunque, a confronto di una lingua ormai, nel bene o
nel male, universale. A nostro vantaggio.
Con una riflessione
finale, in relazione a un paradosso. In base alle statistiche, siamo
uno dei paesi con meno parlanti di lingue straniere. Bisogna, allora,
dilatare i confini della scuola, e progettare qualcosa di nuovo.
Pensiamoci.