Un percorso didattico per le arti nel territorio:
La pittura quattrocentesca nel Piemonte sud-occidentale
di Stefano Manavella
Dipartimento di Discipline Artistiche Musicali e dello Spettacolo Università di Torino
Il Piemonte si può considerare, per gran parte della
sua storia, una regione periferica rispetto ad altre zone del territorio
italiano.
Non possedette centri elaboratori di cultura paragonabili a Firenze,
Milano o Venezia, anche perché fu privo, almeno fino al Seicento, di grandi
città importanti a livello economico e politico. Ancora nel Quattrocento, il
periodo preso in considerazione da questa indagine, Chieri grazie ai suoi
commerci era più popolosa di Torino. Tuttavia la collocazione periferica
rispetto ai grandi centri di cultura italiani ed europei non impedì al Piemonte
di partecipare con manifestazioni originali e significative ai movimenti
artistici sorti nel corso del XV secolo. La sua posizione nell'area alpina ne
fece anzi un luogo d'incontro, di scambio e di fruttuose contaminazioni tra
diverse correnti artistiche, legate in particolare alla Francia, alla Liguria, alla
Lombardia e all'area padana. In questo contesto il territorio del Piemonte
sud-occidentale, corrispondente all'attuale provincia di Cuneo, che si vuole
qui analizzare, costituisce un caso esemplare, perché grazie alla sua
ubicazione geografica si qualificò come punto di convergenza d'influenze
provenienti dal Piemonte centrale (specie dall'area Pinerolo-Torino), dalla
Francia meridionale, dalla Liguria e dall'ambito lombardo (includendo in questo
termine anche l'Alessandrino e l'Astigiano, sensibili ad influssi di tale
provenienza). Costante è stato in particolare il dialogo con la Liguria, specie
di Ponente, a sua volta mediatrice di componenti culturali composite, di
matrice francese, lombarda o toscana. Può essere utile, nel considerare la
situazione culturale del Piemonte sud-occidentale nel Quattrocento, ricordarne
l'articolazione in diverse entità politiche ed ecclesiastiche, che
contribuirono a differenziare le aree artistiche. Le realtà più importanti
erano il Marchesato di Saluzzo (comprendente la pianura e le vallate
circostanti, confinando verso oriente all'incirca col corso del fiume Maira);
Alba e il suo circondario, legati al Monferrato; il Capitanato di Ceva,
dominato nel primo quarto del secolo dagli Orléans, che si estendeva
nell'angolo sud-orientale della regione, ai confini con la Liguria; infine i
territori controllati dai Savoia-Acaja, che includevano la fascia pianeggiante
inserita tra il marchesato saluzzese e i territori albesi e cebani (in cui
spiccavano i comuni di Savigliano, Bra, Fossano, Cuneo e Mondovì), attraversata
dalle vie che portavano al mare, in particolare al Nizzardo (entrato
nell'orbita savoiarda dal 1388), passando per le valli Stura, Gesso o
Vermenagna. In ambito ecclesiastico, il territorio era amministrato dalle diocesi
di Torino nella parte occidentale e da quelle di Alba e Asti in quella
orientale, cui si era aggiunta da poco, nel 1388, il vescovato di Mondovì. I
centri di potere civile o religioso non mancarono d'influenzare lo sviluppo
delle committenze artistiche. Ad esempio a Centallo, dove i feudatari Bolleris
erano ostili ai Savoia e alleati invece dei Saluzzo, lavorarono dei pittori
legati al vicino marchesato saluzzese, Pietro Pocapaglia e Hans Clemer. In
campo religioso si può invece citare il caso di Giovanni Mazzucco, che
intervenne più volte in cantieri domenicani del Monregalese, segno forse di un
particolare apprezzamento per la sua maniera da parte di quell'ordine, mentre i
fratelli Biazaci sembrano aver intrattenuto dei rapporti privilegiati con i Francescani,
operando in alcune loro fondazioni piemontesi e liguri.
Nella fascia meridionale della provincia, in cui si
distinsero i centri di Mondovì, Ceva e Cuneo, si conservano importanti
testimonianze sin dal tardo Trecento. A Cuneo sono da ricordare nel convento
del S. Francesco una
Madonna in trono tra
Santi e un
S. Cristoforo, mentre
a Mondovì le presenze aumentano verso la fine del secolo, con la
Madonna della sacrestia del duomo
(d'incerta provenienza, al cui autore è attribuita anche una tavola in collezione
privata astigiana), le
Storie di S.
Antonio nel Palazzo Vescovile e l'
Annunciazione
di Vicoforte Fiamenga. Nel Cebano invece si segnalano lo splendido ciclo della
cappella del castello di Saliceto e la decorazione della controfacciata del S.
Martino di Ormea. Le opere monregalesi e cebane citate, tutte databili attorno
al 1390, rivelano degli influssi liguri, legati a maestri come Barnaba da
Modena, Francesco d'Oberto e Taddeo di Bartolo. Ad Ormea siamo anzi di fronte
al primo caso accertato di un pittore attivo su entrambi i versanti delle Alpi
Marittime: alla stessa bottega sono infatti assegnabili degli affreschi a
Bastia d'Albenga (il ciclo più importante, che gli ha guadagnato l'appellativo
di "Maestro di Bastia d'Albenga") e a Pieve di Teco.
Su questo fertile
humus ligure-piemontese cresce l'esperienza di
Rufino "de Alexa" (
d'Alessandria),
noto per documenti a Mondovì nel 1413-1414 e per il polittico firmato del
municipio di Marsaglia (proveniente dalla chiesa della Consolata). A Rufino,
figura dominante del panorama culturale monregalese nel primo quarto del
Quattrocento, sono attribuiti anche alcuni affreschi: la
Madonna in trono col Bambino e S. Antonio Abate della facciata
della parrocchiale di Mondovì Breolungi, la raffinata lunetta dell'ex-chiesa di
S. Francesco a Ceva e il notevole ciclo dell'antica parrocchiale di S. Caterina
a Villanova Mondovì, recentemente ricuperato. Queste opere evidenziano i suoi
legami con la cultura tardogotica ligure (da Barnaba da Modena al "Maestro di
Incisa Scapaccino") e lombarda (di cui si colgono gli echi a Villanova). Simili
componenti si ritrovano, con esiti però differenti, in altri affreschi del
Cebano, databili al primo quarto del XV secolo: una
Madonna col Bambino, un
Santo
cavaliere e un
S. Bartolomeo nel
S. Nazario di
Lesegno, di delicata fattura, con fondo a racemi stilizzati già
presente in Rufino e che si ritrova anche in due dipinti nella cappella di
S. Antonio a
S. Michele Mondovì, un
S.
Bartolomeo e un
Santo diacono, di
poco successivi rispetto alla
Madonna col
Bambino tra S. Giovanni Battista, S. Michele e altri santi della lunetta
soprastante al
S. Bartolomeo.
Quest'ultima opera, di qualità eccezionale, rimanda ad una cultura tardogotica
ligure-lombarda, in particolare ai modelli di Andrea de Aste (si vedano le
Madonne di Portovenere e di Quarto), del
"Maestro di S. Albano" e del "Maestro del Polittico di Lavagnola" di cui si
parlerà fra breve.
Nel Saluzzese invece non si annoverano opere di
particolare rilievo nella seconda metà del Trecento, tali almeno da chiarire le
origini e lo sviluppo rigoglioso che la cultura del Gotico cortese ebbe poi a
cominciare dai primi decenni del XV secolo. A modelli ancora tardo-trecenteschi
rimanda però il finto trittico affrescato nella prima cappella a destra del
S. Giovanni di
Saluzzo, con la
Madonna col Bambino in trono, fra i SS. Bartolomeo e Giacomo. Anche qui i
prototipi di riferimento paiono d'origine ligure, fra Barnaba da Modena, Taddeo
di Bartolo, Giovanni da Pisa e Nicolò da Voltri. L'alta qualità dell'opera e la
mancanza di stilemi di Gotico Internazionale fanno propendere per una datazione
compresa entro il primo ventennio del Quattrocento, prima cioè della diffusione
dei modelli cortesi elaborati dal "Maestro della Manta" e dal "Maestro di S.
Albano". Dunque si può respingere la proposta di Vacchetta di un'attribuzione
al Domenico Pocapaglia attivo nel 1467 a Savigliano, basata sulla presenza al
di sotto dell'affresco dello stemma della famiglia Pocapaglia. Semmai si
potrebbe pensare al suo omonimo (detto "di Savigliano") testimoniato a S.
Albano Stura nel 1390 e nel Monregalese tra il 1396 e il 1398 per l'esecuzione
di stemmi sulle porte cittadine, ipotesi che si adeguerebbe meglio ai caratteri
stilistici del dipinto, accostabili, per le ascendenze liguri e la simile
datazione, ai già citati
Madonna col
Bambino e
S. Bartolomeo
affrescati nel S. Nazario di Lesegno.
Il
S. Giacomo
dell'affresco saluzzese sembra d'altro canto anticipare, per il tipo del volto,
gli Apostoli della
Dormitio della Vergine nell'absidiola destra del
S. Peyre
di
Stroppo, in alta val Maira, parte
di un ciclo con
Storie della Vergine
databile al secondo decennio del Quattrocento e anch'esso incluso in un
circuito di cultura ligure-piemontese. Questi dipinti deliziosi sono una delle
più precoci tappe della fortuna nel Saluzzese del gusto gotico internazionale,
del quale presentano alcuni caratteri peculiari, come l'unione fra l'attenzione
al singolo dettaglio realistico e di costume (ad esempio nel pastore con la
cornamusa), l'eleganza delle pose e la leggiadria delle espressioni (specie
negli angeli), l'allungamento innaturale delle figure e la loro inconsistenza
corporea. L'autore di questi affreschi dovette conoscere la corrente più aperta
in direzione cortese della cultura ligure d'inizio Quattrocento, incarnata dal
"Maestro d'Incisa Scapaccino" e successivamente da Andrea de Aste, forse
identificabili con una medesima personalità (secondo l'ipotesi di Andrea De
Marchi), specie se tra il polittico astigiano e le
Madonne liguri di Andrea s'inseriscono opere come l'
Adorazione dei Magi già in collezione
Imperiale a Genova, accostabile per alcuni aspetti agli affreschi di Stroppo.
Simili richiami culturali valgono anche per il
gruppo di dipinti riuniti da Giovanna Galante Garrone attorno al nome
convenzionale di "
Maestro di S. Albano",
dal ciclo di affreschi della cappella del castello di S. Albano Stura,
collocabile nel secondo decennio del Quattrocento (post 1412, per la presenza
dello stemma dei saviglianesi Beggiamo, che vennero infeudati a S. Albano da
Ludovico d'Acaja in quell'anno). Agli affreschi di S. Albano, ancora in parte
coperti da scialbo, si possono avvicinare i
SS.
Costanzo e Sebastiano di un sottarco nella navata destra del S. Francesco
di Cuneo, tre dipinti sulla facciata dell'antica parrocchiale di Verzuolo (una
Madonna col Bambino tra i SS. Filippo e
Giacomo nella lunetta e i vicini riquadri con
S. Cristoforo e
S. Barbara),
un
Cristo in mandorla tra angeli nel
sottotetto del S. Bernardo di Saluzzo e l'importante ciclo con
Storie della Passione ricuperato nella
cappella dei SS. Crispino e Crispiniano nel S. Giovanni di Saluzzo. Anche un
frammento di miniatura ritrovato nella chiesa di S. Margherita a Chiappera,
frazione di Acceglio (in alta val Maira), con una scena di
Giudizio di una santa, forse Margherita, è stato accostato a questo
filone, che si contraddistingue per un marcato gusto ornamentale e lineare, per
la delicatezza degli incarnati e la sinuosità delle posture e dei panneggi, per
la ricercatezza dei particolari (si veda l'eleganza del
Cristoforo verzuolese o di molti personaggi, specie femminili,
degli affreschi saluzzesi), nonché, limitatamente alle
Storie della Passione, per una singolare fantasia nell'utilizzare
architetture fiabesche al fine d'unificare la composizione. L'origine di queste
squisite preziosità cortesi è nuovamente da ricercare nel contesto ligure
d'inizio secolo, nell'ambito Maestro d'Incisa - Andrea de Aste (si confronti in
particolare la
Madonna di Verzuolo
con le tavole di Andrea a Quarto e Portovenere), con una combinazione di
elementi di matrice lombarda con altri di tradizione ligure-toscana, come la
tipologia degli angeli della volta saluzzese, non lontana da quelli di Stroppo.
Ma i riscontri sono ancora più puntuali con l'autore del polittico con la
Madonna tra Santi già nel S. Dalmazio di
Lavagnola, presso Savona; si accosti in particolare il
S. Dalmazio della tavola ligure con i due
Santi guerrieri di Cuneo. L'anonimo di Lavagnola evidenzia del
resto anch'egli palesi debiti verso i modelli di Andrea de Aste, che interpreta
con uno spirito più pungente che fa pensare alla sensibilità dei pittori
monregalesi (è da questo punto di vista significativa, seppur non
condivisibile, l'attribuzione proposta alcuni anni fa ad Antonio da Monteregale).
In un simile ordine di problemi rientra, oltre alla
già ricordata
Madonna tra Santi nel
S. Antonio di S. Michele Mondovì, anche il ciclo con
Storie della Vergine nel santuario della
Madonna del Castello a
Caraglio
(già cappella del castello), che un'iscrizione letta all'inizio dell'Ottocento,
al momento della sua riscoperta, datava al 1410. Questi affreschi, che uniscono
sinuosità di panneggi corposi, colori delicati, gusto decorativo e
irrazionalità prospettica (ma che non sono privi, talora, anche di certe
brutalità popolareggianti), sono stati letti in una più accentuata direzione
lombarda, notando affinità con la miniatura della fine del Trecento e spiegando
tali componenti tramite la committenza di Bartolomeo Solaro, feudatario di
Caraglio dal 1393, proveniente da Asti, che al tempo era nell'orbita dei
Visconti. Anche se non si accetta tale ipotesi, è interessante sottolineare il
ruolo di crocevia culturale tra Lombardia, Piemonte e Liguria che Asti può aver
esercitato ad inizio Quattrocento ed è in tal senso indicativa la verosimile
origine astigiana del pittore Andrea "de Aste".
Accanto a questa corrente ligure-lombarda, un'altra
feconda stagione tardogotica presenta nel Saluzzese caratteri
jaqueriani, o meglio, affinità col
Pinerolese, a cominciare dalla celebre
Sala
Baronale nel castello di
Manta.
Questi affreschi straordinari, uno dei massimi capolavori del Gotico
Internazionale a livello europeo, sono singolari sia per l'iconografia che per
lo stile. Il ciclo venne commissionato da Valerano detto il "Burdo", figlio
naturale del marchese Tommaso III, che ereditò dal padre il feudo di Manta e
resse lo stato durante la minore età di Ludovico I, tra il 1416 e il 1426, anni
entro cui si può collocare la ristrutturazione del castello mantese e la sua decorazione.
Le tematiche profane, che si configurano come un
unicum nel panorama pittorico quattrocentesco del nostro
territorio, s'ispirano a soggetti ampiamente diffusi nella cultura medievale,
specie in Francia (sia in letteratura che nelle arti figurative, ad esempio
nella miniatura e negli arazzi), ovvero la sfilata dei
Prodi e delle
Eroine e la
Fontana della Giovinezza. Più in
particolare, l'origine della parete con gli
Eroi
è da riconoscere in un romanzo scritto dallo stesso Tommaso III alla fine
del Trecento, lo
Chevalier Errant, per
cui la scelta di Valerano sembra delinearsi quasi come un omaggio al padre
defunto, mentre nella nostalgia che pervade il tema, ravvisabile anche nella
Fontana della Giovinezza (che interpreta
con incantevole
verve la leggenda
della sorgente miracolosa le cui acque avevano il potere di ringiovanire) si
potrebbe cogliere una riflessione di Valerano sulla mutevolezza della fortuna,
stimolata dalla transitorietà del suo potere, che venuto il tempo opportuno
trasferì al legittimo erede senza colpi di mano, con un'onestà da vero
"cavaliere d'altri tempi". Tali temi, come anche l'eccentrica foggia dei
costumi e delle acconciature (elemento prezioso per la datazione, che non può
oltrepassare di molto il 1420) e le stesse componenti formali, rimandano con
insistenza alla cultura francese e in particolare all'ambiente della corte di
Carlo VI con il quale Tommaso III e Valerano ebbero ripetuti contatti. Dalla
testimonianza del cronista Gioffredo della Chiesa sappiamo del resto che Tommaso
riportò a Saluzzo da Parigi nel 1405 "molte belle cosse e gentilezze", tra cui
oggetti d'oreficeria (un orologio e un mappamondo), manufatti lignei (un gruppo
di figure componenti un
Santo Sepolcro e
un corodestinato alla chiesa di S.
Domenico, l'antico S. Giovanni) e codici "in francioso" miniati, un riflesso
dei quali ci è conservato nelle due copie dello
Chevalier Errant decorate nel primo decennio del Quattrocento da
due rilevanti
atelier parigini, fra
cui una attribuita al "Maestro del
Cité
des Dames" e custodita ora alla Biblioteca Nazionale di Parigi, che
contiene due miniature coi
Prodi e le
Eroine che si pongono come un
precedente iconografico per i nostri affreschi.
La superba qualità di questi
ultimi ha sollecitato gli studiosi alla ricerca di adeguati confronti
stilistici che potessero supportare un'attribuzione, prendendo in
considerazione alcuni fra i più importanti artisti attivi nei primi decenni del
Quattrocento tra il Piemonte centrale e la Provenza. Sono infatti stati
richiamati, a diverso titolo, i nomi di Jacques Iverny, Giacomo Jaquerio, Jean
Bapteur, Dux Aymo e Guglielmetto Fantini, senza per ora giungere ad un
risultato definitivo. Fra questi si possono senz'altro escludere i riferimenti
ad Iverny e a Bapteur, mentre sono significativi i punti di contatto con la
maniera di Jaquerio (specie per certe asprezze visibili nella nicchia con la
Crocifissione fra due Santi sulla
parete di fondo e nella
Fontana di
Giovinezza, in genere ritenuta opera della bottega del Maestro dei Prodi, per
i caratteri più popolareschi) e con quella del Duce, come emerge da certi
dettagli dei suoi affreschi firmati a Villafranca Sabauda, databili attorno al
1430 (affinità forse spiegabili a causa di un'influenza dell'anonimo mantese su
Aimone). E' bene ricordare che proprio al tempo in cui Valerano saliva al
potere erano documentati al servizio della corte degli Acaja a Pinerolo sia
Jaquerio che il Duce, in coincidenza fra l'altro con l'invio (1417) del
busto-reliquiario con
S. Giovenale,
commissionato da Ludovico d'Acaja e opera dell'orafo pinerolese Serafino,
all'omonima collegiata di Fossano, anch'esso sorto in una temperie jaqueriana e
accostabile agli affreschi mantesi per la capigliatura a corta zazzera e per
l'indagine psicologica.
Ad un confronto con l'ambito pinerolese rimandano
anche tre cicli di affreschi databili attorno al 1430, situati nella cappella
del castello di
Manta (con
Storie della Passione), in
S. Maria del Monastero, sempre a Manta
(con un
Giudizio Universale, un'
Annunciazione, una
Deposizione e diverse figure di
Santi)
e nella cappella della
SS. Trinità a
Scarnafigi. I dipinti del Monastero
sono più delicati, mentre quelli di
S.
Maria del Castello e di Scarnafigi si segnalano per un disegno veloce e
sinuoso, talora trasandato ma percorso da una vitalità quasi frenetica, in cui
risaltano fisionomie incisive e deformazioni espressive. Riscontri precisi, ad
esempio tra la
Deposizione di Manta e
l'analogo soggetto della calotta absidale di Scarnafigi, permettono di
assegnare tali cicli ad una stessa bottega, che rivela strette affinità con gli
affreschi della parrocchiale di Roletto, vicino a Pinerolo e più blande, seppur
significative, analogie con i dipinti della Sala Baronale, specie con la parete
della
Fontana, alla quale si è
supposto che tali maestranzeabbiano
collaborato. Giovanna Galante Garrone ha proposto di collegare queste opere,
unitamente al
corpus del "Maestro di
S. Albano", con le notizie documentarie relative alla dinastia di artisti
Pocapaglia. Già si è ricordato il
Domenico "di Savigliano" attivo a S. Albano e nel Monregalese alla fine del
Trecento, a cui seguono le testimonianze su Antonio Pocapaglia, detto invece
"saluzzese", operante a Savigliano nel 1415, intento tra il 1428 e il 1430 ad
eseguire (a Saluzzo) un'ancona per l'altare maggiore della collegiata di
Fossano, con un "Crocefisso di rilievo fregiato di bellissimi ornamenti" (per
le cui dorature fu necessario ricorrere a Genova) e impegnato nel 1437 alla
decorazione di uno dei due chiostri del S. Francesco di Fossano (dove realizzò
forse una "balada", ovvero verosimilmente una
Danza macabra). Dal 1438 iniziano le informazioni su Pietro
Pocapaglia da Saluzzo, proprio in concomitanza con l'apparente sparizione di
Antonio, cosa che ha fatto ipotizzare una sua sostituzione a capo dell'
atelier prima guidato dal presunto
parente. Nel 1467 un altro pittore Domenico Pocapaglia partecipa alla
preparazione degli apparati per la venuta a Savigliano di Amedeo IX, mentre al
terzo quarto del Quattrocento risalgono diverse testimonianze su un Pietro
Pocapaglia "de Saviglano", "aurifice" a Mondovì, dove in due atti del 1454
appare anche un suo fratello di nome Giovanni. I Pocapaglia risultano dunque
attivi per un lungo arco di tempo nei centri più importanti della provincia
(Saluzzo, Savigliano, Fossano, Mondovì e anche Cuneo) e sebbene non sia chiaro
se i due rami della famiglia (quello saviglianese e quello saluzzese, sempre
che tale distinzione sia realmente esistita) fossero in contatto, si può
ritenere che abbiano costituito, con la loro mobilità, un elemento di dialogo
tra le diverse realtà culturali. Purtroppo conosciamo solo la fisionomia
stilistica di Pietro, mentre ci sfuggono tutti gli altri componenti. Per
Antonio Pocapaglia si sono avanzate molteplici congetture; la rilevanza delle
commissioni, che lo fa appare figura di primissimo piano, ha fatto supporre da
parte di Giuseppe Dardanello nel 1993 una sua identificazione col Maestro della
Manta, l'artista più importante attivo nel Saluzzese all'incirca negli stessi
anni. Questa tesi sembrava aver trovato un ulteriore conferma
nell'individuazione a Fossano, su un muro superstite dell'antico S. Francesco,
accanto alla cosiddetta "Piazza delle Uova", di un lacerto di affresco con dei
volti frammentari contro uno sfondo di architetture urbane, parte di una scena
narrativa (forse una
Visitazione),
nel quale si erano scorti dei rapporti con i dipinti di Manta, avvicinando un
volto femminile di tre quarti con quello dell'eroina
Teuca. In verità questo legame, che non sussiste a livello
stilistico, è pure arduo da sostenere dal punto di vista iconografico, tanto è
vero che anche la responsabile di tale accostamento, Chiara Vergano, ha
successivamente rivisto la sua proposta, inserendo tale affresco nel
corpus del "
Maestro di S. Bernardo", un pittore di cultura monregalese assai
prossimo ad Antonio da Monteregale, che dovette essere attivo a
Fossano attorno al 1440. A questo
artista si possono assegnare una
Madonna
col Bambino in trono nel S. Bernardo di Fossano (da cui ha preso il nome),
un
Santo guerriero (forse
Maurizio) e un
S. Giovanni Battista anch'essi provenienti dal S. Francesco di
Fossano (e ora nella sede della Cassa di Risparmio locale) e un frammentario
S. Sebastiano nella chiesa della
frazione omonima; inoltre sono vicini alla sua maniera una
S. Caterina ferita dagli strumenti del lavoro festivo nel
sottotetto dell'antica parrocchiale di Villanova Mondovì e una
Madonna col Bambino e angeli nella
cappella dell'Annunziata a Mondovì Borgato. Visto che Antonio Pocapaglia è
testimoniato nel S. Francesco di Fossano all'incirca in questi anni, la Vergano
ha accennato alla possibilità di riconoscerlo nel Maestro di S. Bernardo. Le
due affascinanti ipotesi riguardo all'identificazione di Antonio Pocapaglia
sono accomunate in verità dalla difficoltà di essere conciliate con la
personalità di Pietro Pocapaglia, anche lui saluzzese, che ci è ben nota;
bisognerebbe infatti supporre che Pietro avesse tenuto in poco conto l'esempio
di Antonio. Non è sufficiente infatti il confronto tra uno dei profili
(peraltro quasi interamente perduto) della cosiddetta
Visitazione di Fossano e quello della
Vergine nell'abside di S. Maria del Belvedere a Vignolo (parte di
un ciclo attribuibile a Pietro), proposto recentemente da Elisa Cartei, per
poter individuare una linea di continuità tra Antonio (nel caso in cui si
accetti una sua equivalenza con il Maestro di S. Bernardo) e Pietro. Da questo
punto di vista sarebbe perciò assai più convincente identificare Antonio
Pocapaglia, o un altro membro della famiglia all'incirca a lui contemporaneo,
con il Maestro di S. Albano, poiché quest'ultimo evidenzia al contrario
strettissime affinità stilistiche con Pietro, tanto da costituire un precedente
fondamentale della sua maniera. Un legame tra il Maestro di S. Albano e i
Pocapaglia può essere inoltre suggerito, come ha notato la Galante Garrone,
dalla presenza nella cappella che fronteggia le
Storie della Passione nel S. Giovanni di Saluzzo, dell'affresco di
cui si è già parlato, con lo stemma dei Pocapaglia ed è inoltre interessante
che Domenico Pocapaglia
senior sia
testimoniato proprio a S. Albano, sebbene una ventina d'anni prima rispetto
alla presumibile datazione del ciclo del castello. Dagli archivi è peraltro
emersa un'altra figura finora sconosciuta, Sebastiano "de Fontanis", di cui si
parla in un documento del 1437, che nel 1443 era detto pittore di Saluzzo e
delle cui figlie e eredi nel 1455 Pietro Pocapaglia venne nominato
amministratore, cosa che può far pensare all'esistenza di stretti rapporti tra
i due artisti. Viste le date, Sebastiano risulta attivo nella prima metà del
Quattrocento e andrà dunque tenuto presente anche il suo nome nella rosa di
candidati da avvicinare agli anonimi attivi nel Saluzzese in quell'epoca,
ovvero il Maestro di Manta, il Maestro di S. Albano e la bottega del gruppo S.
Maria del Monastero - S. Maria del Castello - Scarnafigi.
Venendo dunque a
Pietro Pocapaglia da Saluzzo, bisogna ricordare che la
ricostruzione della sua personalità fu avviata da Mario Perotti negli anni
Sessanta, costruendo un
corpus di
opere omogenee attorno al nome di "Maestro del Villar", dal ciclo più cospicuo,
sito nella cappella di S. Giorgio della parrocchiale di Villar S. Costanzo.
Proprio il rinvenimento nel 1977 di un'iscrizione a firma degli affreschi di
Villar ("Petrus... Salucis", dove nello spazio vuoto doveva inserirsi il cognome)
ha permesso di identificare questo artista con il Pietro Pocapaglia di cui si
possedevano notizie d'archivio a Fossano e Cuneo. La fisionomia dell'artista è
ormai sufficientemente delineata, ma permangono ancora dei dubbi nella
cronologia. Elementi fermi sono i cicli di Villar S. Costanzo, firmato e datato
al 1469 e le
Storie della Passione
nel S. Francesco di Cuneo, di cui rimane il contratto di allogazione del 1472.
Non firmati, ma attribuibili con certezza a Pietro sono gli affreschi datati di
Centallo (1438), Monterosso Grana (1468) e di Castelmagno (collocabile, in base
all'iscrizione dedicatoria, tra il 1475, venticinquesimo anniversario di
apostolato del committente Enrico Allemandi e il 1480, data delle sue
dimissioni dall'incarico). Più dubbi oppure inaffidabili sono i riferimenti
cronologici che si sono indicati per altri dipinti. La carriera di Pietro fu
assai longeva, prolungandosi dagli anni Trenta agli anni Settanta del
Quattrocento e molto prolifica, svolgendosi in vari paesi del marchesato e in
altri centri del Cuneese, dove la committenza mostrò di apprezzare il suo
linguaggio ornato ed elegante, fedele agli stilemi tardogotici. Punto di
partenza è il ciclo frammentario col
Transito
della Vergine in S. Maria ad Nives a Centallo, datato al 1438, in cui già
riscontriamo dei panneggi ricchi di svolazzi e arricci, ma anche abbastanza
corposi, nonché una mescolanza fra dolcezze d'ascendenza lombarda e profili più
aspri ed espressivi, forse suggeriti dalla tradizione jaqueriana, che
s'incontreranno in altre opere precoci, come la decorazione della prima
cappella a sinistra e della seconda a destra della parrocchiale verzuolese, gli
affreschi dell'abside di S. Maria del Belvedere a Vignolo e quelli della
cappella della SS. Trinità a Scarnafigi. Vicini a questo gruppo sono inoltre la
Crocifissione e
Santi nel S. Agostino di Carmagnola, presenza spiegabile coi legami
di questa città con il marchesato saluzzese. Perduti sono invece i
Dottori della Chiesa ele
Storie
di S. Giovenale nella chiesa omonima di Fossano (1445) e la decorazione
della facciata della confraternita del Crocifisso nella stessa città (1453),
interventi significativi per il loro prestigio e perché si riallacciano
all'attività di Antonio Pocapaglia a Fossano alcuni anni prima. Per gli
affreschi di Verzuolo si sono proposti due diversi
post quem, 1453 e 1459, relativi al rinforzo delle murature e al
tamponamento delle finestre poste in precedenza nelle cappelle, ma i documenti
assai generici dell'archivio comunale citati dal Boero non consentono affatto
di interpretare i lavori svolti in quel periodo nella chiesa in modo preciso.
Come ha ben visto la Galante Garrone, questi dipinti si pongono come anello di
congiunzione fra il Maestro di S. Albano e l'opera di Pietro, ovvero rivelano
delle precise affinità con le
Storie
della Passione nel S. Giovanni di Saluzzo, databili agli anni Venti del XV
secolo. I riscontri tra questo ciclo (e gli altri affreschi assegnabili al
Maestro di S. Albano, in particolare i due
Santi
guerrieri di Cuneo) e la maniera del Pocapaglia sono talmente puntuali da
rendere altamente probabile una sua formazione nell'
atelier di tale artista, con cui forse collaborò nell'esecuzione
degli affreschi saluzzesi e dal quale dovette assorbire le cadenze
filo-lombarde che caratterizzano il suo stile. Da ridimensionare è invece, a
questo proposito, la portata del suo incontro con gli affreschi, ora perduti,
dell'alessandrino
Giacomo Pitterio,
risalenti al 1404, che secondo le fonti si trovavano nel coro della sopra
citata chiesa di Centallo. Pitterio infatti, nel polittico frammentario della
Sabauda, proveniente dalla Sacra di S. Michele e negli affreschi a lui
attribuiti (ad esempio quelli in S. Antonio di Ranverso), si rivela artista
mediocre e attardato, che poco avrebbe avuto da insegnare a Pietro. Ritornando
dunque ai dipinti di Verzuolo, l'alta qualità di brani come il
Cristo di Pietà o il
Martirio di S. Sebastiano e il loro
disegno delicato farebbero propendere per una datazione alta, forse ancora
inclusa nella prima metà del Quattrocento, anche se non è inverosimile il
post quem del 1453. In alcuni di questi
personaggi (gli aguzzini del
Martirio di
S. Sebastiano e gli apostoli dell
'Ascensione)
si avvertono fisionomie caricate, dai nasi prominenti, che possono riportare ai
modelli jaqueriani, che Pietro dovette assimilare in particolare tramite la
bottega operosa nelle chiese mantesi e a Scarnafigi, per la quale la Galante
Garrone ha d'altronde supposto un collegamento coi Pocapaglia. E' in questo
senso significativa la presenza di Pietro nella cappella della Trinità di
Scarnafigi, dove completò il ciclo decorativo con una teoria di
Apostoli nell'abside e altre figurazioni
sulle pareti della navata, tra cui una
Trinità
(del tipo "orizzontale", che s'incontra tra Quattro e Cinquecento nel Cuneese a
Melle, Valgrana, Carrù e Venasca) e una
Predica
di S. Vincenzo Ferreri, dove la definizione di "beato" posta sul suo
pulpito permette di proporre una datazione compresa tra il 1455, anno della
beatificazione e il 1458, anno della canonizzazione di Vincenzo.
Per quanto riguarda gli anni Sessanta la maniera di
Pietro ci è nota grazie ai cicli datati di Monterosso Grana e di Villar S.
Costanzo. A Monterosso è riemersa coi recenti restauri un'iscrizione che indica
la data 15 maggio 1468 e che concorda con quello che già si era supposto in
passato, ovvero che questi affreschi fossero di poco precedenti a quelli di
Villar. I dipinti della cappella di S. Sebastiano a Monterosso sono uno dei
risultati migliori della sua produzione, per la raffinatezza del disegno e la
felice vena decorativa e narrativa, che risalta specie nella
Madonna in trono, nelle
Storie di S. Sebastiano e negli
Evangelisti della volta. Una simile
immersione nel clima favolistico del Gotico Internazionale si nota nel
S. Giorgio con la Principessa nella cappella di S. Ponzio a Castellar, forse
collocabile anch'esso nel settimo decennio, unitamente al ciclo dell'abside di
prevalente esecuzione di bottega. Nello stesso torno di anni è da situare anche
l'
Annunciazione nel S. Giovanni
vecchio di Savigliano, per la quale è inaccettabile l'
ante quem del 1454 stabilito in modo del tutto arbitrario da
Turletti. Una datazione alla seconda metà degli anni Sessanta si adatta invece
perfettamente allo stile dell'affresco saviglianese (si confronti in
particolare la sorprendente affinità tra l'
Annunciata
e la
Vergine di Monterosso) e anche
al soprastante dipinto attribuito ai Biazaci, di cui si parlerà in seguito.
Si giunge dunque al ciclo del Villar (1469), che si
presenta come ideale
summa della sua
maniera affabile e ricca di orpelli cortesi, anticipando nel contempo alcuni
caratteri che si ritroveranno nelle sue opere successive, in particolare a
Valgrana, a Piasco e a Castelmagno. Nel primo centro Pietro lavorò attorno al
1470-1475 nella parrocchiale di S. Martino e nella cappella di S. Bernardo,
lasciando nella seconda la più significativa manifestazione del suo stile
tardo, che continua a prediligere i modelli tardogotici, ma con un disegno più
largo, raggiungendo effetti più monumentali rispetto alle opere precedenti,
specie nella
Madonna tra Santi dell'abside.
Tale discorso è proseguito a Castelmagno, senza varianti sostanziali,
concludendo così un percorso formale di esemplare unitarietà ed espressione di
una cultura ormai ampiamente attardata, che non impedì a Pietro di intervenire
in centri più importanti come Cuneo (1472) e Saluzzo, dove le
Storie di S. Antonio recuperate nella
prima cappella a destra della chiesa di S. Giovanni si possono attribuire alla
sua mano. E' interessante rilevare che questo ciclo si era sovrapposto ad un
precedente, di medesimo soggetto ma più difficile da analizzare a livello
stilistico. Tale cappella è la stessa della
Madonna
tra Santi con lo stemma dei Pocapaglia e che fronteggia quella con le
Storie della Passione del Maestro di S.
Albano; si può perciò supporre che in questa parte dell'edificio si sia
esercitato per più generazioni quasi un monopolio da parte dei Pocapaglia.
Accanto alla corrente filo-lombarda incarnata da
Pietro Pocapaglia, anche nel terzo quarto del Quattrocento si delinearono nel
Saluzzese delle esperienze prossime alla cultura pinerolese d'impronta
jaqueriana. Si può cominciare con gli affreschi nell'abside del
S. Salvatore di
Macra, cappella che conserva anche importanti dipinti romanici. Il
pittore che verso la metà del secolo rappresentò gli
Apostoli, il
Cristo in
mandorla tra gli
Evangelisti, l'
Annunciazione e due
Santi mostra infatti delle affinità con il Maestro di Lusernetta,
noto per il ciclo della cappella di S. Bernardino a Lusernetta (in Val Pellice)
e per quello nel S. Erige di Auron, presso Saint-Etienne-de-Tinée,
nell'entroterra nizzardo, datato al 1451. Si tratta di una personalità singolare,
che unisce stilemi tardogotici, come i panneggi sovrabbondanti e le decorazioni
a stampino di alcune vesti, ad eccentriche notazioni caratteriali (ad esempio
nel
S. Mattia) o inediti tentativi di
resa monumentale delle figure, nei
SS.
Andrea e
Pietro che giganteggiano
avvolti in ampi mantelli. Vicino a questo artista, ma più debole, è l'autore
dei riquadri col
S. Giorgio e la
Principessa e i
SS. Margherita e
Leonardo in
S. Maria della Valle
a
Valgrana (si accosti in
particolare
Margherita con la
S. Caterina d'Alessandria di Macra),
anch'egli sensibile ai modelli elaborati dal Maestro di Lusernetta.
Di maggior rilievo è la figura di
Giorgio Turcotto di Cavallermaggiore,
noto per il ciclo firmato nel 1467 già nel S. Giovanni di Sommariva Perno,
parzialmente conservato alla Galleria Sabauda di Torino dopo la distruzione
della chiesa e per due opere firmate e datate al 1473 nel S. Domenico di Alba,
citate da fonti settecentesche e finora non rintracciate, ovvero una tavola e
un'immagine, forse ad affresco, del
Beato
Bartolomeo da Cervere. Partendo da questi dati si sono assegnati a Giorgio
anche una
Madonna col Bambino in trono
nel santuario di S. Maria a Lagnasco, una
Madonna
tra Santi nell'abside di S. Pietro a Cavallermaggiore (e forse una
S. Lucia nello stesso edificio), la
decorazione del pilone del santuario degli Orti a Murello e un
Abbraccio tra i SS. Domenico e Francesco staccato
dal S. Domenico di Alba. Più dubbia è l'attribuzione di alcune figure nella
cascina di S. Bartolomeo di Cavallermaggiore. Turcotto dimostra in queste opere
di essersi formato su dati di cultura pinerolese e saluzzese dei primi decenni
del Quattrocento, tra Jaquerio, Aimone Duce e il Maestro di Manta; in questo
senso il risultato più significativo è la
Vergine
di Lagnasco, di ottima qualità e di datazione precoce (attorno alla metà del
secolo), assai prossima alla
Madonna tra
Santi commissionata da Bianchina Actis nel S. Antonio di Ranverso poco
oltre la metà del Quattrocento. Gli affreschi di Sommariva mostrano una fase
successiva, in cui il pittore combina gli elementi stilistici precedenti con
alcune notazioni più aggiornate (specie nella figura del
Battista).
A confronti con la realtà artistica pinerolese
sembrano condurre anche gli affreschi della cappella alla base della cella
campanaria nel
S. Andrea di
Brossasco, dove certi elementi
grotteschi, ad esempio nella
Strage degli
Innocenti, hanno suggerito un richiamo alla maniera dei pinerolesi
Bartolomeo e Sebastiano Serra. In loco le analogie più immediate si trovano nel
pittore della
volta della
parrocchiale di
Elva il quale, dotato di una particolare
verve espressiva, fa sfoggio nel motivo dei putti che sostengono
delle campane vegetali di un moderato aggiornamento su modelli di stampo quasi
"umanistico". Del resto questo artista, nonostante la sua cultura affondi nel
terzo quarto del secolo, dovette lavorare ad Elva nei decenni successivi, visto
che parte della volta fu poi completata da Hans Clemer a cavallo tra Quattro e
Cinquecento ed è più logico pensare perciò che non ci sia stata una lunga
interruzione tra le due campagne decorative. Caratteri per certi aspetti simili
presentano anche i dipinti dell'abside della
parrocchiale di
Rossana,
con due
episodi dell'Infanzia di Cristo e
un
S. Bernardino da Siena (che
presuppone una datazione post 1450, data della sua beatificazione) dal volto
rinsecchito; alcuni elementi iconografici e decorativi trovano riscontro però
anche nella produzione dei fratelli Biazaci, ai quali è attribuita l'
Assunzione della ghimberga della
facciata della medesima chiesa.
Se a Brossasco le affinità con i Serra rimangono
abbastanza generiche, esse sono invece evidenti nel bel ciclo con
Storie della Passione e
Santi nella
cappella del
Palazzo
Malingri in frazione Villar di
Bagnolo
Piemonte, ricco d'umori nordici, nei panneggi franti e nelle fisionomie
doloranti. Si notano dei rapporti in particolare con il gruppo del "Maestro di
Ramat" (autore degli affreschi nel S. Andrea di Ramat, in Val di Susa), per il
disegno talora veloce e sintetico e per l'attenzione concentrata sui volti,
spesso crudeli e deformi, in cui ricorrono singoli tipi (si pensi a
Caifa o a
Pilato, che ricordano tutta una serie di tiranni di ambito
serriano, da Ramat a Villard-Saint-Pancrace). Non mancano anche echi della
maniera di Antoine de Lonhy, testimoniato in Piemonte (ad Avigliana) sin dal
1462; ad esempio il gruppo della Madonna svenuta sostenuta da S. Giovanni e da
una Pia Donna nella
Crocifissione
bagnolese rimanda alle analoghe figure nell'affresco del
Compianto nella cattedrale di Saint-Jean-de-Maurienne, opera assai
consunta ma che sembra riconducibile ad Antoine o ad un suo stretto
collaboratore (non al Maestro di Bagnolo, come pensa Santenera). Inoltre i
colori vivaci dei dipinti di Bagnolo ricordano la produzione dei Serra ma anche
quella di Lonhy (per l'adozione di certi arancioni o verdi acidi). La datazione
più probabile s'aggira attorno al 1470, anche per la presenza del
Beato Bernardo del Baden, privo di
aureola, che morì a Moncalieri nel 1458 e fu beatificato nel 1481. Una cultura
di simile matrice s'incontra nella più tarda
Annunciazione sotto il portico di una casa vicina al palazzo, a
riconferma dei legami di Bagnolo col Pinerolese (in sintonia con la situazione
politica), già comprovati da un affresco della prima metà del Quattrocento con
una
Dama reggistemmi sopra l'ingresso
del castello medievale dei Malingri, vicino ai modelli di Aimone Duce (il cui
ciclo di Villafranca si trova d'altronde a pochi chilometri da Bagnolo) e del
Maestro della Manta, sebbene assai più gracile (lo si confronti ad esempio con
le eroine
Delfile e
Teuca). Vista la presenza degli stemmi
dei Savoia, degli Acaja e dei Malingri, si potrebbe pensare addirittura ad una
datazione compresa tra il 1412 (anno della concessione del feudo di Bagnolo ad
Aimé Malingres de Saint Genix, nobile savoiardo, da parte del principe d'Acaja,
confermata dall'imperatore Sigismondo nel 1415, che lo aveva nominato inoltre
eques auratus) e il 1419, quando Aimé
morì a Bagnolo, data che si potrebbe circoscrivere entro il 1418, anno
dell'estinzione degli Acaja;si tratta per l'appunto degli anni in cui il Duce è
testimoniato alla corte degli Acaja e della più plausibile datazione degli
affreschi mantesi (1415-1420). E' bene ricordare che Aimé era un personaggio di
rilievo a livello politico e culturale; già scudiero del Conte Verde, divenne
poi maestro di palazzo e ambasciatore, oltre ad essere poeta in lingua
occitana. Svolse una delle sue missioni diplomatiche presso la corte di Carlo
VI, la stessa a cui erano legati i marchesi di Saluzzo e a cui rimanda la
pettinatura "a corna" della
Dama
bagnolese.
Dunque la tradizione tardogotica si espresse nel
Saluzzese in svariate manifestazioni, fino agli ultimi decenni del secolo e
ancora molto è da indagare nella capitale stessa del marchesato, dove nei mesi
scorsi sono emersi nuovi affreschi nella chiesa di S. Bernardo e
nell'ex-cappella di S. Sebastiano, presso l'antico episcopio (questi ultimi
ancora in fase di scoprimento), che attendono ancora di essere studiati.
Altrettanto complessa e variegata è la situazione del Monregalese, forse anzi
ancora più ricca di testimonianze, soprattutto ad affresco. Ci si limiterà
perciò in questa sede a delineare le principali correnti figurative o
personalità che si sono avvicendate nel corso del Quattrocento. Avevamo
lasciato questo territorio ai primi decenni del secolo, con le ottime prove di
Rufino d'Alessandria e dell'anonimo della lunetta di S. Michele Mondovì. Il
secondo quarto del Quattrocento è invece dominato dalla personalità di
Antonio da Monteregale, che firma nel
1435 un ciclo di affreschi in S. Maria della Montà a Molini di Triora,
nell'entroterra imperiese e che già nel 1426-1428 aveva lavorato a Porto
Maurizio, lasciando un dipinto all'esterno dell'oratorio dell'Annunziata, ora
perduto. Questi dati concordano con il suo stile, che rivela un'attenzione per
la cultura ligure di matrice toscana diffusa tra Genova e il Ponente tra la
fine del Trecento e il primo ventennio del Quattrocento, specie per Nicolò da
Voltri e per Giovanni da Pisa (si confronti ad esempio il
S. Giovanni Battista di Antonio con quello di Nicolò nel polittico
dei Musei Vaticani, del 1401, oppure la sua
Madonna
con quella al centro del trittico di Giovanni ora a San Simeon, Hearst Castle,
del 1423). Ad Antonio è attribuito anche un
polittico
frammentario, ora al Museo Civico di Torino, di sicura provenienza francescana
(per la preminenza di santi di quell'ordine) e databile poco oltre il 1435, per
le notevoli affinità con il finto retablo dipinto a Molini. Il linguaggio di
Antonio è semplice e diretto, talora brusco ma non privo di un primitivo
fascino; i contorni sono marcati, i colori molto vivaci, le espressioni, in
genere sorridenti, divengono brutali e doloranti nelle scene drammatiche come
la
Crocifissione della chiesa ligure.
Le aperture di Antonio verso le ricercatezze cortesi, visibili in alcune figure
del ciclo di Molini, come la
S. Caterina,
divengono molto più esplicite nell'elegante pittore che realizzò nella
cappella di
S. Bernardo delle Forche a
Mondovì Ferrone attorno al 1430
(come giustamente argomentato da Massimo Bartoletti) il lunettone absidale e la
S. Anna Metterza con S. Caterina
sulla parete sinistra. Tale maestro si distingue per un disegno assai
sorvegliato e minuzioso (si veda in particolare il
Cristo Crocifisso, con il perizoma animato da sottilissime pieghe,
che ricorda l'analogo dettaglio del
Battesimo
di Rufino a Villanova), rielaborando con sensibilità ben maggiore rispetto ad
Antonio i modelli liguri-toscani dell'inizio del secolo, specie di Taddeo di
Bartolo. Gli affreschi di Mondovì Ferrone sono da accostare al ciclo ligure del
S. Nicolò di
Bardineto, di poco più tardo, anch'esso caratterizzato da un gusto
decorativo e calligrafico, ma con fisionomie più pungenti ed entrambi
anticipano inoltre soluzioni adottate nel
Giudizio
Finale dell'abside del
S. Giorgio di
Campochiesa (presso Albenga), datato
al 1446 e probabile opera di un pittore monregalese, in cui certe
semplificazioni formali ricordano anche Antonio da Monteregale e precorrono la
maniera di alcune opere avvicinabili alla giovinezza di Segurano Cigna, come la
Madonna di Misericordia di Montanera.
Gli anni Quaranta segnano il momento di massima espansione del linguaggio
monregalese in Liguria che giunse, oltre che nel vicino Finale (si pensi ai bei
pilastrini con sei
Santi provenienti
dal S. Eusebio di Perti, ora a Finalborgo, che riflettono uno stile affine ad
Antonio ma memore, si direbbe, anche delle raffinatezze del Maestro di
Lavagnola), anche a Genova, dove nel 1444 è attestato il pittore
Raimondo di Mondovì (di cui non si
conoscono opere) e addirittura nel Levante, come dimostra la lunetta con la
Madonna tra Santi del S. Andrea di
Levanto. Anche la
Madonna della Colonna nel
duomo di Savona e un'altra
Madonna col
Bambino frammentaria nel chiostro del medesimo complesso richiamano i
modelli discesi da Antonio monregalese, tanto che si è evocato a loro proposito
il nome di
Lodisio d'Embruno da Mondovì,
noto per documenti savonesi come pittore di stemmi tra il 1457 e il 1465. Gli scambi
tra i due versanti delle Alpi Marittime era dunque fitti e continui, tanto da
poter parlare dell'esistenza di una vera e propria
koinè ligure-monregalese, non priva anche d'ascendenze lombarde,
come rivelano problematicamente le affinità di molte opere di questo territorio
(come il ciclo di Campochiesa o alcune soluzioni di Antonio "de Montisregalis"
e di Segurano Cigna) con gli affreschi dell'arcone d'accesso e della volta
della Cappella di Teodolinda nel duomo di Monza (databili prima del 1444).
Un esempio caratteristico di tale comunanza di
modelli sono le analogie iconografiche e in parte anche formali tra tre
redazioni del tema, squisitamente cortese, del
Combattimento di S. Giorgio col drago alla presenza della Principessa,
presenti a Bardineto, nel
S. Giorgio
di
Cigliè e nel
S. Giorgio di
Peveragno,
non lontane, in quanto a sensibilità, dalla tela realizzata da Luchino da
Milano nel 1444 per il Banco di S. Giorgio a Genova. Nei primi due casi in
particolare (il terzo è stato purtroppo mutilato da un furto) vi sono
somiglianze sorprendenti, ma non identità di mano; l'esemplare di Cigliè è di
ottima fattura, specie nella delicatezza del volto della Principessa. Questi
dipinti dimostrano come nel secondo quarto del Quattrocento la facile vulgata
di Antonio monregalese, per quanto egemone, non fosse tuttavia esclusiva e
altre personalità, più sensibili alle eleganze tardogotiche, riuscissero
comunque ad inserirsi nel mercato locale, specie nel Marchesato di Ceva e
nell'area di S. Michele Mondovì. L'autore del finto trittico nella
S. Elena di
Torre Mondovì, con la
Madonna
in trono tra i SS. Elena e Giovanni Battista, rivela ad esempio una
freschezza ben maggiore rispetto ad Antonio nell'accostarsi ai prototipi
liguri-toscani del primo quarto del secolo, specie a Giovanni da Pisa, forse
anche grazie alla mediazione del pittore della
Madonna e dei
SS. Bartolomeo
e
Eleazario nel S. Nazario di Lesegno
già citato. Lo stesso
Frater Henricus,
che firma il ciclo del S. Bernardo di Piozzo nel 1451 (e a cui si può attribuire
anche la decorazione del S. Nicola di Farigliano, per evidenti affinità, ad
esempio nella scena del
Martirio di S.
Sebastiano) è un interprete piuttosto autonomo della cultura di Antonio,
dal quale si distingue per una maggiore insistenza grafica e lineare e per la
ricerca luministica del trono della
Vergine
di Piozzo.
Più diretta è invece la dipendenza di
Segurano Cigna dall'esempio di Antonio
da Monteregale, tanto è vero che un'opera tradizionalmente collegata ad
Antonio, gli affreschi del S. Maurizio di Castelnuovo Ceva, datati al 1459,
sono stati in tempi recenti convincentemente avvicinati alla giovinezza di
Segurano, in base ai riscontri con le
Storie
della Passione già nella chiesa di S. Maria Maddalena a Cerisola (ora nel
municipio di Garessio), delle quali è noto il contratto del 1461 che obbligava
il maestro a "pingere bene, legaliter et suficienter de azuro fino de alemagna
et cinapro fino...". Il Cigna, anch'egli di Mondovì (dov'è documentato tra il
1454 e il 1464 e nuovamente nel 1478, per affreschi in S. Francesco e nel 1480
per un'ancona, entrambi perduti) era del resto già attivo nel 1454, quando
firmava due tavole (attualmente irreperibili) nel S. Biagio di Pamparato e
nella parrocchiale di Roburent e lo ritroviamo nel 1478 a Prunetto, ai confini
delle Langhe, nella navata sinistra della Madonna del Carmine (dove la
Crocifissione s'apparenta strettamente a
quella di Castelnuovo) e nel 1482 nel S. Bernardo di Pamparato, dove decora
l'abside ed esegue
Storie di S. Bernardo
(segnate da "tituli" in lingua volgare).
La
Madonna
tra Santi di Pamparato trova dei precedenti nel finto trittico della
parrocchiale di Vicoforte Fiamenga e in quello al centro della cappella con
Storie di S. Sebastiano nell'antica
parrocchiale di Villanova Mondovì (datate al 1469) ed è inoltre assai prossima
alla delicata
Madonna allattante con S.
Maurizio nel S. Maurizio di Roccaforte Mondovì (datata al 1486). Segurano
era dunque attivo in un'area abbastanza ampia, che comprendeva anche Fossano,
dove dipinse nel 1471 un
Beato Oddino
Barotto nella chiesa di S. Giorgio (ora perduto) e non è forse un caso che
la
S. Chiara del medesimo edificio
riveli palesi caratteri monregalesi, prossimi soprattutto alla sua maniera. La
ripetuta documentazione di Segurano quale autore di pale d'altare richiama alla
mente un
Polittico con Santi Francescani
d'ubicazione ignota, attribuito dalla Rossetti Brezzi ad Antonio da
Monteregale, databile dopo il 1450 per la presenza di S. Bernardino da Siena e
in cui si colgono echi del linguaggio del Cigna e di Frater Henricus.
Il ciclo di Castelnuovo Ceva (non privo, a dispetto
dell'esecuzione un po' corsiva, di modelli abbastanza aggiornati negli
Evangelisti e Dottori della Chiesa sulla
volta) è stato accostato dal Bartoletti, oltre che ai dipinti di Cerisola,
anche alla decorazione più antica della chiesa della Madonna Lunga a Montanera,
nei pressi di Cuneo, con una
Madonna di
Misericordia, una teoria di
Apostoli e
un
Cristo Giudice tra
Santi intercessori (ora nel sottotetto),
rilevando una comune derivazione di questo gruppo dal maestro della cappella di
S. Croce a
Mondovì Piazza. Questo ciclo è la più importante manifestazione
dello stile monregalese attorno alla metà del Quattrocento, con ricordi di
Antonio ma una fattura più raffinata e aperta a suggestioni provenzali e
"mediterranee" per la gamma cromatica luminosa e lo studio delle ombre portate.
L'importanza di questi affreschi è accentuata dalla loro singolarità
iconografica, specie per l'allegoria della
Croce
brachiale che incorona la Chiesa e pugnala la Sinagoga (soggetto noto per
la versione di Giovanni da Modena nel duomo di Bologna).
L'altro protagonista del secondo Quattrocento nel
Monregalese, accanto a Segurano Cigna, è
Giovanni
Mazzucco, anch'egli epigono della corrente popolaresca inaugurata da
"Anthonius de Montisregalis". Ma mentre Segurano dà una lettura piana e serena
del linguaggio di Antonio, Giovanni ne accentua la componente più
espressionista. Mazzucco è noto con certezza a partire dal 1475, quando già era
in età da mandare il figlio Domenico a bottega dal pittore Roux ad
Aix-en-Provence (notizia d'ovvio interesse anche perché apre uno spiraglio sui
rapporti tra il Monregalese e la Provenza) il che vuol dire che doveva avere
almeno una quarantina d'anni ed essersi formato dunque attorno alla metà del
Quattrocento, come conferma peraltro il suo linguaggio (e ciò indipendentemente
dalla sua eventuale identificazione col Giovanni Mazzucco che funge da teste
nel 1452 in un contratto stipulato dall'enigmatico
Ottobono "
de Xorano", pittore di cui si ritiene
plausibile una provenienza dalla Maremma toscana). Le opere sicure di Giovanni
si scalano però solo tra il 1481, quando firma il ciclo dell'oratorio del S.
Sepolcro di Piozzo (al quale è assai prossima la
Madonna col Bambino tra S. Antonio Abate e il Battista nel S.
Antonio di S. Michele Mondovì) e il 1491, in cui sigla la decorazione del
santuario della Madonna del Brichetto a Morozzo. In mezzo si pongono la
Madonna tra i SS. Pietro e Antonio Abate nella
cappella di S. Pietro in Roncaglia a Bene Vagienna (1485, non firmata), gli
affreschi dell'antica cappella dell'ex convento di Domenicani di Peveragno
(1487, in cui è ancora leggibile la firma "Mazuchi"), accostabili per
iconografia (gustose scene di vita agreste a margine di temi religiosi) a
quelli dell'ex convento domenicano della frazione Bertini di Roccaforte Mondovì
e infine il ciclo del S. Bernardo di Castelletto Stura, del 1488, dov'è forse
prevalente un'esecuzione di bottega. Il suo stile è però già percepibile in una
serie di affreschi anteriori, di più alta qualità e compresi entro l'ottavo
decennio del secolo, in cui forse è da individuare la sua attività giovanile,
ovvero la
Madonna nel santuario del
Pasco a Villanova Mondovì e alcune opere nel territorio di S. Michele Mondovì,
la
Vergine col Bambino della Madonna
di Guarene, una teoria di
Santi sotto
archetti nel S. Bernardino, gli affreschi della
Madonna della Neve a
Pian
della Gatta e infine quelli della navata e della controfacciata del
S. Fiorenzo di
Bastia Mondovì e la
Crocifissione
nell'antica sacrestia della parrocchiale di Niella Tanaro.
Riguardo agli ultimi tre cicli, le osservazioni più
pertinenti rimangono quelle della Galante Garrone che riconosce nella corrente
Niella - Pian della Gatta - Bastia l'inizio delle "fisionomie bonarie e
innocenti di Giovanni Mazzucco". E' sorprendente in particolare l'affinità fra
le tre versioni della
Crocifissione di
Niella, S. Michele Mondovì e della navata di Bastia, ancora memori, per
l'insistenza sulle deformazioni espressive volutamente anti-graziose,
dell'esempio del
Calvario di Antonio
a Molini. E' inoltre palese l'analogia tra le rappresentazioni dell'
Inferno e del
Paradiso di S. Michele Mondovì e di Bastia e numerosi sono i
confronti possibili con le opere certe di Mazzucco. Nella navata di Bastia sono
peraltro evidenti degli scarti stilistici e qualitativi, che sconsigliano di
parlare
in toto di un'autografia
mazzucchesca. Tali affreschi, databili attorno al settimo decennio del secolo
(tenendo presente il punto fermo del 1472 che riguarda con sicurezza solo le
Storie di S. Antonio della parete
sinistra) sono inoltre da distinguere da quelli dell'abside, più antichi e
opera di due artisti diversi, uno prossimo al "
Maestro di S. Quintino" (un pittore vicino a Frater Henricus che
lavorò nel S. Quintino di Mondovì, a cui appartiene anche un riquadro con tre
Santi nella navata sinistra della
parrocchiale di Mondovì Breolungi), a cui spettano le figurazioni dell'arco
trionfale, della volta e della parete di fondo, tranne la
Crocifissione che si deve invece ad un maestro affine a Segurano
Cigna. Il ciclo di Bastia si conferma dunque come un'espressione emblematica e
riassuntiva della cultura monregalese del terzo quarto del secolo, anche grazie
alla sua eccezionale estensione.
Un'altra personalità di rilievo nel panorama
monregalese del secondo Quattrocento è il "
Maestro
di S. Agostino a Saliceto", a cui fa capo una serie di affreschi a Saliceto
(nell'ex confraternita di S. Agostino e nella cappella dei SS. Gervasio e
Protasio) e a Ceva (nella cappella della Guardia), affini anche ad altri di
Carrù (una
Madonna col Bambino nella
cascina Marchesa e la decorazione di un salone al secondo piano del castello
dei Costa, con volti femminili e maschili entro corone vegetali, compresi in un
fregio con girali fitomorfi, raro esempio d'arte profana sopravvissuto nel
Cuneese) e a un riquadro con i
SS.
Fabiano, Sebastiano e Rocco nel S. Giorgio di Campochiesa, presso Albenga
(datato al 1478). Prossimo ai modi di questo pittore è anche un affresco con la
Madonna col Bambino e il Cristo di Pietà
staccato da un edificio di Millesimo e ora conservato in S. Maria
extra muros. Al Maestro di Saliceto è
stato attribuito anche un polittico con il
Martirio
di S. Sebastiano tra i
SS. Giovanni
Battista e Bernardino del Museo di Belle Arti di Budapest, che rivela una
fattura più raffinata ed è forse più antico (1475 c.) rispetto agli affreschi
noti. Il Maestro di Saliceto è pienamente inserito nella tradizione suscitata
da Antonio monregalese e trova affinità con Segurano Cigna e anche col
Mazzucco, ma soprattutto col
Maestro di
Lignera (autore di un ciclo d'affreschi nel S. Martino di Lignera, frazione
di Saliceto, confrontabile coi
SS. Rocco,
Anastasia e Romeo nella cappella di S. Anastasia a Sale S. Giovanni, datati
al 1493), attivo ormai sullo scadere del secolo, che era forse un suo
collaboratore o discepolo. Prossimo al Maestro di Saliceto è anche il
Maestro di Roccaverano, attivo specie
lungo le valli della Bormida di Millesimo e della Bormida di Spigno, a
Murialdo, Calizzano, Roccaverano (post 1481), Millesimo e a S. Dalmazzo di
Monticello, presso Finalborgo. Si tratta di una personalità singolare, che
unisce elementi di tradizione monregalese ad altri affini ai pittori attivi nel
Ponente come Baleison, Canavesio e i Biazaci e si distingue per un insistito
grafismo, specie nel ciclo di Roccaverano.
Ma fra tutti gli artisti conosciuti o anonimi del
secondo Quattrocento monregalese, nessuno eguaglia la qualità del
Maestro di Rocca de' Baldi, autore di
un ciclo di affreschi nella cappella della Crocetta di questa località e di una
Madonna col Bambino staccata dalla
cappella di S. Pietro nella frazione Madonna dei Boschi di Peveragno e ora a
Cuneo, nella sede dell'Amministrazione Provinciale. La presenza di un graffito
sulla parete sinistra a Rocca de' Baldi, con l'iscrizione "MCCCCLX[...]" consente
di datare questo ciclo entro l'inizio degli anni Sessanta, epoca a cui risale
anche la
Vergine già a Peveragno.
Questa precocità accentua l'importanza del pittore, squisito per l'eleganza del
disegno flessuoso, ancora di memoria gotica come la preziosità dei colori
vivaci e le minuzie descrittive, ma che sembra già avvertire il sentore delle
novità proto-rinascimentali nelle figure degli
Angeli musicanti. Un maestro dall'orizzonte culturale assai ampio,
che dovette conoscere importanti manifestazioni del Tardo Gotico francese e
lombardo, forse per mediazione ligure (del resto le ali di pavone dell'angelo
dell'
Arcangelo Michele possono
richiamare l'analogo dettaglio dell'
Annunciazione
di Giusto di Ravensburg a Genova, del 1451) ed è da accostare ad opere come
il
S. Giorgio e la Principessa di
Cigliè, la
Madonna di Canale d'Alba
(di cui si parlerà tra breve) e la prima produzione del Baleison e dei Biazaci.
Volgendo lo sguardo verso l'Albese, incontriamo
anche qui opere di cultura monregalese, come il ciclo nell'ex oratorio di
S. Michele a
Serravalle Langhe, prossimo alla maniera di Frater Henricus e di
Segurano e databile attorno al sesto decennio, a cui si può accostare una
S. Maddalena nel
S. Domenico di
Alba, più
tarda e di qualità inferiore; i sedili degli
Evangelisti richiamano inoltre quelli sulla volta della Cappella di
Teodolinda a Monza (specie quello del
S.
Anastasio), invitando a riflettere sul ruolo dell'Albese come possibile
tramite tra il Cuneese e la Lombardia (da aggiungere alla più ovvio
intermediazione della Liguria). Rapporti con l'area lombarda, facilitati dai
contatti col Marchesato Paleologo, sono del resto testimoniati dal coro
eseguito nel 1429 dal pavese Urbanino da Surso per il S. Francesco di Alba (di
cui sopravvivono alcuni frammenti rimontati in un bancone della chiesa di S.
Giovanni), autore assieme al figlio Baldino di una serie di
Crocifissi lignei (fra i quali
interessano il nostro territorio quelli del cimitero di Carmagnola e quello del
duomo di Saluzzo) e dagli affreschi della cappella al fondo della navata
sinistra nella chiesa albese di S. Domenico (con un
Martirio di S. Sebastiano e un
S.
Benedetto) che rimandano alla cultura tardogotica lombarda della prima metà
del Quattrocento, ancora fiorente nel terzo quarto del secolo sia in Lombardia
che in territorio ora piemontesi, quali il Novarese e l'Alessandrino. Vengono
alla mente le notizie circa un "Johannes de Grassis de Mediolano" testimoniato
ad Alba, secondo il Vernazza, tra il 1434 e il 1466, ma anche l'attività di
Cristoforo Moretti a Casale tra il 1467 e il 1474. Questi affreschi si
sovrappongono alla parte inferiore di due dipinti dell'inizio del Quattrocento,
una
S. Caterina da Siena e un
Beato Pietro da Lussemburgo di ottima
fattura, che rimandano a suggestioni sia lombarde che provenzali, forse mediate
dalla stessa Liguria, con la quale Alba intrattenne importanti scambi sin dal
Trecento. All'arrivo di diverse tavole di Barnaba da Modena, corrispose infatti
la discesa a Genova degli albesi Pietro Gallo (al quale è stato possibile
restituire in tempi recenti un piccolo retablo firmato, ora al Museo Civico di
Torino) e Giovanni David. Più avanti nel Quattrocento è da ricordare il
Crocifisso della chiesa di S. Caterina
ad Alba, vicino ad altri liguri e la probabile (e oltremodo affascinante)
identificazione di un dittico appartenuto alla beata Margherita di Savoia,
conservato fino alle soppressioni napoleoniche nel convento albese della Maddalena
e firmato "opus Donati" (e ora purtroppo perduto), come di un'opera del pavese
Donato de Bardi, attivo tra Genova e Savona. In direzione ligure può invitare a
indirizzarsi anche la singolare
Annunciazione
nel sottotetto del santuario della
Madonna
dei Boschi a
Vezza d'Alba, dove i nordicismi
dell'angelo, dalle chiome a boccoli e dalle ali a piume di pavone, potrebbero
dipendere anche dall'
Annunciazione di
Giusto a Genova già ricordata, ma richiamano altresì la notizia dell'attività
del pittore "
Sprechner" o
"Sprech", che eseguì nel 1450 gli
Evangelisti nel coro notturno di S.
Francesco ad Alba (chiesa andata distrutta) e che era forse veramente "tedesco"
come lo ritenevano le fonti settecentesche. Lascia ad ogni modo perplessi la
datazione post 1475 proposta da Elena Ciarli per l'
Annunciazione di Vezza, in base ai rapporti con la committenza dei
Roero. Altra opera problematica ma seducente è la tela con la
Madonna della Misericordia ora nella
cappella della
Madonna degli Angeli fuori Alba, ma proveniente forse
da una chiesa domenicana della città, dove probabilmente fungeva in origine da
stendardo professionale. Il dipinto unisce retaggi tardogotici a minuziosità di
matrice nordica, forse derivanti dall'ambito ligure-nizzardo, che sembrano
anticipare certi caratteri del ciclo di S. Vittoria d'Alba. Ad un contesto più
famigliare rimandano invece le testimonianze sull'operato di Giorgio Turcotto,
già ricordate (ad Alba e Sommariva Perno) e la
Vergine col Bambino affrescata nell'abside del santuario della
Madonna di Loreto a
Canale d'Alba (del 1460-1470 c.), che
si riallaccia per iconografia e stile a modelli di Giovanni Baleison (ad
esempio la sua
Madonna nel santuario
della Madonna dei Boschi di Peveragno), ma anche di ambito monregalese, quali
la
Principessa di Cigliè, per la
delicatezza e la discreta plasticità del volto, che richiama anche delle opere
dei Biazaci quali la
Vergine di
Sampeyre e la
Maddalena di Caraglio.
Veniamo adesso ad analizzare il percorso del
Baleison e dei Biazaci, che presenta molti punti in comune, al punto che di
alcune opere non è sicura l'attribuzione all'uno o all'altro
atelier.
Giovanni Baleison era originario di Demonte, in Valle Stura e ciò
spiega in parte la natura del suo stile, che evidenzia strette connessioni con
la cultura diffusa nella parte meridionale della provincia di Cuneo, dominata
dai modelli elaborati tra Mondovì e Ceva. Sembra in particolare che per la sua
formazione siano state importanti figure come il Maestro di S. Bernardo a
Fossano, il Maestro di S. Croce a Mondovì Piazza e il Maestro di Bardineto,
come mostrano i più antichi dipinti a lui assegnabili che sono probabilmente
(nonostante recenti tentativi di postdatarli) gli affreschi dell'abside del
santuario di Notre-Dame-des-Fontaines a Briga, nell'entroterra nizzardo,
collocabili nel sesto decennio del Quattrocento. E' palese ad esempio
l'affinità tra la
Madonna assunta di
La Brigue e la
Vergine del S.
Bernardo di Fossano, mentre in altri personaggi di questo ciclo e di tutta la
sua produzione successiva si trovano mescolati tratti di sottile e raffinata
dolcezza (come nel
S. Giovanni
Evangelista della volta brigasca) ad altri più aspri e popolareschi, come
nel
S. Tommaso nelle varie scene
mariane.
Altra opera precoce è la decorazione della cappella nel Palazzo
Vescovile di Albenga (per la quale non sono condivisibili i dubbi attributivi
avanzati dalla critica ligure), situabile con certezza tra il 1459 e il 1466,
che segna un momento di singolare felicità dello stile del Baleison, in cui
s'accentua la luminosità "mediterranea" già presente a Briga e alcuni panneggi
e fisionomie si fanno più taglienti, forse per l'influsso di
Giovanni Canavesio, noto con sicurezza a partire dal 1472 proprio ad
Albenga, ma che quasi certamente era già attivo da una ventina d'anni e ben
informato sulle vicende della pittura nizzardo-provenzale del tempo,
in primis su Giacomo Durandi. Nella sua
produzione giovanile si collocano anche la
Vergine
nel santuario di Peveragno già citata e la decorazione del S. Grato di Lucéram,
che rivela maggiori residui tardogotici rispetto al ciclo ingauno (la
S. Caterina d'Alessandria s'ispira ad
esempio all'analoga figura di Bardineto). Attorno al 1470 cade la sua
collaborazione con Canavesio agli affreschi del S. Sebastiano di
Saint-Etienne-de-Tinée, che segna il momento di massima adesione del demontese
alla maniera "provenzale". Di livello più modesto sono invece i suoi interventi
nella cappella di Notre-Dame de Bon Coeur a Lucéram e del S. Sebastiano di
Marmora, assai prossimi e databili verosimilmente negli anni Settanta (essendo
impossibile, per motivo stilistici, situare gli affreschi marmoresi, che sono
firmati, subito dopo l'edificazione della chiesetta nel 1450). Nel corso di
questo decennio s'inserisce anche la decorazione della cosiddetta "cappella
angioina" nella parrocchiale di Borgo S. Dalmazzo, di cui sopravvivono scarsi
lacerti, che sono sostanzialmente estranei ai Biazaci, ai quali sono stati pure
accostati. L'autorità acquisita dalla maniera del Baleison a queste date è
provata dalla sua influenza sul maestro anonimo che eseguì in
S. Maria della Pieve a
Beinette una
Madonna tra Santi nell'abside e un
S. Cristoforo nella navata, personalità
di notevole rilievo, partita probabilmente da una formazione monregalese
(nell'orbita del Maestro di S. Quintino) e suggestionata nel corso dell'ottavo
decennio, quando appunto si datano questi affreschi, dalle contemporanee
realizzazioni di Baleison e dei Biazaci (ai quali pure la
Madonna di Beinette è stata recentemente attribuita, senza fondamento).
Anche le
Storie di S. Martino sulla controfacciata della
parrocchiale di
Ormea risentono dello stile di Baleison e del Canavesio attorno
agli anni Settanta (e a questo proposito è importante ricordare che il prete
pinerolese realizzò degli affreschi nel S. Bartolomeo di Sambuco nel 1481,
andati perduti). La fase matura dello stile di Baleison si chiude col ciclo di
Nostra Signora del Poggio a Saorge, sicuramente precedente a quello del S.
Sebastiano di Venanson, datato al 1481 e firmato come gli affreschi del S.
Sebastiano di Celle Macra (1484) e la
Madonna
all'esterno di un edificio a Stroppo Bassura (siglata nel 1486 dal monogramma
del demontese). In queste opere tarde il linguaggio di Baleison s'irrigidisce
ma non perde la luminosità e la piacevolezza della sua produzione precedente.
In parte simile a quella del Baleison è la vicenda
dei fratelli
Tommaso e
Matteo Biazaci da Busca, anche loro
attivi tra il Cuneese e l'area costiera, ma nel territorio compreso tra Albenga
e Imperia. La prima opera firmata di Tommaso, che probabilmente era la
personalità di maggior spessore, è la decorazione della parete destra esterna
della parrocchiale di Marmora, datata al 1459, in cui il artista rivela scarsi
legami con la cultura saluzzese e aperture invece verso il Monregalese ma
soprattutto in direzione ligure-nizzarda. In particolare figure come il
Beato cardinale e il
S. Francesco stigmatizzato, per la resa
realistica dei panneggi, fanno supporre un precoce contatto col già menzionato
Giacomo Durandi, pittore di Nizza
documentato tra il 1443 e il 1469 in un'area inclusa tra Taggia e la Provenza,
in alcuni casi insieme al fratello Cristoforo che gli sopravvisse (è ancora
testimoniato ad Aix nel 1471).
Durandi fu fondamentale per l'aggiornamento
della pittura nizzarda e ligure-piemontese sui risultati della cultura
provenzale dei decenni centrali del Quattrocento, incarnata specie da Quarton e
influì su artisti significativi come Canavesio, il Maestro di Briançon (legato
ai Serra), i Biazaci e in modo minore sul Baleison, ognuno dei quali elaborò il
suo esempio con una diversa sensibilità. Assai prossimo agli affreschi di
Marmora è il ciclo del S. Pietro di Macra, firmato da Tommaso, non privo di
scarti qualitativi forse imputabili ad interventi di bottega. Un passo
successivo rispetto a Marmora e Macra è costituito dalla vela nel S. Giovanni
vecchio di Savigliano, al di sopra della lunetta affrescata da Pietro
Pocapaglia; entrambe le opere sono databili alla seconda metà degli anni
Sessanta, quando Tommaso sembra peraltro essere documentato a Savigliano (tra
il 1465 e il 1467) per la decorazione della torre dell'orologio e l'esecuzione
degli apparati in occasione della visita di Amedeo IX in città. Specie lo
splendido
Cristo in mandorla si pone
in parallelo alle esperienze di Durandi situabili nel settimo decennio,
soprattutto al
Polittico di S. Giovanni
Battista, proveniente da Lucéram (e ora a Nizza). E' impossibile perciò
accettare un'esecuzione ante 1454, basata sulla data proposta da Turletti per
l'inversione della chiesa, la quale è frutto di una sua pura congettura, visto
che in quell'anno si sa semplicemente che ci furono dei notevoli lavori
nell'edificio, ma non è certa la loro natura. In quegli anni i Biazaci
realizzarono anche una
Pietà
all'esterno del S. Giuliano di Savigliano, aggiornata su modelli nordici, forse
grazie ai contatti con pittori provenienti dal Pinerolese, senza escludere
anche rapporti con opere scultoree (come la
Pietà
della collegiata di Ceva). Attorno al 1470-1475 la maniera dei Biazaci raggiunse
l'apice del suo splendore, testimoniato dagli affreschi del S. Giovanni di
Caraglio, della prima cappella a sinistra della parrocchiale di Sampeyre, della
cappella dell'Annunziata a Valmala e di un ambiente attiguo al santuario degli
Angeli a Cuneo. La loro fonte d'ispirazione è ancora la maniera tarda di
Durandi, che segna vistosamente figure come la
S. Orsola e la
Maddalena
di Caraglio e la
S. Lucia sampeyrese;
impossibile è perciò accettare la datazione al 1490 avanzata da Elisa Cottura
ed Elena Romanello per il ciclo di Caraglio, che vizia completamente la loro
ricostruzione dell'
iter biazaceo. Gli
affreschi di Valmala e di Cuneo annunciano già il linguaggio dispiegato dai
Biazaci in Liguria, dove sono documentati a partire dal 1474 nel S. Bernardino
d'Albenga, per affreschi e una pala ora perduti. Questa fase precoce della loro
attività ligure è però riflessa dall'
Annunciazione
che sovrasta una
Madonna tra Santi
nell'oratorio di S. Croce a Diano Castello, prossime anche alla tavola con la
Madonna col Bambino firmata da Tommaso
nel 1478, scomparto centrale di un polittico già in S. Maria
in fontibus ad Albenga, che mostra un
cauto avvicinamento del pittore buschese ai modi del Rinascimento
ligure-lombardo, specie al Mazone. Nel 1483 i Biazaci terminarono gli affreschi
della parete destra del S. Bernardino di Albenga e della navata sinistra del
santuario di Montegrazie, dove intervennero poco dopo anche con le
Storie del Battista nell'abside attigua.
Si tratta dei cicli di maggior impegno dei fratelli piemontesi, che evidenziano
una progressiva evoluzione della loro maniera, che pur conservando i colori
brillanti cari alla "pittura di luce" ligure-nizzarda, ricerca ora un fare più
sintetico e monumentale, forse influenzato dai modelli rinascimentali a cui si
erano accostati durante la loro frequentazione dell'area costiera.
Questa tendenza s'esprime compiutamente nel cicli dell'abside maggiore (1488, firmata
da Tommaso) e di quella destra (1490) della parrocchiale di Piani d'Imperia. In
questi anni i Biazaci eseguirono anche delle opere su tavola, fra cui sono da
ricordare in particolare un trittico nei depositi di Palazzo Bianco (1490,
erroneamente attribuito a Pietro Guido), assai vicino agli affreschi di Piani,
come pure il più debole e probabilmente posteriore polittico con la
Madonna tra Santi ora a Rensselaer
(U.S.A.), mentre assai più precoce, attorno al 1480, si situa il bel
Trittico di S. Sebastiano d'ubicazione
ignota. Negli anni Ottanta i Biazaci furono attivi anche in patria, come
dimostrano in particolare gli affreschi del S. Sebastiano di Busca,
confrontabili con quelli di Montegrazie e Piani. Più tardi invece sono i
dipinti della facciata dell'Ospizio della Trinità a Valgrana e del S. Stefano
di Busca, collocabili attorno alla prima metà degli anni Novanta; specie nel
secondo ciclo si nota ormai una stanchezza esecutiva, ignota invece ancora in
alcuni affreschi conservati nella Villa Bafile di Busca, già convento
francescano di S. Maria degli Angeli, che ritengo attribuibili ai Biazaci all'inizio
dell'ultimo decennio del secolo. L'estremo approdo della loro maniera è la
decorazione della parrocchiale di Casteldelfino, firmata da Tommaso nel 1504,
che ricupera stancamente le invenzioni precedenti.
Punti di contatto coi Biazaci mostra il "
Maestro del Polittico di Boston",
autore del retablo con la
Madonna della
cintola tra Santi ora all'Isabella Stewart Gardner Museum di Boston e di un
pentittico nella Galleria Sabauda di Torino con un
Santo guerriero tra Santi. Si tratta di una personalità interessante,
che mescola elementi culturali monregalesi (territorio dal quale era forse
proveniente), nizzardi e liguri-piemontesi, legati specie al Canavesio e ai
Biazaci. Tale pittore dovette essere attivo attorno al nono decennio del
Quattrocento (stando alle due opere che gli sono attribuite) e lavorare
probabilmente anche in Liguria, come lasciano supporre anche certe affinità che
il suo stile possiede con alcuni affreschi anonimi del tardo Quattrocento, come
il ciclo dell'oratorio di S. Bernardo a Rezzo e le
Storie del Battista nel S. Fedele di Albenga.
Vediamo adesso cosa accade alla fine del
Quattrocento nelle tre aree culturali finora individuate (Monregalese,
Saluzzese e Albese). Nel Monregalese la personalità più affascinante è quella
del "
Primo Maestro della Madonna dei
Boschi di Boves", a capo di un
atelier
attivo tra gli ultimi decenni del Quattro e l'inizio del Cinquecento tra il
Cuneese e il Ponente ligure. La sua opera più vasta è il ciclo con le
Storie della Vergine e dell'Infanzia di
Cristo nel santuario di S. Maria dei Boschi a Boves, al quale si può
accostare la decorazione della seconda cappella a sinistra nell'antica
parrocchiale di Villanova Mondovì, con
Storie
di Anna e Gioacchino e una frammentaria
Madonna
della Misericordia, la cui qualità è più elevata, ma non al punto da
giustificare una diversità di mano come ipotizzato dalla Galante Garrone. Le
altre opere assegnabili a questa bottega sono per lo più immagini devozionali
della
Vergine col Bambino tra Santi,
presenti nel santuario della Madonna delle Grazie di S. Benigno di Cuneo, nella
"Madonna Lunga" di Montanera, nella Madonna dell'Acqua Dolce a Monesiglio e
nell'ex parrocchiale di Verzuolo, a cui si possono avvicinare due polittici
liguri, più tardi, già collocabili all'inizio del Cinquecento, conservati nelle
parrocchiali di Moltedo e di Vasia, nell'Imperiese, dove gli si devono anche
gli affreschi frammentari della cappella del SS. Salvatore a Castellaro, presso
Taggia (si confronti la
Natività con
quella di Boves, mentre il
S. Antonio
Abate dell'attigua
Sacra
Conversazione sembra ricavato dallo stesso cartone, rovesciato, che servì
per l'analoga figura di Monesiglio). A Cuneo gli spettano anche un
S. Francesco con angeli che reggono un
baldacchino, lacerto di una più ampia composizione nella seconda campata a
sinistra della chiesa di S. Francesco e inoltre un'
Allegoria della Croce Brachiale presso un'abitazione privata, che
riprende il modello di S. Croce a Mondovì. L'addensarsi di testimonianze tra
Mondovì e Cuneo e i caratteri stilistici del pittore, che paiono distillare il
meglio della tradizione figurativa monregalese, nonché l'impostazione
iconografica delle sue
Madonne col
Bambino, in debito con la produzione tarda di Segurano Cigna (si veda la
Vergine di Pamparato), rendono
plausibile una provenienza del maestro da quest'area. L'artista dimostra
tuttavia di conoscere anche la maniera dei Biazaci, del Canavesio e di Baleison
e, più in generale, s'inserisce appieno nella temperie ligure-piemontese e
nizzarda più aperta alle suggestioni "mediterranee", per i colori delicati, la
ricerca d'effetti luministici e il gusto per gli ampi paesaggi. Nel pittore
s'avvertono anche dei tentativi di cauto aggiornamento in direzione
rinascimentale, nell'impianto architettonico di certi scene di Boves prima
ancora che nel polittico di Vasia. Assai prossimo al Primo Maestro di Boves ma,
a mio avviso, da distinguere dalla sua figura è il "
Maestro di S. Bernulfo", autore di un finto polittico con la
Madonna tra i SS. Donato e Bernulfo, nella
cappella omonima di Mondovì e alla cui maniera sono prossimi una
Madonna tra due Santi cavalieri e un
S. Sebastiano tra due Madonne (singolare
iconografia, che richiama, anche per stile, la simile rappresentazione nel
santuario del Brichetto a Morozzo) nel S. Sebastiano di S. Michele Mondovì e
inoltre la gigantesca
Madonna della
Misericordia (specie nella zona dei fedeli, mentre il volto della
Vergine, più delicato e maturo, potrebbe
appartenere ad un'altra mano, o ad una ridipintura posteriore) e due riquadri sottostanti
con il
Cristo Risorto e i
SS. Caterina e Giacomo che presentano il
committente Francesco Iessellini, signore di Beinette, nell'abside di S.
Maria della Pieve a Beinette, al di sopra della
Sacra Conversazione di cui si è già parlato. Il Maestro di S.
Bernulfo si differenzia da quello di Boves per un segno più rigido e per un più
acuto senso ritrattistico, a tratti caricaturale; è possibile che fosse un
discepolo o collaboratore dell'anonimo bovesano, visto che proprio nel ciclo
della Madonna dei Boschi (in particolare nella
Fuga in Egitto) s'avverte talora quel disegno più grezzo che
preannuncia il dipinto di S. Bernulfo, nel quale si colgono anche dei richiami
al finto polittico proveniente da Buretto, ora a Fossano, prossimo a Bartolomeo
Debanis. Non convince comunque l'ipotesi di Vittorio Natale d'identificare i
pittori di S. Bernulfo e dell'altro gruppo affine coi fratelli De Rogeriis di
Venasca, ai quali vennero commissionate quattro pale a Ventimiglia tra il 1506
e il 1508, ora perdute; è assai più pertinente infatti la proposta di
Bartoletti di collegare i medesimi fratelli piemontesi con un gruppo di opere
d'area nizzarda radunate attorno al
Polittico
di Soldano, perché s'adegua meglio all'ambito geografico, culturale e
cronologico che traspare dai dati d'archivio relativi ai De Rogeriis. Di
conseguenza, per evitare confusioni, si è abbandonata anche la dicitura di
"Bottega di Vasia" coniata da Natale (a cui va comunque il merito d'aver per
primo connesso le tavole liguri con gli affreschi piemontesi), perché è
collegata ad un
corpus che include
parte dei dipinti qui assegnati alle due distinte personalità (Maestro di Boves
e Maestro di S. Bernulfo), mentre esclude altre opere, fra cui la più
importante, il ciclo di Boves e ne aggiunge un'altra che è del tutto estranea
all'insieme, cioè il finto polittico nella chiesa della Madonnetta a Diano
Castello.
Tra le personalità minori attive nell'area culturale
monregalese sullo scorcio del Quattrocento, piace segnalare ancora l'autore di
una serie di
Santi e di una
Trinità sulla parete sinistra della
chiesa della
Madonna di Campagna a
Carrù che sembra porsi, ad esempio nel
S. Sebastiano (ora staccato), tra le
fonti (per i volti larghi dai tratti segnati da una linea pesante) del più
mediocre
Giovanni Botoneri da Cherasco,
al quale si possono attribuire due
Sacre
Conversazioni (una delle quale è ora nell'atrio dell'Ospedale di Cuneo,
mentre l'altra è datata al 1523) nello stesso edificio. Giovanni è noto
soprattutto per il ciclo del 1514 nel santuario di Castelmagno (da collegare
con altri dipinti a Valgrana e a Bernezzo) con
Storie della Passione, Santi e alcune figurazioni allegoriche, che
lo mostra attardato prosecutore della corrente più popolaresca della cultura
monregalese, nel cui territorio (ad esempio a Niella Tanaro o a Cigliè) si
conservano del resto molti affreschi, collocabili nella prima metà del
Cinquecento, prossimi alla sua maniera autografa ma di vario livello
qualitativo. Il Botoneri deve assai poco ai Biazaci, a differenza di ciò che si
è spesso detto e manifesta invece di conoscere le invenzioni di Canavesio, come
il suo parallelo ligure Pietro Guido da Ranzo.
Di ben altro peso era l'artista che affrescò,
attorno al 1500, il pilone ora incluso nel santuario della Madonna dell'Olmo,
presso Cuneo, a cui Romano ha attribuito anche una bella tavola con l
'Adorazione del Bambino nella Pinacoteca
di Alessandria, centro di un trittico d'incerta provenienza. Tale "
Maestro della Madonna dell'Olmo"
esprime ormai una cultura compiutamente "moderna", come s'evince dall'imponente
inquadratura prospettica ad arco cassettonato che dà ampio respiro alla
composizione, accordandosi alla monumentalità, pur gentile e malinconica, delle
figure; i riferimenti vanno cercati in ambito spanzottiano, ma con tangenze
anche con il Maestro della
Pietà in
S. Agostino a Torino, autore di un'
Adorazione
del Bambino già a Chieri che richiama per molti aspetti quella
alessandrina. La realtà artistica locale, fino a quel momento assestata su
proposte come quelle del Maestro di Boves, dovette essere ben scossa da tali
innovative provocazioni. L'esistenza del Maestro della Madonna dell'Olmo
(pittore di cui è peraltro difficile precisare l'origine) rende perciò più
agevole intendere un personaggio come
Sebastiano
Fuseri da Fossano, che firma nel 1507 il
Trittico della Madonna delle Nevi nella parrocchiale di Briga (che
s'ispira per la
Madonna allattante al
modello di Spanzotti nel duomo torinese, ma conserva anche retaggi canavesiani,
specie nei
Santi laterali) e anticipa
inoltre la fortuna di
Defendente Ferrari
a Cuneo, dove l'artista chivassese inviò diverse tavole, la più importante
delle quali è un trittico ora nel Museo Borgogna di Vercelli, databile negli
anni attorno al 1510.
Il Saluzzese nel frattempo visse tra la fine del
Quattro e l'inizio del Cinquecento, grazie soprattutto all'illuminata
committenza dei marchesi Ludovico II (1438-1504) e Margherita di Foix
(1473-1536), sposata in seconde nozze da Ludovico e reggente lo stato dopo la
sua morte, uno dei periodi più esaltanti della sua storia artistica, specie con
l'attività del pittore piccardo
Hans
Clemer, identificato negli anni Settanta del secolo scorso da Gaglia e da
Perotti nell'anonimo "Maestro d'Elva" a cui già la Brizio e la Gabrielli
avevano dedicato pagine memorabili. Documenti resi noti negli ultimi vent'anni
hanno confermato con certezza tale identità; Hans è verosimilmente il
"magistrum de Alemania" cercato a Saluzzo dai membri del comune di Revello nel
1494, per un retablo che ancora nel 1500 risultava non eseguito (in questo caso
si precisa il nome del pittore, "Ans"). Il che vuol dire che il Clemer doveva
trovarsi a Saluzzo già da qualche tempo, verso l'inizio degli anni Novanta.
Egli era cugino di Josse Lieferinxe,
alias
"Maestro di S. Sebastiano", ovvero il più significativo pittore attivo in
Provenza alla fine del Quattrocento, anch'egli d'origine piccarda (come, prima
di loro, il grande Enguerrand Quarton e forse anche Nicolas Froment). Nel
dicembre del 1498 entrambi i cugini "alamans" firmano un contratto per un
Polittico di S. Antonio ad Aix, che
dieci mesi dopo viene corretto, facendo scomparire i riferimenti a Clemer, il
quale evidentemente aveva soggiornato solo per pochi mesi in Provenza, per
ritornare nuovamente nel Saluzzese. La sua presenza ad Aix è testimoniata in
seguito nel 1508, per un retablo per la chiesa dei Frati Minori e per il
completamento della
Pala di S. Maddalena
(destinata a Marsiglia) lasciata interrotta da Lieferinxe alla sua morte. Nel
giugno del 1509 lo sappiamo di nuovo a Saluzzo, dove la sua giovane vedova
manifesta nel maggio del 1512 l'intenzione di risposarsi; dovette dunque morire
attorno al 1510-1511. Al 1496 risale la sua prima opera datata, il polittico
della
Madonna tra Santi nella
parrocchiale di Celle Macra, mentre al 1503 è siglato il retablo della
collegiata di Revello con
S. Giovanni
Battista tra i SS. Pietro e Paolo. Attorno a queste due date (e a quelle
prima ricordate relative ai suoi viaggi in Provenza) ruotano gli altri dipinti
che gli si possono assegnare: la pala della
Madonna
della Misericordia di Casa Cavassa (del 1499-1500, proveniente quasi
certamente dalla Cappella Marchionale nel Palazzo di Revello), il
Polittico del duomo di Saluzzo, privo
dello scomparto centrale (1500-1501, contemporaneo alla decorazione clemeriana
della facciata dell'edificio, di cui si conservano solo le tre lunette
frammentarie) e alcuni interventi ad affresco, il più importante dei quali è il
ciclo con
Storie della Vergine e la
Crocifissione nella parrocchiale di
Elva, in alta Val Maira (la sua opera più cospicua, dal quale aveva preso il
nome il pittore, prima della sua identificazione anagrafica), databile negli
anni attorno al 1500, a cui sono da aggiungere i
Simboli degli Evangelisti di una volta nella parrocchiale di
Bernezzo, la
Madonna col Bambino nel
S. Michele di Centallo e una
Pietà tra
Santi nel S. Agostino di Saluzzo. La sua produzione tarda, successiva al
polittico di Revello, comprende la
Madonna
del coniglio del Museo Bardini di Firenze e gli affreschi a monocromo nei cortili
di due dimore signorili saluzzesi, le
Storie
di David della Casa Della Chiesa e le
Fatiche
d'Ercole di Casa Cavassa. Clemer si caratterizza per un disegno nervoso e
vigoroso, che delinea fisionomie incisive, dalla profonda e complessa carica
emotiva e psicologica; non a caso il suo stile ha richiamato spesso, prima
della sua identificazione, anche grazie all'abbondanza dei fondi oro lavorati e
ai tratti energici, confronti con l'arte tedesca e catalana, spiegabili con la
cultura squisitamente "mediterranea" del pittore, aperto soprattutto alla
declinazione provenzale di tale linguaggio. Non sembra portare traccia della
sua origine piccarda; dovette invece contare molto per lui l'incontro con le
ultime opere di Froment (morto nel 1483-1484), in cui già si ritrova un
precedente del rovello grafico ed emotivo che gli sarà peculiare, mentre un
parallelo alla sua maniera si riconosce non a caso nel cugino Lieferinxe (il
cui stile sembra quasi una variante normalizzata, sensibile al classicismo di
matrice bramantesca, di quello clemeriano) e, in modo più limitato, in Nicolas
Dipre. Non dovette sfuggire ad Hans, forse sin dalla
Madonna della Misericordia, un confronto col genio del Rinascimento
piemontese,
Martino Spanzotti, che
del resto era impegnato nel 1509 ad eseguire una pala per la collegiata di
Carmagnola e già in precedenza aveva inviato a Sommariva Perno una
Pietà, spianando forse la strada per
l'attività saluzzese del maestro spanzottiano-casalese (il presunto
Aimo Volpi) del trittico del duomo
(1511) e della
Crocifissione nel
refettorio del convento di S. Giovanni.
L'evoluzione di Clemer si può seguire
con gradualità, dall'ancora acerbo polittico di Celle Macra, passando per i
capolavori di destinazione marchionale (la
Madonna
ora a Casa Cavassa e il retablo della cattedrale) e lo straordinario ciclo
d'Elva (che dovette impegnare il maestro per diversi anni, viste le differenze
tra le scene della parte alta e il resto), fino a giungere alle aperture verso
il Rinascimento lombardo testimoniate dalla tavola ora a Firenze e dagli
affreschi a
grisaille, in cui Hans
non rinuncia comunque alla sua robusta
verve
nordica. Gli affreschi a monocromo, con temi prevalentemente profani, sono una
caratteristica del Rinascimento saluzzese; perduti quelli del secondo cortile
della Castiglia (la residenza dei marchesi), della casa dei Vacca e di altre
dimore di Saluzzo, rimangono ancora, oltre ai cicli clemeriani già menzionati,
le decorazioni della facciata della cosiddetta
Casa delle Arti Liberali e di un palazzo con
Storie della Bella Maghelona (di queste ultime, di particolare
rarità iconografica, sopravvivono solo scarsi frammenti). Nel circondario sono
da ricordare anche le
Storie della
Maddalena della parrocchiale di Costigliole, gli
Uomini d'arme del Palazzo Malingri di Bagnolo e le più rigide
Storie del beato Amedeo IX di Savoia nel
castello dei Principi d'Acaja a Pinerolo (anche in questo caso il feudo
bagnolese conferma il suo ruolo di
trait
d'union tra Saluzzese e Pinerolese). Se è vero che Clemer non ebbe degli
eredi diretti nel Saluzzese, a differenza di ciò che accadde in Provenza (con i
trittici di Tarascon, Pertuis e Vinon), bisogna comunque ammettere che la sua
influenza fu notevole e di lunga durata, comprendendo opere di strettissima
osservanza (come il
S. Michele Arcangelo di Pagno), o altre di cultura
più complessa, come il
Calvario di
Scarnafigi, fino a segnare ancora una bottega attiva nel secondo quarto del
secolo a Revello, Piasco, Isasca e Marmora.
Anche negli affreschi della
cappella di
S. Giovanni
della Motta, nell'antica villa dei Cavalieri di Rodi, tra
Cavallermaggiore e Monasterolo di
Savigliano, risalenti all'inizio del Cinquecento, si notano citazioni dal
Clemer, oltre che riferimenti al pinerolese Maestro di Cercenasco e anche a
talune affinità col "
Maestro dei Santi Reyneri", autore di due tavole
con quattro
Santi, parti di un
polittico, una delle quali non a caso proveniva dal castello di Monasterolo.
Tale pittore rivela legami con la cultura diffusa tra il Torinese e la Valle
d'Aosta, scaturita da Antoine de Lonhy; non sembra inutile a questo riguardo,
vista anche la notevole qualità delle tavole, evocare il nome dell'enigmatico
Amedeo Albini, figura di primissimo
piano, legato alla corte sabauda, noto solo per documenti tra Avigliana, Torino,
Moncalieri, la Savoia e Milano, che nel 1483 aveva realizzato due opere per
Savigliano (un vessillo della società popolare e un gonfalone del comune) e del
quale si ritiene plausibile uno stile simile a quello del Lonhy. Anche le
"curiosità archeologiche e parabramantesche" notate da Romano nell'architettura
alle spalle dei
Santi, databili al
nono decennio del Quattrocento, non stupirebbero in un pittore che venne
sollecitato nel 1486 dal duca di Milano di consegnare ad Ambrogio Grifi
l'ancona che gli aveva promesso per la sua cappella in S. Pietro in Gessate, la
stessa per la quale Butinone e Zenale eseguiranno pochi anni dopo le
Storie di S. Ambrogio.
Clemer non fu l'unico e probabilmente neanche il
primo pittore a portare nel Saluzzese un linguaggio moderno, rinascimentale;
anche tralasciando i
Santi Reyneri,
di cui non è certa un'antica pertinenza all'area saviglianese, bisogna
ricordare infatti la figura di
Bartolomeo
De Banis che, sebbene di statura ben inferiore, costituisce un altro caso
significativo di pittore attivo tra il Saluzzese e la Provenza. De Banis era
già noto dal testamento del pittore venaschese
Bernardino Simondi, redatto ad Aix nel marzo del 1498, un mese
prima di morire, che lo definiva "servitori meo predicti loci de Venasca" e gli
lasciava, tra le altre cose, un libro d'incisioni con la Passione e gli
Apostoli. Simondi, attivo tra Aix e Marsiglia dal 1495 al 1498, aveva altri due
"servitori", di cui uno, Antonio Regis, proveniva dalla diocesi di Mondovì,
mentre al suo stesso livello risultano altri due beneficiari del testamento,
Claudio Ruffi d'Embrun e il "discreto viro" Josse Lieferinxe, il parente di
Clemer prima citato, che dal 1497 era suo socio. Simondi si direbbe dunque
personaggio di notevole rilievo e fu forse il maestro di De Banis, il cui stile
è stato rivelato da un affresco con la
Madonna
col Bambino in trono da lui firmato nel 1497 sulla facciata d'una casa in
Corso Umberto a Villafalletto, che la Rossetti Brezzi ha accostato al finto
polittico con la
Madonna tra Santi
proveniente dal convento di S. Giacomo al Bosco di Buretto, presso Bene
Vagienna, staccato e conservato ora a Fossano (
in loco vi sono ancora altri riquadri laterali con
Santi frammentari, che fingevano le ante
aperte del retablo). A questo autore appartiene anche la
Madonna col Bambino, angeli musicanti e i SS. Antonio e Bartolomeo
nella prima cappella a sinistra dell'antica parrocchiale di Verzuolo (la stessa
con i più antichi affreschi di Pietro Pocapaglia), datata al 1510 ma non
firmata. L'omogeneità stilistica tra le tre opere è evidente, ma si notano
anche dei notevoli scarti qualitativi, specie tra l'affresco del Buretto e
quello di Villafalletto, che appare un poco maldestro, sia nella resa del trono
(pur aggiornato su modelli aulici, con specchiature marmoree) che dei volti,
pur tenendo presente lo stato conservativo. La differenza si spiega forse con
una sensibile precocità del dipinto fossanese, collocabile entro il nono
decennio, come ha giustamente argomentato la Brezzi, per la presenza di elementi
formali (la luminosità e l'uso di colori puri, posti a contrasto) che
richiamano la cultura scaturita da Quarton e riflessa in area ligure-nizzarda
da Durandi e dalle prime opere di Canavesio. Più complicata è invece la ricerca
degli stimoli filo-lombardi, evidenti nella vistosa incorniciatura a candelabre
e tondi, che non s'accorda con le figure. Non del tutto convincente è un
riferimento a Spanzotti riguardo alla
Madonna,
per le affinità troppe generiche e anche per la mancanza di altre testimonianze
di un'accoglienza altrettanto precoce del suo linguaggio nel nostro territorio.
Più interessante è l'accostamento proposto da Romano della
Madonna di Buretto con la tavola della
Vergine col Bambino e le SS.
Lucia e Maddalenadel Museo Adriani di
Cherasco, che è però a sua volta
questione assai spinosa, da approfondire verificando la matrice degli elementi
nordicizzanti e lombardeggianti (forse non estranei al Foppa degli anni
Settanta, quello della
Madonna del libro
del Castello Sforzesco) che la caratterizzano. Ad un ambito culturale affine al
De Banis sembra rimandare anche un
'Adorazione del Bambino, con
un Santo domenicano e angeli musicanti, sulla facciata dell'Istituto
Denina, in Via Della Chiesa a
Saluzzo,
sede dell'
antico Ospedale.
L'affresco è purtroppo assai consunto, ma si rivela ancora d'ottima qualità;
anche qui gli elementi formali indirizzano verso la Provenza e l'ambiente
ligure-nizzardo, a modelli simili a quelli a cui attingeva De Banis, per la
presenza di un ampio tendaggio che chiude lo spazio, le pieghe tubolari del
Santo domenicano, il volto ovale, dalla
fronte spaziosa e lucente della
Vergine,
la figura di
S. Giuseppe (o
Antonio Abate?) che ricorda quello già
al Buretto e fa venire in mente opere provenzali come l'eremita dell'affresco distrutto
con l'
Ultima comunione della Maddalena
nella chiesa dei Celestini ad Avignone, attribuibile a Quarton e il
S. Antonio del
Trittico di S. Stefano a Gréolières, anticipando inoltre il
S. Antonio del
Polittico di Soldano (ancora più prossimo al suo omonimo di
Buretto). Cosa che fa ulteriormente riflettere sulla proposta di Bartoletti
d'identificare la bottega che ruota attorno a tale dipinto ligure con i
fratelli De Rogeriis, originari di Venasca come Simondi e forse anche De Banis
(che nell'affresco di Villafalletto è detto
abitator,
non
civis di Venasca). Ad un ordine
di problemi parzialmente parallelo riconduce anche la
Madonna col Bambino affrescata
in Via Umberto a
Vignolo, assai fine
nel volto (la zona inferiore del corpo e il
Bambino
sono purtroppo quasi perduti), che sembra recuperare i modelli del Primo
Maestro di Boves rafforzandoli con una più convinta meditazione sull'area
Canavesio-Brea.
Intanto anche l'Albese tra l'ultimo decennio del
Quattrocento e l'inizio del secolo seguente viveva una stagione figurativa di
eccezionale fioritura, aprendosi alla cultura rinascimentale anche grazie agli
auspici di committenti colti e aggiornati (come il vescovo Andrea Novelli) e
dei legami col Marchesato del Monferrato. I protagonisti di questo rinnovamento
del gusto in ambito pittorico furono
Macrinod'Alba e Gandolfino da Roreto, che
pur movendosi in un contesto geografico e politico in parte simile, tra Alba,
Asti e il marchesato paleologo, svilupparono dei percorsi stilistici assai
differenti, con pochi punti d'incontro. Gian Giacomo de Alladio, detto Macrino
a causa della sua minuta costituzione, rappresenta per molti aspetti
un'eccezione nell'arte piemontese del tempo, per lo spiccato accento
umbro-romano del suo stile, che ha fatto ipotizzare un suo soggiorno di
formazione a Roma attorno all'inizio degli anni Novanta, durante il quale
dovette entrare in contatto soprattutto con l'ambito di Pinturicchio (forse
addirittura frequentando la sua bottega) e osservare con attenzione molto di
ciò che la cultura locale offriva tra il nono e l'inizio del decimo decennio, a
partire dall'eterogeneo cantiere della Cappella Sistina, passando per la
Cappella Bufalini in S. Maria in Aracoeli e gli Appartamenti Borgia decorati da
Pinturicchio, fino alla Cappella Carafa in S. Maria sopra Minerva di Filippino
Lippi. Fu colpito inoltre dalle opere di Signorelli e di Perugino; tutte queste
esperienze traspaiono dai dipinti che realizzò appena ritornato ad Alba,
attorno al 1493-1494, ovvero la pala della
Madonna
in trono tra i SS. Nicola e Martino ora alla Pinacoteca Capitolina di Roma
e un polittico proveniente dall'altare dell'Immacolata Concezione nel S.
Francesco di Alba, di cui a Francoforte si conservano i tre scomparti del
registro inferiore, montati in un'incorniciatura ottocentesca. Queste tavole,
di una leggerezza e freschezza di tratto e di composizione forse mai più
raggiunta da Macrino in seguito, recano impressi i segni delle recenti scoperte
romane, dal gusto per l'ampiezza paesistica a quello per i dettagli antiquari e
per la citazione di edifici romani esistenti o d'invenzione, ai tipi
fisionomici e all'indagine dei rapporti sentimentali fra le figure. Il passo
successivo è indicato dal trittico del Museo Civico di Torino, firmato e datato
al 1495, in cui il pittore albese, come già nelle tavole di Francoforte,
unifica lo spazio continuando uno stesso paesaggio alle spalle degli interpreti
della
Sacra Conversazione, sistemati
sotto un loggiato aperto da arcate, con soffitto cassettonato in prospettiva,
adottando dunque un sistema di pala moderna inaugurata in area padana da
Mantegna con la
Pala di S. Zeno a
Verona sin dagli anni Cinquanta, ma che in Piemonte non era ancora affatto
un'opzione scontata. S'accentua l'ingombro monumentale delle figure, proseguito
nel polittico eseguito l'anno seguente per la certosa di Pavia (completato da
due panelli laterali dell'ordine superiore da Bergognone), in cui cominciano a
comparire dei colori brillanti e smaltati, quasi irreali, che caratterizzeranno
la sua produzione fino all'inizio del Cinquecento. L'inserimento nel cantiere
della certosa, il più prestigioso della fine del XV secolo in Lombardia,
sottolinea il credito che il pittore aveva ormai acquisito e che confermò con
l'imponente ancona per la certosa di Valmanera presso Asti, ora alla Sabauda,
vistosa esibizione di virtuosismo grafico e prospettico, arricchita da
citazioni classicheggianti più o meno esplicite, che introdusse in Piemonte il
tipo della pala unitaria centro-italiana a sviluppo verticale, destinato ad avere
scarso seguito immediato. Nelle opere realizzate tra il 1499 e il 1503, nel
periodo di più esplicito rapporto con l'ambiente del marchesato paleologo,
Macrino sviluppa un ricercato formalismo, già intravisto nel retablo pavese,
forse inteso ad adeguarsi alla nobiltà e ufficialità delle commissioni. Il
capolavoro di questa fase è il
Polittico
di Lucedio (1499), di cui è conservato a Tortona il registro inferiore e al
quale apparteneva anche verosimilmente una
Pietà
di proprietà privata, che permette di osservare con quale spirito contenuto e
aulico, ma anche di piena evidenza espressiva Macrino affrontasse un tema in
cui spesso i suoi illustri contemporanei, come Spanzotti e Bergognone,
puntavano sul
pathos e sulla poesia
degli affetti. Altrettanto significativa è la pala per l'altare maggiore del
santuario di Crea, che riassume molti degli aspetti tipici del suo stile, dalla
solenne e composta partecipazione all'evento religioso, alla minuziosa resa del
paesaggio in cui incombono sistemi rocciosi e rovine antiche fuori scala. A
questa ancona appartenevano anche i due piccoli ritratti di
Guglielmo IX Paleologo e di
Anna d'Alençon, che testimoniano un
rinnovato tentativo di aggiornamento in direzione lombarda, guardando a modelli
leonardeschi nella morbidezza dei passaggi chiaroscurali e nell'impostazione
della figura della giovane Anna, che ricorda la celebre
Belle Ferronière di Leonardo. Negli anni dei contatti con il
Monferrato fu inevitabile per Macrino confrontarsi con Spanzotti, come conferma
una serie di
Madonne allattanti di
Martino e della sua cerchia (i Volpi) che propongono un modello di matrice
leonardesca noto anche in alcune versioni macriniane. Altre suggestioni
lombarde, provenienti da Zenale oltre che da Leonardo, si notano nell'
Adorazione allegorica del duomo di
Torino (1505, ora alla Sabauda), dove la maggiore morbidezza degli incarnati e
fusione dei colori, nonché l'attenzione alle modulazioni luministiche, paiono
derivare anche da un confronto col singolare "
Maestro di S. Martino Alfieri", un pittore di cultura
franco-provenzale attivo nell'Astigiano nel primo decennio del Cinquecento, che
sembra accordare una cultura alla Lieferinxe con l'ispirazione letterale a
modelli macriniani (si pensi all'
Adorazione
del Bambino ora ad Asti). Nell'ultimo decennio conosciuto della sua
attività (al 1513 risale la sua opera nota più tarda, una
Madonna col Bambino) la maniera di Macrino si fa più stanca e
ripetitiva, concentrandosi ad Alba e concedendo ampio spazio agli interventi di
bottega (come nel polittico smembrato già sull'altare maggiore della chiesa
albese di S. Francesco, ora alla Sabauda, del 1506).
Da questa stessa chiesa di Alba proviene la prima
opera firmata e datata al 1493 di
Gandolfino
da Roreto, il
Polittico
dell'Incoronazione della Vergine, nel quale il pittore astigiano, come
anche nella tavola con l'
Annunziata
della SS. Annunziata di Portoria a Genova, che è stata recentemente attribuita
alla sua attività giovanile, rivela una formazione basata su una cultura
ligure-provenzale ad apertura "mediterranea", per i tipi fisionomici e i volti
femminili ovali che richiamano la produzione dei Brea, i panneggi degli angeli
accartocciati secondo l'insegnamento dell'arte fiamminga ben nota in Liguria,
uniti a retaggi tardogotici nella flessuosità di certe figure e nell'abbondante
uso dell'oro, la struttura della cornice a decori fitomorfi e altri dettagli
tecnici (come il tipo delle aureole che richiama delle opere catalane) o
iconografici (l'impostazione dell'
Incoronazione
della Vergine che ricorda celebri dipinti provenzali di Quarton e del suo
ambito). Una certa qual rusticità dei tipi, specie nella predella col
Cristo fra gli Apostoli ancora conservata nel S. Francesco di Alba e
verosimilmente pertinente a tale retablo, può far sospettare che a Gandolfino
non fosse del tutto estraneo il linguaggio di un altro artista di cultura
"mediterranea" attivo in Piemonte, cioè Antoine de Lonhy. Nel complesso si
trattava di una proposta stilistica che doveva risultare abbastanza famigliare
ad Alba (in costante rapporto con la Liguria) e in stridente contrasto invece
con le raffinate novità romane che Macrino riportava baldanzosamente in città
in quegli stessi anni e, anzi, nella stessa chiesa. Il passo successivo nel
percorso di Gandolfino, la
Presentazione al
Tempio di Roma, mostra il pittore già aggiornato su più moderne esperienze
lombarde, verosimilmente ancora per mediazione ligure e forse grazie alla
presenza a Genova di Boccaccio Boccaccino, che dovette contare molto anche per
la svolta prospettica e antichizzante di Luca Baudo. Ma è con la
Pala di S. Maria Nuova ad Asti, del 1498, che Gandolfino realizza una compiuta
conversione al linguaggio rinascimentale di matrice padana, con informazioni
particolarmente
à la page per lo spazio unitario in cui si svolge
la Sacra Conversazione, collocata in un ampio paesaggio e organizzata attorno
all'imponente e classicheggiante trono della Vergine, tanto da presupporre
contatti con modelli di ambito emiliano-veneto, forse, ancora una volta,
diffusi dal Boccaccino. Gandolfino guardava inoltre verso Bramante e Zenale,
come dimostra sia l'impostazione del polittico del duomo di Asti (1501), con un
impianto prospettico unitario negli scomparti inferiori e superiori, che
scaturisce dal
Polittico di Treviglio di
Butinone e Zenale (1485-1490) e dalle sue derivazioni, sia il più tardo
Trittico dell'Assunzione che ricorda per
la composizione e la scioltezza della materia pittorica un trittico di Zenale
già a Cantù (1502). Tralasciando i successivi sviluppi del suo stile, legati
essenzialmente alla cultura cremonese espressa da figure come Boccaccino,
Altobello Melone e lo stesso Francesco Casella (attivo anche in Piemonte), che
esulano dai limiti cronologici e geografici del presente studio, è necessario
invece ricordare un'altra prestigiosa presenza di Gandolfino nel nostro
territorio, il
Polittico della Madonna in
trono tra angeli e Santi del S. Pietro di Savigliano, databile all'inizio
del Cinquecento per le consistenti affinità con opere di quel periodo, a
cominciare dal polittico di S. Maria Nuova ad Asti, ora ricomposto in
un'incorniciatura seicentesca, ma d'impianto originario simile a quello
saviglianese, dove risalta la preoccupazione di Gandolfino di creare una
prospettiva unitaria in tutto il complesso, anche a costo di far precipitare il
soffitto quasi addosso ai
Santi
dell'ordine superiore. Questa splendida opera, smagliante anche per la preziosa
cornice originaria di gusto pienamente rinascimentale, dovette creare un forte
impatto nel panorama culturale locale, in cui Gandolfino intervenne anche nel
decennio seguente con altri dipinti per la stessa chiesa, creando le premesse
per gli esordi di Oddone Pascale, uno dei pochi "eredi" del suo linguaggio.
A fronte delle prestigiose proposte avanzate da
Macrino e Gandolfino nel campo della pittura su tavola, la produzione ad
affresco nell'Albese di fine Quattrocento risulta più legata alla tradizione
tardogotica. Un'eccezione è costituita dall'affresco staccato dal S. Domenico
di Alba con l'
Adorazione dei Magi e
dei
Santi, che rivela influssi
spanzottiani, forse collegabili anche all'invio a Sommariva Perno della
Pietà già citata; lo stato di
conservazione non permette comunque un compiuto giudizio sull'opera. Più cauto
appare l'accostamento ai modelli proto-rinascimentali filo-lombardi da parte di
Agostino Bianchetti da Cherasco,
noto per un ciclo decorativo nel S. Agostino di Cherasco, commissionatogli nel
1498 ma distrutto nel Seicento assieme all'edificio e per una
Madonna col Bambino e angeli a Cissone,
che porta la sua firma sulla pedana del trono. Allo stesso autore è stata
attribuita anche un'altra
Madonna a
Murazzano, simile per l'espressione malinconica dello sguardo. Non è molto
persuasiva la lettura in direzione alessandrina e tortonese che si è proposta
di recente del suo stile, fatto derivare dai Boxilio e da Quirico da Tortona;
Bianchetti sembra conoscere piuttosto la cultura monregalese, per lo meno
nell'affresco di Murazzano dove l'impostazione della veste della Vergine e il
suo decoro a stampo ricordano opere come la
Madonna
di Segurano Cigna a Pamparato o quella del S. Maurizio di Roccaforte Mondovì
che mi sembra a lui attribuibile. Sono invece il tipo del volto della Vergine e
la corpulenza del Bambino che richiedono la ricerca di altre fonti
d'ispirazione per il dipinto di Murazzano.
Ma l'espressione più importante della pittura su
muro del tardo Quattrocento nell'Albese è il ciclo con
Storie della Passionenell'oratorio di
S. Francesco a
S. Vittoria d'Alba, che rivela influssi
nordici e richiami stilistici e iconografici ad altre opere di ambito alpino,
come nel motivo del
Giuda impiccato
dal quale un diavolo sta estraendo le viscere, che è di larga diffusione tra
Quattro e Cinquecento (si pensi a Canavesio), o nella figura del soldato che si
allunga per sporgere a Cristo la spugna, che ricorda l'affresco del S. Vito di
Piossasco. A livello formale il Maestro di S. Vittoria ricorda la poetica
para-fouquettiana del Maestro di Cercenasco, per la ricerca di volumi sintetici
unita ad una vivace attenzione per le fisionomie, assai espressive; non mancano
anche analogie con la tela della
Madonna
della Misericordia di Alba di cui s'è già parlato, il che sottolinea come
nell'Albese convivessero tendenze culturali abbastanza varie e non ancora
appieno sondate.