Comprensione
del testo
Dopo una prima
lettura, rendi esplicito il contenuto informativo del testo.
La
poesia si propone come un dialogo tra il poeta e un “Tu”
con il quale sembra esistere una consuetudine di discorso, e che
viene invocato successivamente come “Signore”.
A questo interlocutore viene posta
inizialmente una domanda: fino a quando egli vorrà continuare
il suo cammino tortuoso tra i pensieri che oscurano la mente del
poeta sino a renderla simile a una foresta inestricabile?
I luoghi dove questo “Tu”
si aggira sono i nascondigli più inestricabili del cuore e le
vene più profonde del corpo stesso del poeta: la terra dai
confini ignoti in cui entrambi abitano è la stessa.
Almeno
– chiede il poeta – gli sia concesso di capire le ragioni
della felicità e del dolore, per lui sempre incomprensibili
nel loro succedersi.
Ancora chiede che diventi possibile
per lui scendere nelle zone più oscure del suo animo, là
dove crescono erbe selvatiche che lo inaridiscono trasformandolo in
un terreno improduttivo: possa in questo modo liberarsi dalla infida
palude del male.
Ma se ciò gli è
negato, il poeta chiede almeno di poter mantenere sempre la sua
dignità di uomo libero e di consumare la sua vita nella
poesia.
Formula la tua
ipotesi sull’interlocutore del poeta e, partendo da questo
indizio, indica in quale ambito poetico può collocarsi il
componimento.
L’interlocutore è con
evidenza il Signore dell’universo e del cuore umano, Dio
onnipotente: è lui che il poeta sente vivere dentro di sé,
ed è ancora lui l’unico che possa dare una risposta alle
sue domande.
La poesia può quindi essere
collocata all’interno del genere religioso.
Individua gli
elementi linguistici che fanno riferimento al “Tu” e
all’”io” del titolo.
Il
componimento contiene continui richiami linguistici ai due termini
individuati dal titolo: “ti”, “Tuo”, “Tue”,
“tu e io”, “io”, “me”,
“liberarmi”, “fammi”.
Spiega il
significato dell’espressione “questa selva di pensieri”
del v. 2 e indica l’ascendenza letteraria del termine “selva”.
Designa poi la figura retorica a cui l’immagine dà
luogo.
Avvalendosi della capacità
sintetica tipica della lingua poetica, l’espressione “selva
di pensieri” riesce a condensare in sé una pluralità
di significati: la moltitudine dei pensieri che tormentano l’animo
del poeta, numerosi come gli alberi di una foresta; il senso di
angoscia che questi pensieri determinano, simile alla situazione di
chi si trova sperduto in un bosco; l’idea di oscurità,
quindi di mancanza di certezze, collegata allo spessore delle fronde
che impediscono il passaggio della luce.
La presenza del dimostrativo
“questa” rafforza poi l’immagine, attribuendole
l’idea del suo incombere nel presente, nell’attimo stesso
in cui viene pronunciata la domanda del poeta, destinata a rimanere
senza risposta.
Il termine “selva”
rimanda inevitabilmente alla “selva” entro la quale si
perde Dante all’inizio del suo viaggio ultraterreno, intrapreso
per cercare la luce della salvezza: “Nel mezzo del cammin di
nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura / ché la
diritta via era smarrita” (Inf. I, 1-3).
Nell’espressione si può
riconoscere la figura retorica della metafora.
Nei vv.6-7 il poeta, a proposito
del suo interlocutore, afferma: “tu
e io siamo un paese / solo, ancora ignoto”. Chiarisci il
significato di questa affermazione.
Il “Signore” invocato
dal poeta non è un Dio lontano, immobile nel suo Empireo, ma
un compagno di viaggio che conduce per mano alla meta: la terra
dalla quale l’uomo si è allontanato, e alla quale vuole
ritornare. Il Paese al quale entrambi appartengono è ancora
ignoto al poeta, ma è ferma in lui la certezza che quello è
il solo luogo nel quale il “Tu” e l’”io”
potranno riconoscersi finalmente come una sola cosa.
Spiega il significato
dell’invocazione contenuta vv. 8 - 11 e considera il valore
che assume in essa la parola “stranieri”.
L’invocazione
assume una speciale forza dal suo essere indirizzata non più a
un “Tu”, ma al “Signore”: si tratta quindi di
una richiesta fondamentale per placare l’inquietudine
dell’animo del poeta. E’ questo in realtà il
problema centrale che da sempre ha tormentato la coscienza dell’uomo:
il perché del bene e del male, della felicità e del
dolore, compagni della nostra vita. Le “ragioni” del
loro succedersi sfuggono alla nostra comprensione: è come se
appartenessero a un paese “straniero” rispetto a quello
dove abita l’uomo. La logica umana non può accettare il
dolore che colpisce spesso creature innocenti, né sa sempre
riconoscere la felicità; il termine “stranieri”
che si unisce a “dolore” e “gioia” connota
dunque la loro incompatibilità con ciò che riteniamo
specifico del pensiero umano, l’adeguatezza dell’effetto
rispetto alla causa.
Il poeta, consapevole della
stoltezza della sua domanda, chiede di poter “vedere”
con occhi diversi rispetto a quelli che la debole natura umana gli ha
fornito, per poter almeno accostarsi al mistero del dolore, anche
senza comprenderlo pienamente.
Quale
immagine dell’animo del poeta si ricava dai vv. 12-15?
I vv.
12-15 completano l’immagine della propria interiorità
data dal poeta nei versi iniziali attraverso la metafora “selva
di pensieri”. Qui altre due metafore, splendide per la loro
capacità evocativa, ma terribili nel loro significato,
descrivano il desolato paesaggio di un animo travolto dal dubbio:
“steppa selvaggia” e “amara palude”. Questo
non è certo il “paese” in cui il poeta vorrebbe
incontrare il suo interlocutore, per unirsi per sempre a lui; egli sa
bene che a impedirgli l’ingresso in quel luogo felice è
il male che ancora intorbida il suo spirito, e che non sa estirpare
perché le sue radici sono troppo profonde. Ecco allora la
preghiera di poter scendere sino a quelle radici, per poterle
strappare e trovare finalmente la pace.
In
che modo nei tre versi finali il poeta chiede di potersi riscattare
dal suo tormento interiore?
I
versi finali della poesia contengono una richiesta diversa dalle
precedenti: non più la capacità di capire le ragioni
più profonde dell’esistenza umana, ma il coraggio di
vivere da uomo libero e di infondere nel “canto” quel
desiderio dell’Eterno che lo consuma.
La dignità
del vivere viene dunque riconosciuta nell’operare tra gli
uomini da uomo libero, e soprattutto nel mantenersi fedele alla sua
missione di poeta.
Rileva le forme metrico - foniche della poesia
Il
componimento, composto di 18 versi, è diviso in cinque strofe
di varia lunghezza: la prima contiene due versi, la seconda cinque,
la terza e la quarta quattro, la quinta tre.
I
versi sono liberi, ma si riconoscono molti metri tradizionali:
novenari (“per – que-sta - sel-va – di –
pen-sie-ri”); settenari (“con-su-ma-to – dal -
can-to”); quinari (“sem-pre – stra-nie-ri”).
I
vv. 16 e 17, se letti insieme, formano un endecasillabo: “Fam-mi
- do-no – di es-se-re – uo-mo – li-bero”
Grande
rilievo assumono gli enjambements: vv. 1-2; 3-4; 6-7; 8-9; 10-11;
12-13; 13-14; 16-17; 17-18.
La
figura dell’allitterazione riguarda in particolare le
consonanti “s”, iniziale di Signore (ne sono esempi nel
secondo verso “que
sta
selva di pen
sieri e,
nella seconda strofa a
silo, rece
ssi, ine
splorati,
strade,o
scure,
siamo,
solo), e la “t”,
presente nel “Tu” del titolo:
ti, ques
ta,
Tuo, inesplora
ti,
Tue,
tu,
igno
to,s
tranieri, Po
tessi,can
to; con
frequenza si ripete anche la vocale “u” (pure presente
nel “Tu” del titolo): q
uando, q
uesta, T
uo,
c
uore,T
ue, osc
ure, t
u,
un, pal
ude,
uomo, cons
umato.
Alcune
rime e assonanze sono disposte liberamente nel componimento: pensieri
(v. 2) – stranieri (v. 11); cuore (v. 4) – dolore (v.10);
osc
ur
e/pal
ud
e (v. 5- 15); pa
es
e/ess
er
e
(v. 6- 16)
.
Spiega il significato del titolo
Il
titolo mette in evidenza il tema della poesia: un dialogo tra il
poeta e un “Tu” misteriosamente lontano e nel tempo
stesso presente nell’animo e nel corpo di chi lo invoca. La
poesia è volta a costruire il senso della congiunzione “e”
che collega i due termini: ad essa non compete la funzione di
individuare due cose diverse, staccate l’una dall’altra,
ma di riconoscere l’indissolubile unità che le lega: “tu
ed io siamo un paese/ solo, ancora ignoto”.
Sulla
base dell’analisi condotta, proponi una tua interpretazione
complessiva della poesia, tenendo presente anche la considerazione
premessa dell’autore e riportata nella nota informativa che
segue il testo.
La breve considerazione premessa
alla poesia appare quasi la confessione della fatica del poeta in
cammino alla ricerca di un Dio inteso non solo come principio
teologico astratto, ma come garante dell’autenticità del
proprio essere e della propria libertà.
La
frase inizia con la dichiarazione, resa ancora più evidente
dal “no” introduttivo, dell’impossibilità
per ogni creatura dotata di ragione di “rassegnarsi al
quotidiano”, cioè di vivere alla giornata, soffocando
qualsiasi esigenza metafisica, e di “credere al determinismo”,
ovvero a un destino prefissato, del quale si ignorano le cause e la
finalità.
Ciò
che interessa il poeta, dunque, non è l’effimero
trascorrere dei giorni, ma l’eterno. E questo “eterno”
non è concepito come un porto di pace, ma come fonte di
inquietudine e di tormento: esso “ci graffia”, “esplode
nel centro dei nostri piani”, fa in modo che nulla ci appaghi
sulla terra: “i conti non tornano mai”.
Per
questo la poesia di David Maria Turoldo non è mai una placata
effusione del cuore, ma sempre un grido lacerante dello spirito,
motivato dalla consapevolezza dell’immensa distanza tra la
perfezione luminosa del Creatore e “l’amara palude”
del cuore umano, soffocato dalle inestirpabili radici del male.
Ma
questa distanza, incolmabile per l’uomo, è poca cosa per
l’Onnipotente; se invocato, Egli viene ad abitare il cuore e
l’animo dell’uomo, sino a farsi compartecipe delle sue
stesse pene.
Si
giustifica così il titolo della poesia, “Tu ed io”,
che potrebbe apparire ad un lettore ignaro della specificità
del discorso poetico di David Maria Turoldo quale avvio di un dialogo
amoroso.
In
questi versi, invece, l’interlocutore del poeta è il suo
stesso Creatore, quel Signore che non solo è vivente
nell’universo, ma palpita nell’animo e nelle “vene
oscure” di ogni uomo.
Il
poeta può così affermare che “tu e io siamo un
paese solo”, aggiungendo tuttavia che questo paese è
“ignoto”: le vie per l’incontro tra l’uomo e
Dio non sono segnate da alcuna mappa, ma devono essere individuate
nella “selva” che rende oscuro il pensiero dell’uomo.
A
questo Dio che percepisce come presente, anche se ancora nascosto,
il poeta può rivolgere la domanda che dall’inizio dei
tempi tormenta l’umanità: quali sono le ragioni della
felicità e del dolore che giungono ospiti sempre
imprevedibili della nostra vita? Ma questa domanda egli sa bene
quanto sia inopportuna, come insegnano Giobbe eQ Qohelet; l’unica
risposta possibile deve essere cercata dentro di sé, in quel
groviglio di male e di orgoglio che fa della mente umana non la
palestra del logos, ma una “steppa selvaggia.”
Non la superba conoscenza del bene e
del male può appagare il suo spirito – conclude il poeta
– ma la conquista della libertà: non pretende di essere
un sapiente, ma chiede a Dio di essere semplicemente un “uomo
libero”, capace di spendere questa sua libertà a favore
di tutti i suoi simili, illuminandoli e consolandoli con la sua
poesia. Egli sa bene che quel canto , nato dal dolore per le pene
degli uomini, lo logorerà, ma capisce anche che è il
compito della sua vita; la sua voce dovrà arrivare a
disilludere tutti coloro che, per fuggire alla propria infelicità,
pensano
vanamente
e colpevolmente di trovare la pace nel nulla, nel vuoto, e non
trovano la forza e l’umiltà di andare incontro a Colui
che si aggira in quella “selva di pensieri” proprio per
incontrarli e donar loro la vera pace.