L’ACCOGLIENZA
"Tutti gli ospiti che
arrivano siano accolti come Cristo in persona, perché egli vi dirà: ‘Ero
forestiero e mi avete accolto’. A tutti si darà il dovuto onore, specialmente ai
fratelli nella fede e ai pellegrini. Pertanto appena si viene a sapere
dell’arrivo di un ospite, gli vadano incontro il superiore e i fratelli con
tutte le premure che la carità ispira. Prima si preghi insieme, e poi si
scambino la pace. Non si dia il bacio di pace se non dopo aver pregato, per
dissipare le illusioni del diavolo. Anche nel porgere il saluto agli ospiti, sia
quando arrivano che quando ripartono, l’atteggiamento deve essere pieno di
umiltà: a capo chino o anche prostrandosi a terra, si deve adorare in essi il
Cristo che viene accolto.
Dopo aver
fatto entrare gli ospiti, li si conduca alla preghiera, quindi il superiore o un
fratello da lui delegato si siederà con loro. Si legga davanti all’ospite la
legge divina perché sia edificato, e poi lo si circondi di ogni umano conforto.
Il superiore per l’ospite interrompa il digiuno, a meno che sia un giorno di
stretto digiuno che non si possa violare. Gli altri fratelli invece continuino
ad osservare i digiuni consueti. Sia l’abate a versare agli ospiti l’acqua per
lavarsi le mani. A lavare i piedi agli ospiti sia egli stesso per tutta la
comunità. Finita la lavanda, dicano il versetto: ‘Abbiamo ricevuto, Signore, la
tua misericordia in mezzo al tuo tempio.’ Soprattutto nell’accogliere i poveri e
i pellegrini si deve avere grande sollecitudine, perché in loro si riceve più
pienamente Cristo. La soggezione dei ricchi, infatti, obbliga già di per sé a
onorarli.
La cucina dell’abate e degli ospiti sarà a parte, di modo
che i fratelli non siano disturbati dall’arrivo improvviso di ospiti, che in
monastero non mancano mai. Per questa cucina ricevano l’incarico annualmente due
fratelli, che siano in grado di svolgere bene questo compito. Quando poi c’è
bisogno, si diano loro degli aiuti perché compiano il loro servizio senza
mormorare. Quando invece il loro lavoro è minore, vadano a un’altra occupazione,
dove sarà loro comandato." (San Benedetto Abate,
Regula monasteriorum,
cap. LIII, Abbazia di Viboldone, 1981)
La
Regola di san Benedetto prescrive a chiare lettere il
dovere dell’accoglienza nei confronti di chi si presenti alla porta del
monastero. Il
portarius, il portinaio, amministra le decime del monastero
usandole per gli ospiti e per i poveri:
"Appena qualcuno bussa, o un povero chiama, gli
risponda: ‘Deo gratias’ o ‘Benedic’, e con tutta la mansuetudine che il timore
di Dio gli ispira, si affretti a rispondere con la sollecitudine della carità."
(San Benedetto Abate,
Regula monasteriorum, cap. LXVI, Abbazia di
Viboldone, 1981)
Per San Benedetto l’altro è Cristo e accogliendo l’altro si
accoglie Cristo stesso.
Tutto il monachesimo, nei secoli, si è caratterizzato per
il servizio di carità nei confronti del prossimo: ospitalità, distribuzione di
cibo ai poveri, produzione di prodotti medicinali, forme di assistenza medica e
ospedaliera hanno segnato, a vario modo, le diverse fondazioni monastiche. In
epoche in cui l’assistenza ai poveri e ai malati era un ideale religioso, i
monasteri hanno contribuito a diffonderlo nella società. Grazie all’aiuto e
all’assistenza della rete dei monasteri l’Europa ha potuto affrontare gravi
momenti di carestia – si ritiene che l’abbazia di Cluny, nel suo periodo di
massimo splendore, assistesse 17000 poveri in un anno - e a sviluppare una
cultura dell’accoglienza, dell’ospitalità.
"Poco ci importa che le nostre chiese svettino nel cielo,
che i capitelli delle nostre colonne siano cesellati e dorati, che l’oro venga
fuso nei caratteri dei manoscritti... se non abbiamo cura dei membri di Cristo,
e se Cristo stesso è lì che muore nudo davanti alla nostra porta." (Teoberto,
abate di Echternach, sec. XI)
"Nel praticare l’ospitalità si fa opera di umanizzazione,
come aveva compreso con molta intelligenza già Benedetto, il quale nella sua
Regola chiede che il monaco mostri all’ospite ‘ogni umanità’, mostri dunque
ciò che è proprio degli uomini." (Enzo Bianchi,
Ero straniero e mi avete
ospitato, Milano, Rizzoli, 2006)
E’ l’esperienza della vita monastica ha codificato, in
qualche modo, una sorta di regola dell’ospitalità: si accoglie l’ospite sulla
porta; è lo stesso padrone di casa, l’abate, che si fa incontro a lui; il primo
momento è quello del saluto, che manifesta all’ospite che è il benvenuto; poi
l’ospite viene fatto entrare in casa, nel monastero, e lo si ascolta, si
condivide quanto ha da dire, senza pregiudizi, con una forma di spontanea
simpatia nei suoi confronti; all’ascolto segue il dialogo, il momento in cui si
entra in rapporto con l’ospite, interrompendo le proprie occupazioni e dando
all’altro un po’ del proprio tempo e un po’ di sé stessi; con l’ospite, poi, si
condivide la mensa, il momento della vita, della gioia.
L’ospitalità monastica diventa così modello di accoglienza
dell’altro.
In un periodo, come quello che stiamo vivendo, in cui
l’altro che bussa alla nostra porta spesso suscita più paura che buoni
sentimenti, può costituire una sorta di monito e di invito ad uscire dal guscio
dei nostri timori per metterci in relazione con l’altro e scoprire al di là
delle diversità religiose, etniche, culturali che l’altro è l’essere umano che
dà senso al nostro essere uomini.
"La civiltà ha fatto un passo decisivo, forse
il
passo decisivo, il giorno in cui lo straniero, da nemico (
hostis) è
divenuto ospite (
hospes). Il giorno in cui nello straniero si riconoscerà
un ospite, allora qualcosa sarà mutato nel mondo." (Jean
Daniélou,
Pour une théologie de l’hospitalité)
Ancora oggi l’ospitalità è momento fondante della vita
monastica, anche se i monasteri hanno talvolta organizzato le forme di
ospitalità, accogliendo singoli o gruppi che vogliono condividere la giornata
dei monaci, partecipando al lavoro e alla preghiera della comunità.