IL LAVORO
Nella scansione quotidiana del
tempo del monastero, molta importanza rivestono i momenti del lavoro mattutino e
pomeridiano. Per il monaco il lavoro, sia esso manuale sia intellettuale, è
partecipazione all’attività creatrice di Dio. Da questa consapevolezza nascono
le opere e le innovazioni in ambiti diversi, dall’agricoltura all’artigianato,
che, partendo dai monasteri, si diffondono in tutta Europa, contribuendo in modo
determinante alla sua evoluzione.
"L’ozio è nemico dell’anima e perciò i fratelli in
determinate ore devono essere occupati in lavori manuali" dice la
Regola
di Benedetto. E ancora: "E’ proprio allora che essi sono veramente monaci,
quando vivono del lavoro delle proprie mani, come fecero i nostri padri e gli
apostoli".
Il lavoro nel monastero ha, perciò, uno scopo ascetico e
non economico, poiché è partecipazione alla missione che Dio ha dato all’uomo di
essere artefice del mondo.
La
consapevolezza che ogni istante della giornata, ogni attività, dalla preghiera
all'opera più umile, è gesto di offerta e di incontro con Dio, detta anche le
modalità con cui costruire gli ambienti di lavoro: nello
scriptorium,
nell’officina del fabbro o nella grangia l’architettura è pensata con la stessa
bellezza e dignità che si riscontrano nella chiesa; anche questa continuità
stilistica aiuta a richiamare il senso unico della vita del monaco. Il monaco
non ha la vocazione di coltivare, dissodare, prosciugare paludi, allevare api,
produrre vino o formaggi, copiare codici o insegnare. Egli non ha che scopi
spirituali. Tuttavia la presenza e l'azione dei monaci sono all’origine di un
movimento economico e culturale che contribuirà all’evoluzione della civiltà
europea. Spinti dalla fede intensa che li anima e dovendo provvedere
autonomamente alla propria sussistenza, i monaci incominciano a dissodare,
irrigare, prosciugare, fare i contadini e i pastori e riescono a rendere
vivibili lande deserte, paludi infinite, foreste selvagge.
L’esigenza di non occupare troppo tempo per il lavoro, a
discapito del tempo da dedicare alla preghiera, costringe i monaci a sviluppare
le innovazioni nel campo della tecnica. Si moltiplicano i miglioramenti che
alleggeriscono l'opera del monaco, facendogli risparmiare tempo e aumentando la
qualità del lavoro, come i mulini ad acqua e le tecniche di regolazione delle
acque.
Dopo che il priore, successivamente alla riunione del
capitolo, assegna il lavoro della giornata, i monaci indossano la tunica adatta,
prendono gli attrezzi necessari e si avviano al loro posto di lavoro dove
rimangono fino alla pausa del pranzo. Terminato il lavoro, gli strumenti vengono
restituiti al responsabile.
Per lavoro non si deve intendere, però, solo quello
agricolo, ma tutto ciò che riguarda la vita della comunità: dall’allevamento e
dalla produzione agricola, alla costruzione, alla manutenzione e alla pulizia
del monastero, dalla trascrizione dei codici allo studio. Grande importanza ha
il lavoro di copiatura dei manoscritti. Copiare libri è una necessità, perché
nel Medioevo essi sono rari e costosi e ne occorre una certa quantità per
assicurare la lettura a tutti i monaci; questo lavoro richiede sicuramente molta
fatica, quanto quello dei campi. Gli
scriptoria dei monasteri diventano
fucine di cultura e di bellezza; il lavoro di copiatura non ha, però, come scopo
la produzione di opere d’arte, ma di strumenti utili ai monaci per il proprio
cammino spirituale.
Marco BUCCINO,
Liceo Classico "D’Azeglio", II F
IL
LAVORO NELLA REGOLA BENEDETTINA
INTRODUZIONE
L’ordine benedettino con l’inesausta cura del lavoro
manuale e intellettuale diede, nel Medioevo, avvio ad una sinergia unica e
irripetibile: studiando i testi antichi i monaci recuperarono nozioni ormai
dimenticate in campo scientifico e agricolo che misero a frutto nei loro
monasteri e che, per imitazione, si diffusero anche fuori, dando avvio ad una
rivoluzione, dovuta fondamentalmente ad una riscoperta, di tecniche e colture
già in uso adattate, però, alle esigenze dell’Europa medievale.
Grande importanza ebbe, per esempio, il contributo
benedettino alla letteratura medica e alla coltura di erbe medicinali per uso
terapeutico: infatti, nella
Regola stessa era imposto a due frati, come
minimo, per ogni convento di studiare i testi di medicina per occuparsi della
cura degli infermi, come dovere cristiano, in primo luogo, e in secondo come
funzione fondamentale per ogni confraternita benedettina.
Il caso più celebre di una grande infermeria e di frati
così dotti da contribuire all’apertura di una delle più celebri scuole mediche
italiane fu quella di Salerno, dove già nell’820 era presente la celebre Scuola
medica salernitana.
Anche in ambito agricolo i monaci introdussero
un’innovazione che avrebbe rivoluzionato non solo i metodi di coltura, ma le
stesse relazioni sociali all’interno del complesso sistema feudale: la rotazione
triennale, attestata per la prima volta in un documento del Monastero svizzero
di San Gallo del 763.
I monasteri con i loro monaci dediti ad un durissimo lavoro
costituirono un elemento tutt’altro che secondario nella crescita economica dei
secoli che seguirono l’anno Mille e offrirono materialmente un’occupazione a
molti laici con famiglia che lavoravano a stretto contatto con i monaci. Inoltre
al loro incessante lavoro si devono fatti di estrema importanza come la
diffusione della coltura della vite indispensabile per il cerimoniale
eucaristico e il dissodamento e la bonifica di molte terre.
IL LAVORO
Il problema del lavoro non è stato mai risolto facilmente e
definitivamente nel monachesimo, per la bipolarità che esso presenta in se
stesso e per la complessità degli aspetti che contiene. Da un lato, le più
grandi autorità spirituali hanno sempre visto nel lavoro serio e faticoso un
elemento di perfezione spirituale, basandosi su molti testi biblici; dall’altro,
l'idea di una vita spirituale che si esplicita negli atti di una vita puramente
contemplativa con l'assenza di ogni interesse e di ogni preoccupazione
materiale, ha spinto altri a ridurre al minimo il tempo dedicato al lavoro e a
combattere i motivi che spingono l'uomo a lavorare, richiamandosi ad altrettanti
testi biblici.
Una vera e propria teologia del lavoro, tuttavia, si deve
non certo alla grande riflessione della patristica cristiana, bensì è frutto
della società industriale, nei termini in cui essa rilesse e ripropose quello
che era considerato come necessario alla sussistenza o una punizione divina,
sotto l’aspetto della creatività.
IL LAVORO NEL
MONACHESIMO PRIMITIVO
Il monachesimo primitivo scoprì subito il valore spirituale
del lavoro. Per gli antichi monaci si trattava solo di lavoro manuale, il lavoro
non aveva nella loro mentalità altra accezione; erano esclusi sia il lavoro
intellettuale, perché la maggioranza dei monaci era incolta, sia il lavoro
apostolico o ministeriae, perché quasi tutti i monaci erano laici e perché tale
attività diventava incompatibile con la solitudine e la contemplazione. Il
lavoro manuale, quindi, assunse una grande importanza soprattutto presso i
cenobiti. Per l'antichità pagana il fatto di lavorare non fu mai un fatto
positivo, era, anzi, ritenuto una forma di punizione degli dei e il compito
esclusivo degli schiavi; spiriti elevati come Cicerone consideravano
disonorevole il lavoro retribuito e interessato, Aristotele lo considerava
addirittura opposto alla condizione libera di un uomo. Perfino tra i cristiani,
il lavoro manuale distingueva i monaci dagli uomini liberi del tempo. Cassiano
dice: "Gli uomini liberi fanno ricorso alla fatica altrui, mentre i monaci
vivono secondo il precetto dell'Apostolo, lavorando con le proprie mani" (
Col.
24, 12).
Nel monachesimo antico, quindi, il lavoro è legato al fatto
della povertà: i monaci, come i più poveri, gli ultimi della società, gli
schiavi, vivono del lavoro delle proprie mani.
Il lavoro, nel monachesimo primitivo, permette di:
-
provvedere al proprio sostentamento
- fare
l'elemosina ai poveri
-
evitare il "tedio" (la famosa 'acedia' o 'accidia')
-
mantenere il corpo in soggezione.
Un celebre esempio di vita dedicata al lavoro è quella di
Antonio il Grande che, secondo la celebre
Vita scritta da Atanasio, si
ritirò nella solitudine "per arrivare alla perfezione della vita ascetica e
lavorare con le sue mani, perché aveva sentito dire: ‘Chi non lavora non mangi’
(
2Tess. 3, 10). Una parte di quello che guadagnava lo spendeva per
comprare il pane, il resto per soccorrere i poveri".
Altro celebre esempio era costituito dagli anacoreti copti
che solevano dedicare tutto il giorno e parte della notte alla confezione di
ceste, corde e stuoie, mentre recitavano o meditavano la Parola di Dio e
facevano frequenti orazioni; molti, inoltre, aiutavano i contadini nella
raccolta delle messi, facendosi dare come compenso una certa quantità di grano
che bastava loro per tutto l'anno.
Ma il più fervente apologeta del lavoro è di certo S.
Basilio; egli ritenne più adatti alla vita monastica il lavoro di tessitore, di
fabbro e altri, senza nascondere la sua preferenza per l'agricoltura che, oltre
a garantire la permanenza nei recinti del monastero, copre le necessità della
comunità monastica e dei poveri.
Coerentemente con quanto sopra accennato, tuttavia,
esistevano tendenze opposte come quelle diffusesi soprattutto in Siria e in
Medio Oriente che ritengono il lavoro manuale come indegno dell'uomo spirituale
e incompatibile con la vita monastica; vivere della provvidenza, cioè di
elemosine, appare segno di perfezione. Naturalmente anche questi monaci
conoscevano bene la Scrittura e si appoggiavano ad altri testi: "Non
affannatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete...". (
Mt.
6, 25-34); "Procuratevi non il cibo che perisce, ma quello che dura per la vita
eterna" (
Giov. 6, 27).
La sintesi di queste due
tendenze fu l’equilibrio che fu il preludio alla
Regola benedettina,
secondo il quale il poco lavoro comporta l’ozio e la tentazione del demonio, il
troppo lavoro un attaccamento alle cose terrene eccessivo e, di necessità, porta
a ritenere la preghiera secondaria.
IL LAVORO NELLA REGOLA
BENEDETTINA
Quando S. Benedetto scriveva la
Regola, la
situazione del lavoro dei monaci era cambiata rispetto al monachesimo primitivo.
Non risulta che i primi monaci in Occidente, quelli di Martino, lavorassero;
della sua comunità si dice che "non si esercitava alcun mestiere se non quello
di scrivano, a cui inoltre venivano adibiti i più giovani; gli anziani si
dedicavano all'orazione" (
Vita Martini, X, 6). Fra i motivi principali
dello scarso lavoro in Occidente si sono annoverati soprattutto l’inabilità,
perché Agostino ricordava che molti monaci erano ex-ricchi, oppure la grande
debolezza fisica dovuta all’assidua pratica del digiuno.
In generale al tempo della
Regola i monaci
svolgevano lavori manuali sia nel monastero sia in piccoli orti, ma essi non
erano redditizi e da essi non dipendeva il sostentamento del monastero, affidato
alle entrate dei contadini laici cui erano date le terre del monastero. La prima
preoccupazione della
Regola è che il prodotto del lavoro dei monaci sia
venduto a minor prezzo di quello dei secolari. La preoccupazione fondamentale
della
Regola Magistri, di poco antecedente alla benedettina, è che il
lavoro sia moderato per non comportare l’abbandono del digiuno, concesso solo in
caso di ospiti o di feste, mentre la
Regola del santo patrono d’Europa
prevedeva come deroghe le giornate di lavoro più faticoso, segno chiaro che il
lavoro manuale era diventato sistematico e non occasionale.
Il vero
discrimen, però, è costituito dalla
ripartizione del tempo all’interno del monastero. Nella
Regula Magistri
l'orario è visto alla luce dell'Ufficio divino; nella
Regola Benedettina
l'orario ha uno scopo più pratico: ripartire bene lavoro e
lectio divina.
S. Benedetto considera piuttosto il ritmo della vita umana con l'alternarsi di
riposo e di sforzo, di lavoro spirituale e di lavoro manuale; Benedetto dice
testualmente che se i monaci per necessità dovranno raccogliere le messi, allora
dovranno essere sommamente contenti perché seguiranno l’esempio degli Apostoli.
Il vero punto di svolta è questo, questo l'ideale antico
che riscopre e suggerisce S. Benedetto: non solo occuparsi dei lavori più o meno
utili, perché "l'oziosità è nemica dell'anima" (
Regula 48, 1, motivazione
negativa), ma vivere veramente del proprio lavoro come i Padri e gli Apostoli
(motivazione positiva). Ora, vivere del proprio lavoro nelle circostanze
concrete di allora (povertà, guerre...) equivaleva in pratica ad accettare il
lavoro agricolo con quanto esso comportava di pesante.
Il vero fulcro del problema risiede, però, nel domandarsi
se c’è una concezione della spiritualità del lavoro in S. Benedetto. La
risposta, tuttavia, è più generica e riferibile a tutta l’esperienza
dell’opera nel monastero: per S. Benedetto non ci sono "azioni profane", ma
nella "casa di Dio" (
Regula 31, 19; 53, 22; 64, 5), tutto acquista il
valore di un'azione sacra, perché il monaco ha consacrato a Dio non solo tutto
ciò che ha, ma anche tutto ciò che è (
Regula 33, 4). S. Benedetto
raccomanda addirittura che gli oggetti del monastero siano trattati "come vasi
sacri dell'altare" (
Regula 31, 10).
Riassumendo schematicamente quanto detto si possono
ricavare dalla
Regola tre orientamenti in merito al lavoro (a questo
proposito si propone qui di seguito un riadattamento di un articolo di J.
LECLERCO,
Economia monastica occidentale in "Dizionario degli Istituti di
Perfezione" (1976) 1021 – 1022 ):
-
Bisogna lavorare.
S. Benedetto fa del lavoro quotidiano uno dei punti
principali della sua concezione monastica, ne fissa l'orario, ne indica il
senso, ne determina il valore. Certi asceti del deserto si sarebbero certo
meravigliati nel vedere attribuiti al lavoro più ore che all'Ufficio divino, e
nel notare che quest'ultimo sia talora condizionato dalle occupazioni (cfr.
Regula, 48). Ma già si è detto che anche il lavoro acquista il carattere di
azione sacra nella mente di S. Benedetto; il suo valore è in rapporto all'ascesi
e alla vita mistica: è un rimedio all'ozio che è nemico dell'anima (
Regula
48, 1), ma esige anche sforzo e fatica, ed è, quindi, per il monaco uno
strumento di perfezione, un mezzo per dominarsi; non si lavora soltanto per
tenersi occupati, ma per ascesi: si tratta di un atto di obbedienza (cfr.
Regula 48, 11. 14; 57). Il carattere penoso del lavoro provoca la tendenza a
non lavorare o a lavorare il meno possibile. Di fatto, al tramonto dell'Impero
Romano, il lavoro si era ridotto ad un obbligo degli schiavi. Facendone una
legge per tutti i monaci, S. Benedetto ne mise in rilievo la dignità.
Il lavoro monastico, però, deve conciliarsi con un certo
"ozio", necessario per dedicarsi in pace alla preghiera e alla contemplazione.
Di qui l'insistenza di S. Benedetto sulla tranquillità che l'animo deve
conservare, quindi sulla misura, sulla considerazione delle persone (
Regula
31, 17; 35, 3-4; 48, 9. 24-25). "L'ozio monastico <
otium latino)
quale è caratterizzato dalla tradizione, è dunque qualcosa di intermedio tra
l'oziosità <
otiositas> e ciò che è la negazione stessa dello 'otium',
cioè il 'negotium', ossia il tumulto e il chiasso degli 'affari'.
-
Inoltre il lavoro, secondo S. Benedetto, deve essere disinteressato, esso è
a base di rinuncia. Ciò è chiarissimo dal capitolo 57 della Regola
sugli artigiani: non solo notiamo la continua insistenza sull'obbedienza e
sull'umiltà ma S. Benedetto inculca che il monaco deve essere distaccato
dall'opera e dal suo risultato. Il risultato ha un suo valore, ma non è
determinante; non si misura da rendimento e dall'arricchimento (si viveva
poi così di poco nell'Italia meridionale al tempo di S. Benedetto!). S.
Benedetto prescrive che si vendano a minor prezzo gli eventuali prodotti,
non per fare concorrenza ai laici (il che sarebbe sleale, soprattutto oggi),
ma per mettere in risalto che il lavoro non si considera come un mezzo per
far soldi.
-
Infine, secondo S. Benedetto, il lavoro monastico tende alla "autarchia":
ciò è evidente dal capitolo 66, 6-7 della Regola . L'attività
monastica è condizionata dalla clausura e dalla stabilità. Questo fatto, da
una parte limita le attività, dall'altra è causa di fecondità e comporta
grandi vantaggi, anche sociali. Ad esempio, un monastero nel medioevo
diventava quasi sempre la cellula madre di un insediamento umano, che a poco
a poco dava origine a borgate e villaggi.
EVOLUZIONE NEL CORSO DEI
SECOLI
La
Regola benedettina fu una dei documenti che più
influenzò il pensiero successivo, per le due finalità più intrinsecamente legate
all’opera, quella ascetica e caritativa e quella culturale e sociale.
Uno gli elementi decisivi per l'evoluzione del lavoro
monastico fu la clericalizzazione della vita religiosa. Alle origini e nell'alto
medioevo, il monachesimo si presentava chiaramente come una forma non clericale
di consacrazione a Dio; man mano aumentarono nelle file dei monaci coloro che
diventavano sacerdoti, soprattutto - a detta degli storici - per lo sviluppo
della liturgia nei monasteri, che esigeva una profonda preparazione culturale, e
quindi tempo e studio per l'apprendimento. Nel secolo XI assistiamo alla nascita
della categoria dei "conversi"( cioè uomini fattisi monaci tardi), i quali, non
avendo, né potendo ottenere, una preparazione culturale, erano meno adatti al
servizio del coro; avevano perciò mansioni più modeste e si accollavano il
lavoro agricolo e l'esercizio dei vari mestieri.
PROBLEMI ATTUALI
I problemi legati alla concezione stessa del lavoro nei
monasteri, già presenti nell’antichità, si ripropongono oggi, anche se si è
affermata una nuova etica del lavoro, confermata dall’enciclica di papa Giovanni
Paolo II "Laborem exercens" che chiama il lavoro g
audium et spes. Gli
elementi essenziali di questa nuova spiritualità si possono così schematizzare:
-
l'uomo con il suo lavoro partecipa all'opera del Creatore e realizza se
stesso;
- il
lavoro trova la sua piena spiegazione alla luce del mistero pasquale di
morte e risurrezione: quindi si può distinguere il lavoro nella sua parte
negativa di sofferenza e fatica e nella sua parte positiva di elevazione,
partecipazione creativa, ecc.;
-
Cristo è l'uomo del lavoro, che sperimenta il lavoro e dal mondo del lavoro
prende immagini e linguaggio per il suo insegnamento;
- il
lavoro ha anche un'altra dimensione: è un esercizio della carità; ogni
lavoro fatto con rettitudine di intenzione, con serietà e responsabilità, va
a beneficio del prossimo;
- il
cristiano sa che il suo lavoro serve non solo al progresso terreno, ma anche
allo sviluppo del Regno di Dio (GS. 39; LE. 27).
(l’intero contributo si ripropone di essere una rilettura e
selezione di un estratto di un’opera di D. Lorenzo Sena, con nome "Appunti sulla
Regola di San Benedetto)