L'INSEGNAMENTO DELL'INGLESE

L'INGLESE: LINGUA UNIVERSALE O LINGUA DI CONQUISTA?

CLAUDIO GORLIER Università di Torino

PARTE PRIMA



In ogni età storica, l'Occidente ha conosciuto una lingua che possiamo definire egemone. Per rifarci al periodo che va dal Settecento ai primi del Novecento, questa lingua è stata, riconosciutamente, il francese, che tra l'altro costituiva lo strumento espressivo della classe dirigente, o aristocratica, anche nell'Oriente europeo, a cominciare dalla Russia. L'inglese ha preso gradualmente il posto del francese, in misura crescente, nel Novecento.

Se dovessimo rifarci a un evento storico nel quale il francese ha costituito per così dire la lingua - mi scuso per il gioco di parole - penseremmo alla conferenza di pace di Versailles, dopo la prima guerra mondiale. Da quel momento, ad esempio con la costituzione della Società delle Nazioni, l'inglese ha preso sistematicamente il sopravvento, pur se il francese resisteva, specie negli ambienti della diplomazia.

Esiste un motivo essenzialmente storico per questa irresistibile transizione, o possiamo identificare anche delle ragioni per così dire strutturali?

La dimensione storica riveste senza dubbio un'incidenza cruciale, e si identifica con l'Impero Britannico e, successivamente o complementariamente, con il Commonwealth. L'inglese divenne lingua egemone, riproducendo i suoi modelli grammaticali, sintattici e fonetici, dai Caraibi all'India, all'Australia, alla Nuova Zelanda. Un caso particolare era costituito dal Canada, dove l'inglese corrente subiva la risolutiva influenza dell'American English, un punto sul quale dovremo ampliamente ritornare. In molte colonia britanniche, grazie anche all'applicazione delle "Indirect Rule", si diffuse e si affermò un inglese alquanto semplificato dal punto di vista lessicale, e soggetto ad adattamenti fonetici, senza contare la nascita di un inglese intriso di apporti locali, come il pidgin (un esempio:il romanzo del nigeriano Ken Saro-Wiwa, Sozaboy, ossia Soldier Boy).

Con tutto ciò, la spiegazione storico-politica non risulta esauriente, e forse mantiene una funzione soprattutto veicolare. L'affermazione internazionale dell'inglese si deve in larga misura alla linearità della sua grammatica e della sua sintassi, alla sua ricchezza fonetica che si sottrae a regole perentorie, a priori, alla sua varietà lessicale, alla sua disponibilità a creare neologismi.

E' stato giustamente sottolineato dagli studiosi che l'assenza di un'accademia, come la francese Académie, ha impedito la fissazione di normative troppo rigide, onde spesso unicamente la pratica consente un'autentica competenza, non senza il rischio di possibili equivoci. Un esempio? La diversa pronuncia di vocaboli apparentemente identici fa sì che essa diverga in reading (dal verbo to read) con il fonema "i" e le città di Reading, in Inghilterra e negli Stati Uniti, con il fonema "e".

Aggiungiamo la possibilità aperta di appropriazione lessicale, che possiamo verificare su almeno due piani. Otto Jespersen, il più autorevole studioso della lingua inglese - a sua volta danese - ha sottolineato, nel suo un poco invecchiato ma sempre fondamentale "A Modern English Grammar on Historical Principles" (1909-1949), sette volumi, ma esiste anche in italiano, Storia della lingua inglese (1986) che, se tutti i vocaboli indicanti funzioni fondamentali, da "to eat" a "to sleep" rivelano un'origine scandinava e/o anglosassone, numerosissimi altri, acquisiti dopo l'avvento di Guglielmo il Conquistatore, possiedono una matrice romanza, se addirittura non rivelano un'appropriazione diretta, specie dal francese: police, technique, prairie.

Ancora, dobbiamo giudicare peculiarmente inglese la coesistenza di un termine anglosassone e di uno romanzo, il secondo dei quali manifesta generalmente un significato astratto, o subordinato: miscarriage, abortion, aborto naturale e aborto provocato.

I cosiddetti "false friends", falsi amici, in genere scaturiscono da apporti romanzi: "eventually", alla fine e non eventualmente.

Di più: molti termini di matrice romanza conservano una grande ampiezza di significato, "missile" indica qualsiasi arma di lancio, dal giavellotto alla bomba a mano, come aggettivo.

La formazione dinamica della lingua inglese viene ribadita dal fatto che il primo dizionario inglese in assoluto, quello di Samuel Johnson, il classico "Dictionary", appare soltanto nel 1755, e utilizza come modello quello italiano della Crusca.

PARTE SECONDA

Ogni discorso sulla lingua inglese deve tenere conto di alcuni presupposti fondamentali, ma uno di questi oggi si impone sempre più vigorosamente, e riguarda la progressiva divaricazione, a tutti i livelli, tra "Standard English" e "American English".

Partiamo dalla dimensione fonetica.

In Gran Bretagna, a parte gli accenti locali, la pronuncia riflette decisamente un'appartenenza di classe, che discende fino al popolare "cockney". Le classi popolari tendono a non aspirare l' "h" e a omettere la "s" finale nella terza persona singolare dell'indicativo presente.

Direi, per esperienza, che il primo caso segnala uno degli errori nei discenti italiani. Ma in una delle più popolari commedie di George Bernard Shaw, Pygmalion, il protagonista insegna la lingua corretta a una fioraia londinese, e per costringerla a pronunciare l' "h", le pone davanti una candela accesa e le chiede di dire "hurricane". Quando l' "h" verrà pronunciata correttamente, la candela si spegnerà.

Un vezzo degli intellettuali di Oxford consiste nel pronunciare "really" con la "e" anziché con la "i", e via discorrendo.

Sappiamo relativamente poco della pronuncia shakespeariana e del Seicento, spesso diversa da quella moderna; non solo, persino lo spettatore inglese di oggi perde alcuni doppi sensi. Quando in Hamlet, il protagonista invita Ophelia ad andare in "a nunnery", intendiamo che si tratti di un convento. Così è, ma nel Cinquecento si trattava altresì di un bordello: Hamlet, spiegano in genere i commentatori, suggerisce a Ophelia di stabilirsi in un luogo dove la donna non possa generare figli.

Il modello linguistico in tutti i paesi del Commonwealth è lo Standard English, con l'eccezione, dicevamo, del Canada.

Ci imbattiamo, peraltro, in singolari fenomeni di contaminazione. Pensiamo all'Australia: qualsiasi persona colta si scandalizzerà - come del resto in Nuova Zelanda - sentendo pronunciare "schedule" all'americana, con il fonema duro ("skédule"). Ma vari strati di popolazione adottano una pronuncia assai prossima a quella del "cockney", definita generalmente "broad Australian" o "rural Australian".

In India, assai spesso, la pronuncia tradisce una sensibile contaminazione con quella delle lingue nazionali.

Per molto tempo, la radio e la televisione nazionale australiana hanno scoraggiato la programmazione di materiale americano, sia per motivi fonetici, sia per intere espressioni. Ormai la barriera si sta dissolvendo, ma un purista australiano rifiuterà sempre di usare l'americano "lifestyle" in luogo di "way of life".

Quando si ricorre al modello genuinamente inglese, si ereditano ancora determinati tabù di chiara origine vittoriana: mai dire "sweat" in luogo di transpiration per ovvi motivi di decenza. Così, al di fuori dell'area dello Standard English, praticamente, nessuno conosce il significato di "loo" (graficamente il numero cento) a indicare il gabinetto, per il quale esiste addirittura negli Stati Uniti il familiare "john". L'ascensore sarà, negli Stati Uniti, un "elevator" e mai un "lift". La semplificazione grafica indurrà, ad esempio nella programmazione di un cinema, a scrivere "nite" in luogo di "night".

Esistono, in un'automobile, numerose parti che indicano con nomi diversi in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.

I neologismi (appunto elevator o automobile, in luogo di "car") sono in larga misura di origine romanza. Ma teniamo presente che la pronuncia negli Stati Uniti è prevalentemente regionale, e non sociale, di classe, come in Gran Bretagna. Assistiamo comunque a un fenomeno di semplificazione onde "new" (come in New York) pronunciato "nù" anziché "niù".

Sosteneva già Mark Twain che Standard English e American English si sarebbero differenziati fino a diventare due lingue diverse: un paradosso apparente, ma che si sta realizzando. Curiosamente l'inglese d'America tende a modernizzare ma in talune circostanze resta conservatore, ad esempio nei toponimi. La "h" mediana, come in Birmingham, muta nello Standard English, si pronuncia negli Stati Uniti.

Nell'alfabeto americano la "z", zed nello Standard English, si pronuncia zi; un illustre collega linguista della Harvard University insistette una volta - discutendo con me - che la pronuncia americana di "either" e "neither", "ìther" e "nìther", va giudicata più autentica e genuina di quella dello Standard English, "àither" e "nàither", in quanto quest'ultima tradisce una sorta di inquinamento e di influsso germanico.

Si racconta di una storiella esemplare: un inglese, scese al Kennedy di New York, prende un taxi e, discorrendo con un autista, questi, con tipico accento americano gli dice: "You have got a accent. You must be a foreigner", insomma, dall'accento, capisco che lei è straniero, ma l'altro ribatte: "No, you are the foreigner. I am a British", no, lo straniero è lei, io sono britannico.

Ora la diffusione su scala mondiale, quasi egemonica, dall'inglese d'America deriva sicuramente da motivi di espansione economico-politica. Ma non basta. Un aspetto decisivo dell'egemonia americana va scorto nella inarrestabile capacità dello American English di arricchire il vocabolario con sempre nuovi neologismi; ecco allora il caso di chi ha l'abitudine, o il vizio di mutare continuamente canale in televisione. Si diceva, con termine approdato anche in Italia, "zapping". Ormai, invece, la parola correntemente usata è "surfing". "I am a surfer" diceva in questo senso il presidente Clinton. La televisione e il cinema, naturalmente, incidono profondamente sul fenomeno. Alcuni decenni or sono, una ricerca mostrò che in Gran Bretagna lo spettatore medio di un film americano perdeva dal dieci al trenta per cento delle parole o delle frasi.

Un autorevole studioso americano, William Safire, tiene sul New York Times e sul relativo Megazine una gustosa rubrica intitolata, semplicemente, "Language". La consiglio agli insegnanti di inglese, e in genere a chiunque sia interessato all'inglese. Scrissi a suo tempo sulla Stampa di alcuni neologismi illustrati da Safire, scaturiti dall'attualità. Uno, ormai classico, è "ground zero", in un primo tempo riferito allo spazio su cui si ergevano a New York le Torri Gemelle. Bene: in breve tempo, l'espressione è entrato nel linguaggio dei giovani per indicare una stanza in disordine.

Più di recente, Safire ha indugiato sulla terminologia riferita al disastro dell'uragano Katrina. Ora, Katrina - ci insegna Safire - è una variante greca di "Caterina", inventata dalla World Meteorological Organization. Katrina va definita appropriatamente in inglese - avverte Safire - come "cataclysm", ancora una volta un termine di matrice classica. Resta il fatto basilare che l'inglese d'America, nella sua creatività, spesso disconosce termini mutuati in Inghilterra per esempio dal francese. In Gran Bretagna il fermo posta si chiama "poste restante", esattamente come in Francia, ma l'espressione resta ignota negli Stati Uniti, dove il fermo posta si chiama "general delivery".

All'opposto, la complessità etnica degli Stati Uniti, dovuta in larga misura all'immigrazione, ha comportato importanti acquisizioni linguistiche. La più incisiva è probabilmente, quella dovuta all'immigrazione ebraica, e riguarda l'uso corrente di termini "jiddish" (in inglese scritto "yiddish"), la lingua vetero-tedesca fatta propria dagli ebrei Ashkenazi. Il grande studioso americano Leo Rosten pubblicò in merito, nel 1968, un membro di capitale importanza, The Joys of Yiddish. Lo jiddish è entrato talmente nell'uso, che non se ne può assolutamente fare a meno studiando o insegnando l'inglese d'America.

Analogamente, bisogna attingere al linguaggio dello sport. Che cos'è, negli Stati Uniti, un "rain ticket"? E' un biglietto per una partita di baseball, riutilizzabile se è stata rinviata per pioggia. L'espressione è entrata nell'uso comune per significare che un invito è ancora valido anche se il beneficiario non ha potuto utilizzarlo: diciamo, una cena o una festa. Mark Twain aveva proprio ragione.

PARTE TERZA

L'inglese è una lingua polivalente, nel senso che uno stesso termine può caricarsi di significati diversi, talora complementari.

Apro a caso, a pagina 441, l'ultima edizione dell'eccellente dizionario Ragazzini, e leggo il termine "gig". E' un calesse, oppure una fiocina, oppure -addirittura - un lavoretto per cui si viene ingaggiati. Sarà il contesto a rivelarci il significato corretto. Ve ne propongo un altro: bolt. Originariamente è un catenaccio, ma in un'arma da fuoco è l'otturatore, e nel motore di un'auto, lo spinotto, e generalmente un bullone. In più di un'istanza non esiste equivalente italiano.

Un "ghost writer" è chi scrive discorsi o addirittura saggi e libri per un altro, insomma, un prestanome, parola che non rende esattamente la valenza dell'originale. Pipe è un tubo, ma anche una pipa o uno strumento musicale. Un caso limite, che ha messo nei guai traduttori anche illustri (non faccio nomi), "arm". Si tratta di un braccio o di un'arma?

Non di rado, il processo linguistico di semplificazione genera ambiguità, specie tra il maschile e il femminile. Ci si può tranquillamente giocare, ma talvolta rimane l'interrogativo, risolvibile ancora una volta, soltanto in sede contestuale. Una benvenuta semplificazione, che - sono convinto - si applicherà pure alla complessa sintassi italiana, si trova nella virtuale abolizione del congiuntivo.

Il "political correct" ha portato ad alcune metamorfosi. La più accreditata, forse, è "afro-american", diventando poi "african-america" a indicare quelli che si chiamavano un tempo, equivocamente, "negri" o "neri". Dal canto loro, le femministe hanno imposto, in luogo di "Miss" o "Mrs", il lapidario Ms., intraducibile in italiano. Per correttezza, non bisogna tassativamente più usare il maschilista "chairman", da sostituire con "chairperson".

Un contributo lessicale di decisiva importanza, nel senso che la coniazione del termine, del tutto intraduzcibile, ha assunto un significato emblematico in tutte le lingue, e si rapporta al linguaggio del femminismo, è gender. Approssimativamente reso in italiano (cfr. Dizionario Ragazzini) con "sesso", in effetti indica l'appartenenza a un sesso, ma più genericamente si riferisce alla cultura, alle rivendicazioni, all'autonomia della donna. Solo alcuni anni or sono il grande Oxford Dictionary si è deciso ad aggiungere questa voce. Per una distinzione tecnica, consiglio il dizionario oggi più aggiornmato, il World English Dictionary della Blomsbury – Microsoft Encarta.

Ecco allora l'insegnante di inglese dovrà tenersi al corrente, attingendo a pubblicazioni specializzate. Qualche volta, sarà costretto, se davvero vuole tenersi al passo, a prestare l'orecchio al linguaggio dei giovani. Ho già segnalato "ground zero", ma in alcuni casi il prestito sollecita una traduzione che non esiste. Mi è capitato di segnalare "cool", entrato anche nell'uso italiano, per indicare quel giovane disinibito, in parte trasgressivo: ho proposto, in italiano, "figo". Ma non credo esista corrispondenza per l'abbigliamento volutamente trasandato, corrivo, per cui si ricorre a "trash".

Un territorio molto ampio investe la musica popolare, dal country al rock. Il gruppo americano R.E.M. rimanda addirittura a un canone della psicoanalisi, "rapid eyes movement", il movimento degli occhi nel sogno. Un altro gruppo molto noto, quello degli Spin Doctors, ha popolarizzato un'espressione ormai di uso comune sia negli Stati Uniti sia in Gran Bretagna: spin doctor, "consigleire".

Bono, riconosciuto personaggio di punta del gruppo U2, ha meritato un ampio e serio articolo nel New York Times Magazine, a proposito della sua influenza culturale anche sul piano del linguaggio.

Pensiamo, poi, ai toponimi, e ricorriamo ancora una volta all'inglese d'America.

New York viene chiamata "big apple", perché? Nel gergo dei jezzisti, specie meridionali e di colore, "apple" è il lavoro, l'impiego, il "job", e New York viene giudicata la città dove lo si può facilmente trovare. New Orleans ha una doppia pronuncia, e la più diffusa, Orlians, è puramente dialettale, come dire, in italiano, Beri anziché Bari. La pronuncia corretta esige l'accento sulla "o" iniziale. L'elicottero militare Chinook si pronuncia "shynùk": è parola indiana ricavata dal nome di un vento che soffia dal Pacifico.

Altra differenziazione: i dittonghi. Lo "ou" inglese originario, come in "labour" perde negli Stati Uniti la "u": "labor". Nella ormai famosa commedia di Jhon Osborne, "Look back in Anger", del 1956, uno dei personaggi, preoccupato per l'influenza globale che proviene da oltre l'Atlantico, esclama: "I nostri figli saranno tutti americani!". Ma come ho notato prima, l'intera area del vecchio Commonweath mantiene un'assoluta lealtà nei confronti dello Standard English. E allora, come ci comporteremo nell'insegnamento? Tollereremo che i nostri allievi adottino la pronuncia americana? Io non sono assolutista, e penso che dobbiamo essere tolleranti. Certo, Shakespeare o, oggi, Yeats, non dovranno essere americanizzati, ma, come diceva un mio vecchio collega, la pronuncia americanizzante è sempre meglio di quella italianizzante. Bisogna soprattutto insistere sul fatto che l'inglese non è una lingua vocalica e aperta come l'italiano ed evitare la commistione.

I parlanti inglesi a tutti i livelli ci riconoscono subito, e ironizzano, quando sentono dire "little". Così l'italiano si tradisce.

La verità è che, nell'insegnamento, dobbiamo far ricorso a tutti gli strumenti a disposizione: conta sempre il vecchio detto che la pratica vale più della grammatica. Via libera alla radio, alla televisione, ai cd; i Beatles non contraddicono i classici.

PARTE QUARTA

Veniamo al drammatico e crescente inquinamento dell'italiano ad opera dell'inglese. Voglio citare innanzitutto due casi macroscopici: il "ticket", che è in effetti un buono, un tagliando, che a Torino le classi popolari hanno saggiamente abbreviato in "tic"; il travolgente "devolution", pronunciato generalmente all'americana, e che significa decentramento. In Canada, stato federale e decentrato per eccellenza, si ricorre a "decentralization". Perché mai dobbiamo avere un ministro del Welfare, pronunciato in Italia nei modi più stravolti possibili, o, alla Camera, il "question time"? Questa colonizzazione linguistica mi sembra assolutamente inaccettabile, e, inquina, appunto, la nostra lingua.

Anni or sono tenni a New York una conferenza, dov'era presente il mio vecchio amico Umberto Eco, sui travestimenti linguistici dovuti alla traduzione letterale dei termini inglesi. La intitolai, con una espressione inglese, "Strange Bedfellows", strani compagni di letto. Il fenomeno sta ormai dilagando, e basta ascoltare i discorsi dei politici o aprire un quotidiano per constatare la sempre maggiore frequenza di termini inglesi o di termini italiani trasferiti direttamente dall'inglese. Uno dei termini che più mi infastidisce è "testato". Sappiamo che l'inglese "tested" significa collaudato, verificato, e via discorrendo. Pensate, nella mia conferenza citai un caso limite: in una rivista di automobilismo, si consigliava a chi intraprendeva un lungo viaggio di portare sempre con sé un canestro di benzina. Naturalmente l'originale era l'inglese d'America "canister", bidone, e l'idea della benzina in un canestro mi sembrò davvero impagabile.

L'insegnamento delle lingue deve essere sempre parallelo, comparativo, e mi sembra che l'inglese non faccia certo eccezione.

Gli equivoci, soprattutto fonetici, affiorano prepotentemente, come già mi è accaduto di scrivere, nei giornali radio o nei telegiornali, oltre che nella difficile arte del doppiaggio. Esiste a Torino l'eccellente scuola di doppiaggio diretta dall'amico Brusa, e penso che anche a livello di insegnamento gli allievi potrebbero beneficiare di esperimenti del genere. La traduzione, o la riscrittura, insegnati con metodi moderni e fondamentalmente comparativi, forniscono anche uno strumento di prim'ordine nell'apprendimento delle lingue, in primo luogo proprio l'inglese. Naturalmente, la lettura di giornali e riviste rimane un fattore cruciale, a cominciare dalla stringatezza dei titoli, a noi sconosciuta. Impariamo l'inglese, serviamoci dell'inglese, ma per carità, non facciamoci sottomettere. Niente conquista, dunque, a confronto di una lingua ormai, nel bene o nel male, universale. A nostro vantaggio.

Con una riflessione finale, in relazione a un paradosso. In base alle statistiche, siamo uno dei paesi con meno parlanti di lingue straniere. Bisogna, allora, dilatare i confini della scuola, e progettare qualcosa di nuovo. Pensiamoci.