IL MONACHESIMO E LA
RIFORMA
Il monachesimo dell’XI
secolo: risposta alla corruzione della Chiesa
Nell’anno mille era fallito il primo tentativo di
costituire un organismo di pace, prosperità e ordine civile sulle rovine
dell’Impero Romano. Il glorioso impero di Carlo Magno si frantumava dinnanzi
all’impeto delle grandi invasioni di popoli. I Vichinghi assalivano dal Nord, i
Saraceni dal Sud, gli Ungheresi dall’Est. Verso la fine del IX secolo si poneva
non tanto il problema della difesa della civiltà cristiana, quanto quello della
sua stessa sopravvivenza.
Durante la metà del X secolo fiorirono speranze prima
remote: le scorrerie diminuirono; gli uomini che provenivano dal Nord e gli
Ungheresi si insediarono nei territori da poco conquistati, si integrarono con
il mondo cristiano e divennero collaboratori attivi nel lento processo di
ricostruzione. Ottone I di Sassonia tentò di riportare all’ordine le terre
germaniche, rinnovò l’Impero e riuscì a risollevare la credibilità del Papato,
oppresso dalle lotte intestine tra influenti famiglie romane, perpetuamente in
lotta fra di loro.
All’avvicinarsi della fine del secolo, era stato raggiunto
un livello sufficiente di resistenza e di sicurezza di fronte alle invasioni.
Nel secolo XI le istituzioni feudali raggiungevano un pieno sviluppo, le città
medioevali si moltiplicavano, una notevole rinascita del commercio e dello
scambio internazionale contribuiva ad arricchirle. La prova più tangibile di
questi cambiamenti capitali era, però, la ricerca di un nemico comune
dell’Europa cristiana nascente, cioè il musulmano infedele. Tuttavia, la ragione
per cui l’XI secolo è da considerarsi epoca di rivoluzione, consiste
nell’improvviso rovesciamento che ebbe luogo nel campo delle relazioni
Chiesa-Stato, capovolgimento comunemente noto come Riforma Gregoriana. Il
termine riforma non è del tutto adeguato. Non si trattava soltanto di uno sforzo
per sradicare degli abusi e per ripristinare qualche forma più antica della vita
della Chiesa, ma si esigeva un cambiamento drastico. Era un conflitto ideologico
rivolto a cancellare delle tradizioni ormai superate per stabilire nel mondo un
ordine nuovo, più consono alle circostanze in via di
trasformazione.
Dopo il breve esperimento dell’epoca carolingia, era stato
conquistato un equilibrio apparentemente durevole nelle relazioni tra Chiesa e
Stato durante l’Impero degli Ottoni e poi nei primi anni di quello dei Salici:
un’armonia caratterizzata dalla compenetrazione della
ecclesia e del
mundus. L’imperatore era insieme
rex et sacerdos, un unto da Dio e
aveva l’obbligo sia di proteggere sia di rafforzare la Chiesa, godendo di ampia
autorità nelle nomine ecclesiastiche come nelle funzioni clericali.
Analogamente, la gerarchia della Chiesa era pienamente integrata con la società
feudale e assicurava, oltre all’amministrazione dei sacramenti, alcuni doveri
governativi, in campo giuridico e militare. Spesso le autorità del papa e
dell’imperatore si sovrapponevano: era l’imperatore a proteggere e a
strumentalizzare la sua Chiesa ed il pontefice.
Nel 1059 si ebbe un brusco cambiamento: venne pubblicato un
famoso decreto per l’elezione del pontefice e un noto lavoro del Cardinale
Umberto di Silva Candida,
I Tre Libri contro i Simoniaci. Così, ebbe
inizio la lotta contro l’influenza dei secolari nell’amministrazione
ecclesiastica. Il primo di questi conflitti fu la lotta per le investiture; in
seguito si cercò di porre un freno alla simonia (pratica con cui si
compravano/vendevano le cariche ecclesiastiche) e al nicolaismo (matrimonio dei
chierici). Entrambe queste due fasi del conflitto raggiunsero un punto
drammatico sotto il pontificato di Gregorio VII (1073-1085), che si prefisse,
con il celeberrimo
Dictatus Papae, la ristrutturazione totale della
cristianità, per arrivare a una separazione della Chiesa e dello Stato a livello
istituzionale. Gregorio andava in direzione della teocrazia. La realizzazione di
tali obiettivi comportava che l’imperatore fosse privo dei poteri sacerdotali di
cui disponeva, per assicurare al Papa l’arbitrato decisivo. La riforma
gregoriana si fondava sul sacramentalismo e sul sacerdotalismo, insistendo sul
potere ulteriore che gli ecclesiastici detenevano rispetto ai signori laici:
solo a loro era dato di poter incidere sulla vita ultraterrena. Perché questa
prerogativa fosse solo dei sacerdoti, era strettamente necessario che la loro
mansione di ufficianti non fosse ereditaria e che loro, dunque, non si
sposassero. Occorreva trovare un nemico comune, insistere sull’ortodossia della
fede, avere il primato decisionale sull’imperatore.
Un programma così rivoluzionario non poté essere pienamente
realizzato né da Gregorio né dai suoi successori; ogni aspetto della vita
cristiana, compresa la vita monastica, venne sottoposto a un’aspra critica.
La rinascita della vita monastica nel secolo XI può essere
perciò compresa esattamente solo come parte integrante della Riforma Gregoriana.
A differenza della curia romana e del clero secolare, il clero regolare era
quello meno coinvolto nel processo di corruzione, per il suo isolamento dal
mondo. Il rinnovamento era, però, divenuto inevitabile non a causa della
decadenza morale, ma per la necessità in cui versavano i monaci, di ritrovare il
loro posto in una società in rapida evoluzione.
L’XI secolo non dava segni clamorosi di "decadenza"
monastica. Al contrario, durante l’abbaziato di Ugo il Grande (1049-1109), il
cosiddetto "impero" di Cluny raggiungeva il suo apogeo. La moda che invalse nel
secolo XI di criticare il monachesimo benedettino si può spiegare in gran parte
con il fatto che Cluny e le filiazioni dipendenti tardarono a rendersi conto dei
cambiamenti che avevano luogo attorno a loro e furono ancora più lenti
nell’adattarsi alle nuove condizioni. Infatti, la spiritualità di Cluny non ebbe
un ruolo diretto nell’ambito della Riforma Gregoriana: l’abate Ugo, invece di
sostenere le teorie di Papa Gregorio, tentò di farsi mediatore tra il Papa ed
Enrico IV.
L’atteggiamento critico verso le forme tradizionali della
vita monastica proveniva in gran parte dagli stessi monaci.
San Pier Damiani (Ravenna 1007-Faenza 1072) è la più
conosciuta e influente tra le figure dei critici: nonostante la sua eminente
posizione nella Curia, parlava di sé come di un monaco pieno di peccati (
peccator
monachus). Egli accusava molti abati del suo tempo di esibizionismo mondano
perché trascorrevano più tempo presso le corti dei re che nei loro monasteri,
erano più abili in politica che nelle questioni pertinenti la loro funzione
abbaziale, erano costantemente coinvolti in giochi di interessi mondani. Egli
non nutriva nessuna stima per i grandi costruttori che abbellivano le loro
chiese e ingrandivano le loro abbazie, non apprezzava lo splendore della
liturgia e criticava l’inutilità del suono delle campane, il canto prolungato
degli inni e l’uso eccessivo degli ornamenti. In una memorabile visita, fatta a
Cluny nel 1063, notò che i vari uffici erano talmente lunghi che nell’orario
quotidiano c’era sì e no una mezz’ora libera per fare un discorso con i monaci.
Contemporaneamente deplorava la mancanza di mortificazione e di penitenza nel
cibo e nella bevanda.
Si accusava la presenza di secolari fra i monaci, una
convivenza che si giustificava con vari pretesti; i riformatori andavano contro
la presenza dei bambini e il disturbo che ne derivava, così pure contro la
presenza di altri individui non desiderati; si criticavano i monasteri costruiti
troppo vicini alle città perla loro solitudine messa in grave pericolo; contro i
viaggi inutili e contro un diffuso vagabondaggio invalso tra i monaci, si
manifestava un ampio diniego. Si faceva notare che la condizione sacerdotale di
molti monaci serviva soltanto come pretesto per trascurare il lavoro manuale;
l’assunzione di impegni pastorali, poi, conduceva a competizioni fuori luogo con
il clero secolare. Infatti, molti abati usurpavano poteri episcopali,
acquistavano volentieri delle chiese e molti altri lucrosi benefici, il possesso
dei quali era sconveniente per i monaci. Lo scontento del clero secolare per il
modo in cui vivevano i monaci divenne evidente in molti sinodi provinciali.
La causa di questi abusi consisteva, secondo l’opinione dei
contemporanei, nell’assenza di una più chiara distinzione tra il laicato e il
clero secolare.
I tre ideali che guidarono il rinnovamento della vita
monastica nell’XI secolo furono la povertà, l’eremitismo e la vita apostolica.
Questi tre caratteri, in parte, erano già stati integrati nella
Regola di
san Benedetto, ma si consolidarono con la riscoperta delle forme più antiche di
vita monastica. I critici del tempo condannavano, innanzitutto, il lusso e la
ricchezza, mentre i riformatori esortavano alla più rigorosa povertà come primo
passo per una rinascita significativa. La volontà di ribadire il significato
della povertà emergeva come reazione spontanea di fronte alla stupefacente
prosperità economica di cui i monasteri godevano. I riformatori superarono la
Regola di san Benedetto per ritornare alla povertà del Cristo sulla Croce,
alla povertà degli apostoli e dei loro primi discepoli.
Il movimento di riforma sorse in Italia per diffondersi ben
presto in tutto il resto d’Europa. Vi fu un lento riemergere di eresie
dualistiche, che denigravano le realtà materiali e condannavano le ricchezze e i
beni terreni. San Pier Damiani sostituiva la moderazione benedettina (
sufficientia)
con la severità (
extremitas) e la povertà estrema (
penuria) ed
incoraggiava i suoi seguaci ad andare scalzi, a dormire su pagliericci duri e
ad accontentarsi di un
minimum per l’abito, il cibo e la bevanda. Egli
affermava che Dio deve essere l’unico possesso del monaco: e considerava perciò
peccaminoso conservare del danaro.
"Torniamo allora, o miei cari, all’innocenza della Chiesa
primitiva, al fine di apprendere ad abbandonare ogni possesso ed a godere della
semplicità della povertà regale".
Nessuna istituzione religiosa poteva sottrarsi all’impatto
di questa corrente. La frase "poveri di Cristo" divenne abituale per indicare
sia i monaci sia i canonici regolari e comparve spesso nella corrispondenza di
Gregorio VII.
La rinascita dell’eremitismo, sia come idea sia come
fenomeno, era strettamente connessa al nuovo concetto di povertà: un eremita non
solo si ritira dalla società, ma vive in una totale rinuncia. Come aveva detto
san Gerolamo "nudos amat eremus", "il deserto ama coloro che non hanno nulla".
Così, agli occhi della nuova generazione di riformatori, la vita eremitica
appariva come idealmente più alta, rispetto a quella vissuta sotto la
Regola
di san Benedetto. E di conseguenza il monastero era concepito come luogo di
addestramento per futuri eremiti.
L’influenza dei singoli eremiti, fintanto che restano
realmente nella solitudine e nell’isolamento, propone un problema singolare.
Questa gente passa, senza lasciare sugli altri nessuna impronta, quale che sia
il grado di profondità o di ricchezza interiore che ha raggiunto nel corso della
sua vita spirituale. D’altra parte, la presenza di discepoli permetteva la
trasmissione di valori monastici, ma eliminava l’esperienza di solitudine. Gli
individui sono effimeri. Le istituzioni se non altro sembrano stabili. I più
grandi eremiti dell’XI secolo finirono con il diventare fondatori di comunità
religiose dove la solitudine era armonizzata con alcuni elementi di vita
cenobitica.
Il terzo elemento ispiratore
del rinnovamento monastico fu il desiderio di imitare la vita degli apostoli o,
meglio, la vita della comunità apostolica di Gerusalemme. Bisogna sottolineare,
però, che nell’XI secolo la parola apostolico non era strettamente legata alla
predicazione del Vangelo o al disimpegno di obblighi di carattere pastorale (
cura
animarum); la "sequela degli apostoli" poteva realizzarsi all’interno dei
programma di vita dei contemplativi come degli eremiti.
I monaci dovevano rendersi liberi dal loro coinvolgimento
eccessivo nella società feudale, un tempo necessario in vista
dell’evangelizzazione; dovevano abbandonare le loro splendide sedi, i loro
cerimoniali complicati, il benessere e le comodità che il lavoro dei loro
predecessori aveva reso possibile. E’ nota la massima di un monaco medioevale
sui rischi della ricchezza:
"La disciplina crea abbondanza, e l’abbondanza, se non vi
facciamo la più grande attenzione, distrugge la disciplina; e la disciplina,
nella sua caduta, trae seco l’abbondanza."
I monaci fedeli alla loro eredità apostolica dovevano
allontanarsi dal mondo e cercare di rinnovare la loro attività.
Oltre ai tre motivi di rinnovamento monastico principali,
molti autori si riferiscono a un altro movimento ad essi analogo: il ritorno
alle fonti del monachesimo cristiano. Tutti i riformatori cercano di
giustificare le loro esigenze riferendosi alla
Bibbia, ai Padri del
Deserto o alla
Regola di san Benedetto, tuttavia è dubbio che una
consuetudine di questo tipo costituisse un "movimento" caratteristico del secolo
XI. Si trattava più che altro di un passaggio obbligato, di un pretesto.
Cambiamenti, innovazioni, rotture con il passato, hanno generato di rado grande
entusiasmo tra i monaci. Quanti danno vita a movimenti di questo genere si
sentono obbligati a dissimulare le loro intenzioni sotto il tentativo di fare
ritorno a tradizioni più antiche e già consacrate dal passato.
I riformatori seguirono il loro istinto nell’utilizzare le
fonti di cui disponevano. Proprio per queste ragioni diedero origine ad una
serie di interpretazioni della
Regola, per la quale dicevano di
professare una fedeltà pressoché illimitata, assai varie e contraddittorie,
prive di scrupoli ermeneutici.
Il denominatore comune di tutti i tentativi di riforma del
secolo XI fu il desiderio di istituire una vita di mortificazione eroica,
consumata nella separazione da ogni coinvolgimento negli affari mondani. E in
questo i fondatori delle nuove istituzioni monastiche riscossero un grande
successo. Tuttavia, fu proprio tale approvazione a favorire anche il germe di
una nuova epoca di relativa decadenza. Pier Damiani e i suoi eredi riuscirono a
istituire una vita di ascetismo glorioso e fecero delle loro nuove abbazie
luoghi di perfezione monastica, ma simili strutture e modelli di vita non
possono essere mantenuti per sempre. Insistendo sull’osservanza meticolosa di
alcuni passi della Regola, essi avevano perso di vista il suo fondamentale
equilibrio nello spirito di moderazione. San Benedetto era pronto ad andare
incontro alla fragilità dell’uomo, mentre non lo erano molti tra i nuovi
riformatori. Il monachesimo appena riformato, così, sembrava non poter
accogliere come suoi protagonisti tutti gli uomini, ma solo i santi e coloro sui
quali aleggiava un’esclusiva pretesa di perfezione.
La riforma venne applicata con particolare rigore in quelli
che erano i monasteri più eminenti e insigni: a Citeaux, dove era sorto l’ordine
dei cistercensi, a Cluny, dove era stabilito l’ordine cluniacense, a la Grande
Chartreuse, dove vivevano i monaci certosini.
Lutero, monaco
agostiniano
E’ di fronte al vario e complesso panorama descritto in
precedenza che si trova Lutero nel 1505 quando, per fuggire ad un impetuoso
temporale, si vede costretto a scegliere la sua futura sistemazione in un
monastero, dopo aver fatto una sorta di voto a Sant’Anna, in quel momento di
"disperato" bisogno: "Sant’Anna, aiutatemi! Mi farò frate!". In realtà la
suddetta invocazione è il frutto di una maturata riflessione alla quale il
riformatore è legato da sempre. Dio incombe su di lui come una minaccia
misteriosa e potente, che scuote in profondità il suo animo sensibilissimo di
credente. La fede di Lutero è turbata alternativamente dall’ansia del peccato e
della punizione divina, egli è un fedele fortemente oppresso e la cultura
religiosa oscura del suo luogo natìo, Eisleben, in Turingia, non gli concede un
momento di tregua. In questo senso, per il suo fanatismo, si può affermare che i
sentimenti religiosi del futuro riformatore hanno tutti i caratteri tipici
della spiritualità medioevale, dove l’uomo è drasticamente annichilito
dall’onnipotenza divina e dal sentiero obbligato che traccia la Provvidenza.
Il monastero costituisce un luogo destinato alla salvezza.
Infatti, come Lutero ben sa, esistono diversi modi per procacciarsi uno stralcio
di cielo: per tutti c’è la possibilità di rispettare i comandamenti e di
schierarsi, così facendo, dalla parte dei giusti; per i migliori, i più santi, i
più volenterosi, la via è quella delle ingiunzioni di Cristo e il luogo più
indicato in tal senso è quello isolato e casto del monastero. Qui non ci si
sposa, non si possiedono beni, non ci si deve armare. Nel monastero all’opera
infaticabile, alla penitenza, alla povertà, corrisponde la volontà esplicita o
nascosta di mettersi in atto in funzione della salvezza, oltre che del bene
altrui, nel compimento quotidiano delle cosiddette buone azioni. E’ a causa di
questa convinzione che Lutero vede nella vita del monaco uno spiraglio di
speranza per la vita ultraterrena, che cura le sue ansie in quella mondana.
I monasteri agostiniani erano particolarmente ortodossi e
rigidi. Lutero sceglie, perciò, di diventare un monaco agostiniano. Anche questa
scelta è condotta a posteriori di una consapevole speculazione: in quest’ordine
c’è un acuto senso del peccato che si lega al pensiero di Sant’Agostino; egli,
infatti, guardava, in un certo senso, con occhi compassionevoli all’uomo,
ribadendo il concetto biblico secondo il quale, se Dio può tutto, l’uomo non può
nulla e ponendo l’accento, in particolare, sull’imperscutabilità dei piani
dell’Altissimo. In questa luce solo una penitenza estrema e una ricerca
ulteriore del bene possono influenzare il destino dell’uomo; ma è ancora
sull’idea stessa di destino che Agostino affermava parole inquietanti. Secondo
lui, infatti, Dio non aveva dato all’uomo le chiavi per la salvezza, non gli
aveva consegnato la capacità di contribuirvi del tutto; questo sarebbe stato un
compito davvero troppo gravoso. Questa particolare interpretazione del pensiero
di Agostino, tuttavia, fa parte anch’essa dei ragionamenti di Lutero. Era il
riformatore stesso a contrapporre agostinianismo e tomismo per le loro diversità
nell’attribuire poteri decisionali all’uomo sul suo futuro.
Se sembra che la strada di Lutero, dunque, sia quella del
monachesimo, in realtà è proprio al suo interno che nascono i dubbi più
grandiosi del riformatore. Interrogativi sul sistema penitenziale, sulla fede e
sulla salvezza, sulla dottrina cattolica.
Le posizioni di Lutero e
l’abbandono del saio monastico
I dubbi di Lutero, stimolati dalla sua graduale ricerca di
risposte e soluzioni, si convertono ben presto in critiche decise nei confronti
dell’intero sistema della Chiesa cattolica. La critica procede su diversi
binari, ma si solleva con maggior intensità contro le indulgenze. Con le sue
famosissime novantacinque tesi il riformatore scatena un incredibile
sollevamento, se non altro nelle coscienze dei fedeli. Il motivo principale per
cui le indulgenze sono da abolire è il loro presupposto, cioè il dogma della
comunione dei santi, che a sua volta conferisce all’uomo la capacità di influire
sulla sua salvezza. Secondo il parere di Lutero questa possibilità non esiste, e
così come non si verifica per gli uomini del suo tempo, neppure per i santi del
passato c’era alcuna possibilità di operare per il bene e di provvedere in
questo modo a modificare una condizione di peccatore che è intrinseca e
connaturata con l’agire umano. "Il giusto è salvo per fede", come sentenziava
già S. Paolo; per fede e basta, secondo Lutero.
Questi ragionamenti annullano in gran parte i motivi che
spingono un individuo a farsi frate, a farsi monaco: rimane solo più la volontà
di vivere seguendo il modello di Cristo, ma vien meno la necessità di prodigarsi
per la salvezza, perché questa dipende solo da Dio.
Nel 1525 Lutero, a fronte di queste e altre considerazioni,
abbandona definitivamente la sua vita di monaco e si sposa con l’ex suora
Caterina Von Bora. Questa scelta quasi brusca e decisamente controcorrente è
determinata anche dalle decisioni di Carlstadt e di Melantone che, mentre il
riformatore è nascosto nella fortezza di Wartburg, protetto da Federico il
Savio, cercano in tutti i modi di mettere in pratica la riforma. E’ Carlstadt,
in particolare, a decidere di abolire definitamene il celibato per i sacerdoti,
e Lutero accoglie questa proposta senza opporre alcuna resistenza.
Enormi sono le conseguenze di queste prese di posizione dei
riformatori. Il monachesimo perde il suo ruolo, e questo non solo perché il
monaco non si procura la salvezza eterna, ma anche perché cambia l’atteggiamento
del fedele nei confronti di Dio. Il fedele esemplare è, per Lutero, colui la cui
fede si misura nel rapporto intimo con Dio, non occorrono riti esteriori, "in
interiore homine habitat deus", diceva Sant’Agostino. In questa dimensione
soggettiva c’è un dialogo profondo che non può essere mediato da nessun altro,
da nessun uomo; di conseguenza ognuno è sacerdote di se stesso. Il sacerdote non
è per Lutero che un funzionario, esiste più che altro per una questione di
ordine: non sarebbe né comodo, né tanto meno possibile che ognuno celebrasse la
sua Cena del Signore, l’eucarestia, così come il riformatore la chiama.
Se ognuno è sacerdote, tanto più ognuno è frate, monaco:
non esistono livelli di vicinanza al Signore, ma ognuno è distante a suo modo.
La missione che il monaco, nell’isolamento e nella penitenza, era solito
svolgere, non deve essere tanto esclusiva; in realtà è ben più difficile
assolvere i compiti di buon fedele in giro per il mondo, piuttosto che in un
monastero, dove il peccato è repulso per legge, dove non ci si sforza quasi a
fuggirlo. Così pensando, Lutero si schiera contro il monachesimo, o meglio lo
accetta, all’inizio, soltanto se motivato da un forte altruismo e non vissuto
per ottenere la salvezza; tuttavia troppo labile, nella circostanza, risulta il
confine tra le due aspirazioni. Inoltre entrano in gioco forti interessi
economici: con l’abolizione dei monasteri si discute se i terreni che ad essi
appartengano debbano divenire proprietà dello stato oppure debbano rimanere
della Chiesa. In molti casi risulta più che comodo, per i nobili signori di una
certa zona, incamerare la terre appartenenti ai monasteri.
Mettendo in luce l’idea che l’impegno del fedele possa
avvenire in casa con intensità pari a quello del monaco nel suo ambiente, ben
presto si capovolge in parte la scala dei valori. Perde d’importanza quello
della verginità, mentre invece cresce di valore l’istituzione della famiglia: è
in questo luogo che si trovano difficoltà e gioie giorno per giorno e si vive
normalmente, ma dando alla preghiera e alla fede un ruolo e uno spazio
indispensabile e costruttivo. Nel criticare il senso e le dinamiche
dell’esistenza monastica, Lutero si oppone soprattutto alla pratica
dell’elemosina. E’ facilmente constatabile che nella maggior parte dei monasteri
una solida autonomia era garantita dall’assiduo rispetto dell’
ora et labora,
per cui i monaci erano solitamente impegnati in tutta una serie di attività
produttive che li sfamavano e li arricchivano anche, per la loro diligente
dedizione. Tuttavia è vero anche che erano in moltissimi a lasciare, in punto di
morte, i loro averi e possedimenti terrieri in mano ai monaci. Inoltre non era
disdicevole, da parte di un monastero accettare offerte di varia portata da
parte di chi fosse tanto magnanimo da elargirle. Per Lutero il fatto di
investire il proprio denaro in beneficenze non è affatto cosa ben accetta perché
consiste in un altro espediente per avvicinarsi alla salvezza e dunque è da
bandire, poiché favorisce uno stato d’animo falso. Così si distrugge un’altra
secolare tendenza del monachesimo e si sviluppa per la prima volta come valore
quello dell’indipendenza economica: chiedere l’elemosina è vergognoso, è
l’ultima spiaggia.
Così, al significato antico dell’aver vocazione, Lutero
sostituisce quello moderno: ognuno ha una missione da compiere, missione che è
sempre legata alla fede, perché la fede cresce nell’intimo e ogni uomo è di Dio.
Questa vocazione comporta una tendenza a mettersi in moto, ad esaltare anche il
lavoro e i suoi proventi, necessari per vivere autonomi e giusti.
Il monachesimo per gli
altri riformatori
In Europa le idee di Lutero sono condivise, anche se non
completamente, da altri esponenti della riforma, tra cui Zwingli, Calvino, gli
Anabattisti, i sovrani inglesi dopo Enrico VIII e moltissimi esponenti di spicco
delle varie aristocrazie europee. La riforma, però, viene condivisa soprattutto
dal popolo che su una vasta percentuale del territorio abbandona le antiche
tradizioni, imposte un tempo dalla Chiesa, per dedicarsi alla nuova confessione.
Zwingli concorda con Lutero sull’abolizione del monachesimo e una delle sua
prime battaglie è proprio quella contro il celibato per i sacerdoti, poi, però,
la sua predicazione si concentra in direzione della teocrazia. Per quanto
riguarda Calvino, condividendo il principio della giustificazione per fede, egli
trova il monachesimo relativamente inutile, esattamente come Lutero. Gli
Anabattisti, che costituiscono una comunità decisamente separata e diversa
rispetto alla altre, invece, danno particolare importanza alla condotta di vita
e, pur incoraggiando il matrimonio tra fedeli, vivono in condizioni quasi simili
rispetto a quelle di un monastero. Essi criticano l’istituzione Chiesa
soprattutto per la sua corruzione morale, più che per la dottrina.
Il paese in cui si sente
maggiormente l’abolizione del monachesimo è l’Inghilterra. Qui, lo scisma
avviene con Enrico VIII senza eresia e si cerca di trovare una soluzione
sincretistica che non comporti difficoltà sul fronte dell’unità territoriale,
mentre ad essere sacrificata è la chiarezza stessa del messaggio che si
diffonde. Il sovrano, proclamatosi capo della Chiesa d’Inghilterra, nel 1534,
apporta solo due modifiche di carattere puramente esteriore, una liturgica (il
testo sacro deve essere tradotto in lingua nazionale), l’altra relativa al clero
regolare: vengono aboliti i monasteri. Enrico, infatti, adduce come pretesto il
fatto che il clima del monastero non fa che stimolare gli abusi, perché un
individuo non può avere una valvola di sfogo di nessun tipo in un luogo così
controllato e rigido. In realtà, con questa scusa, il fine del sovrano è quello
di riuscire a incamerare i beni territoriali dei monasteri e di arricchire in
questo modo lo stato e i suoi sudditi: i terreni vengono solitamente venduti
dalla corona e vengono utilizzati come terreni demaniali per il pascolo che è
una risorsa sempre più sfruttata dagli abitanti del Regno Unito.
La noncuranza con cui il sovrano riesce a sradicare la
tradizione comunque secolare del monachesimo è spiegata dal fatto che esso ha
perso, anche in Inghilterra, la sua più profonda motivazione morale. I monasteri
sono stati danneggiati dalla peste che ha colpito l’Europa nel 1348-50; i monaci
sono stati troppo prodighi in passato e hanno sperperato molte delle loro
ricchezze per allestire grandi forme di accoglienza per ospiti stranieri, ma
soprattutto essi hanno perso quasi del tutto la loro rigidità e ortodossia.
Molti di essi hanno approvato sin dall’inizio la separazione dalla Chiesa di
Roma, decisa dal sovrano e, a differenza degli altri religiosi, hanno accettato
molto presto l’idea di un vero e proprio divorzio tra Enrico VIII e Caterina
d’Aragona. Per questi motivi l’investimento terriero di Enrico VIII risulta
estremamente facile e quasi spontaneo.
Bibliografia
L.J. Lekai,
I Cistercensi. Ideali
e realtà, III, Certosa di Pavia, 1989.
http://www.cistercensi.info
Roland H. Bainton,
La Riforma
protestante, Einaudi