Percorso sulla retorica


di Laura Lorenza Sciolla
docente Scuola Secondaria di secondo grado

PARTE 1

Il dibattito sulla retorica: dalle origini a Cicerone

Le origini

La retorica è come la lingua: esiste da sempre, in tutte le società umane[i]. In tutte le società di tutti i tempi, infatti, esiste la necessità di persuadere. Già nei poemi omerici vi sono tracce dell'arte della persuasione, quando si parla dell'addestramento all'arte del parlare in modo elegante e convincente, a cui furono sottoposti vari eroi[ii]. Tuttavia, come la grammatica è successiva al sorgere della lingua, così la codificazione dell'arte retorica è successiva alla sua pratica, che può essere esercitata anche senza conoscere regole, grazie all'eloquentia naturalis. Come nota Ugo di San Vittore nel Didascalion, infatti, omnes scientiae prius erant in usu quam in arte.
Retorica e grammatica, due diverse forme di riflessione sulla lingua, sono figlie dello stesso fenomeno: la sofistica, straordinario crogiuolo culturale, filosofia che abbandona lo studio della natura per porre al centro dell'attenzione l'uomo e il suo linguaggio. La sofistica - e conseguentemente la retorica - sono espressione dell'ascesa del demos nella polis che si sta rapidamente trasformando:"La democrazia è favorevole alla retorica, mentre l'aristocrazia le è profondamente ostile. L'aristocrazia è dogmatica, in nessun modo retorica; autoritaria, non eristica; apologetica, non euristica; sentenziosa, non argomentativa; uniformante, non differenziatrica. Invero chi può costringere non ha bisogno di una tecnica della persuasione".[iii]
La nuova filosofia propone una nuova definizione dell'uomo: l'uomo si distingue dagli animali grazie al lógos, la parola.
"Quel che distingue l'uomo dall'animale nei primordi del pensiero greco è il lavoro manuale, nel quale gli eroi e persino gli dei eccellevano. Il disprezzo per il lavoro fisico appare solo più tardi come effetto delle accumulazioni quantitative che hanno portato alla fine dell'epoca patriarcale schiavistica e hanno determinato il passaggio ad una forma più organica, coerente alle nuove condizioni. Un secondo tratto distintivo sul quale, più tardi, insisteranno molto gli stoici, è la temperanza - sōphrosýne - temperantia -, in virtù della quale si arriverà alla supremazia morale: la filosofia antica sarà così sinonimo di ‘sapienza'.L'ascesa del demos modificherà questa concezione: la principale differenza tra l'uomo e l'animale diviene il linguaggio. È il linguaggio che ha permesso di uscire dallo stato di natura e di fondare la società. Ecco allora sorgere le speculazioni sull'origine della lingua e l'interesse eccezionale per la descrizione e la codificazione per le sue regole."[iv]
La codificazione delle regole linguistiche porta alla nascita di tre téchnai che, nella fase iniziale, sono fra loro poco distinte: grammatica, retorica, poetica. Sarà Aristotele a definirne nettamente i confini, avviandole a percorsi differenziati (vedi La ridefinizione di Aristotele) . Solo nella seconda metà del Novecento si assisterà a un riavvicinamento fra retorica e poetica (vedi Retorica e letteratura), mentre la grammatica continuerà la sua via intersecandosi con altre discipline: recentemente, quelle matematiche e informatiche (basti pensare al fiorire delle grammatiche formali e della linguistica computazionale).
Gli incerti confini fra retorica, grammatica, poetica Molte sono le somiglianze fra retorica, grammatica e poetica: ·sono metalinguaggi, cioè linguaggi utilizzati per parlare del nostro linguaggio (con la differenza che -la grammatica offre una codificazione della
lingua a livello zero, in tutte le sue funzioni e le sue varietà, -la retorica si occupa della lingua come strumento di persuasione, -la poetica della lingua altra della letteratura)[v]; · possono assumere forma "implicita" o "esplicita": hanno forma implicita quando le loro regole vengono utilizzate anche senza che il parlante (o lo scrivente) ne sia consapevole; hanno forma esplicita quando le loro regole vengono esplicitate, formalizzate e utilizzate consapevolmente. Per esempio, nel caso della retorica, si può dire che essa sia esistita in forma implicita da sempre (ogni volta che si è usata la lingua a fini di persuasione), in forma esplicita, a partire dal V sec. a. C; ·nascono come figlie, o sorelle, della filosofia, dalla quale si distaccano (non senza contrasti, nel caso della retorica), mantenendo tuttavia sempre stretti rapporti con la "parente" più antica;
·tutte le svolte decisive della retorica (per esempio nel Rinascimento, o con la Nuova Retorica del ‘900, vedi La rinascita della retorica) sono state accompagnate da sviluppi decisivi degli studi grammaticali.

Retorica come psicagogia

Colui che più di ogni altro sottolineò l'efficacia dell'eloquenza e i suoi legami con la poesia è Gorgia, sofista originario di Leontini che si trasferì ad Atene nel 427 a. C. Rifacendosi a dottrine pitagoriche, Gorgia esaltò la forza incantatrice della parola, "gran dominatore" capace di trascinare l'animo di chi ascolta. Prova del potere psicagogico[vi] della parola è la vicenda di Elena, soggiogata dai discorsi di Paride al punto da abbandonare patria e famiglia.

"Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l'animo, neppure questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi così: la parola è un gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò. Perché bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l'ascolta è invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da una struggente brama di dolore, e l'anima patisce, per effetto delle parole, un suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone straniere. Ma via, torniamo al discorso di prima. Dunque, gli ispirati incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena. Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell'anima, la potenza dell'incanto, questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e magia si sono create due arti, consistenti in errori dell'animo e in inganni della mente. E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando un finto discorso! [...] C'è tra la potenza della parola e la disposizione dell'anima lo stesso rapporto che tra l'ufficio dei farmachi e la natura del corpo. Come infatti certi farmachi eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la vita; così anche dei discorsi, alcuni producon dolore, altri diletto, altri paura, altri ispiran coraggio agli uditori, altri infine, con qualche persuasione perversa, avvelenano l'anima e la stregano.

Ecco così spiegato che se ella fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata." (Encomio di Elena, 8-15, tr. it. di G. Giannantoni)

Il potere psicagogico della parola sarà definito dai Latini capacità di flectĕre o movēre animos; hanno fine psicagogico precisi momenti dell'orazione (vedi Dispositio), a partire dalla captatio benevolentiae (vedi L'esordio).

Convinzione e persuasione
Qual è l'oggetto della persuasione operata dai magici poteri della parola? Non è una conoscenza, alla quale si giungerebbe attraverso la sollecitazione del ragionamento logico, senza dover ricorrere a discorsi seducenti, ma è un'opinione, qualcosa di verisimile o plausibile, ma non necessariamente vero.

"Tenendosi lontano dall'esattezza della logica l'atto retorico persegue l'adesione a un'opinione (δόξα) o a una quasi-verità chiamata ει̉κός (verisimile) o έ̉νδοξον (plausibile).

L'opinione viene generalmente intesa come un gradino inferiore della conoscenza, un semplice ed automatico legame del pensiero alle proprie possibilità immediate, e ha come punto di partenza un'evidenza sensibile non necessariamente condivisa dagli altri."[vii]
La scarsa stima attribuita all'opinione - e la conseguente diffidenza nei confronti della retorica - accomuna filosofi antichi e moderni, da Platone agli stoici a San Bonaventura a Kant. "Il gradino superiore è la convinzione, che risulta estranea all'atto retorico nella misura in cui presuppone il superamento dell'evidenza sensibile per mezzo della riflessione e si fonda su una motivazione logico-materiale che può essere condivisa anche da altri. La convinzione può essere il risultato di una costrizione tramite prove materiali e testimonianze, come accade nei processi, e il pensiero non può sottrarvisi senza infrangere le leggi sue proprie [...]. Il grado più alto della convinzione è la certezza, che esclude la possibilità d'errore giacché si fonda su di una motivazione logico-materiale ancora più rigorosa. L'atto retorico ovvero la persuasione perseguono il medesimo scopo della convinzione ma seguendo una diversa via: quella dell'immaginazione, dell'emozione, della suggestione, accordando deliberatamente, talvolta, una maggior possibilità d'errore."[viii]
Ribaltando la tradizionale svalutazione nei confronti dell'opinione e della retorica, i fautori della Nuova Retorica (vedi La rinascita della retorica) evidenziano invece la libertà che lascia comunque all'uditorio l'opera di persuasione compiuta dalla parola.

"Il riferimento all'etimologia dei termini convinctio e persuasio permette di precisare ancor meglio la differenza tra le due nozioni. Convinctio deriva da vincere, e il suffisso con suggerisce l'idea della disfatta completa e definitiva. Il soggetto stesso accetta l'evidenza delle prove e la validità dei ragionamenti del preopinante rinunciando ad opporre ad essi i suoi propri. In questo caso, la vittoria è una vittoria della ragione del soggetto sui suoi stessi interessi o sulle tesi che offendono l'evidenza [...]. E veramente il termine persuasio, che viene da suadere (consigliare) con in più l'idea di compimento suggerita da per, è strettamente legato all'esistenza di un'influenza decisiva, se non proprio coercitiva, esercitata dal preopinante."[ix]

Retorica ed educazione

Fin dalle origini, stretti sono i legami fra retorica ed educazione. Nata dai processi di proprietà seguiti alla caduta dei tiranni siciliani Gelone e Gerone (intorno al 480 a. C.)[x], la retorica si costituì rapidamente in oggetto di insegnamento. I primi docenti della nuova disciplina furono Empedocle d'Agrigento, il suo allievo di Siracusa Corace (che, per primo, chiese un pagamento per le sue lezioni) e Tisia. Dalla Sicilia l'insegnamento passò in Attica,  attraverso le cause intentate da commercianti che operavano sia a Siracusa sia ad Atene.
La retorica ebbe un impatto profondo non solo sul sistema educativo, ma anche sullo stile di vita: nelle Nuvole, Aristofane attribuisce ai nuovi cultori della parola (da lui sbrigativamente ed erroneamente identificati con Socrate) costumi immorali, lontani dalla sanità dei bei tempi antichi. Nello scontro fra il Lógos díkaios (Discorso Giusto o Discorso Forte) e il Lógos ádikos (Discorso Ingiusto o Discorso Debole) - parodia delle affermazioni di Protagora, secondo il quale era possibile rendere più forte il discorso più debole - il Discorso Giusto invita il giovane Fidippide a seguire l'educazione tradizionale e a rifiutare i nuovi insegnamenti, perché
"Se farai ciò che ti dico
e a questi pensieri volgerai la mente,
avrai per sempre
solido petto e pelle lucente,
vaste spalle e lingua corta,
grossa chiappa e verga piccola.
Ma se segui i gusti d'oggi,
anzitutto avrai la pelle
color giallo e spalle strette,
petto fiacco e lingua grande,
chiappa breve e grosso pene
e lunghissimo il... decreto. Ti farò credere che ogni infamia
è onore, e che l'onore è infame:
e alla fine sarai contagiato
dal vizio di Antimaco l'invertito" (Nuvole, vv. 951- 966; tr. it. di D. Del Corno)
Il Discorso Giusto, tuttavia, sarà persuaso a cambiare opinione, tanto da passare dalla parte del Discorso Ingiusto:
"Ho perduto, voi fottuti.
Prendete il mio mantello, in nome degli dèi:
sono un disertore, passo dalla vostra parte" (Nuvole, vv. 1101-1104; tr. it. di D. Del Corno)
Nonostante le diffidenze dei conservatori e di una parte dei filosofi, la retorica divenne presto la materia privilegiata nell'educazione:
"lo scopo di ogni cittadino libero e ricco è quello di ευ̉˜ λέγειν - bene dicere. Al posto della memorizzazione e della riproduzione ad litteram del testo omerico o gnomico fa la sua apparizione il metodo dialogico (brachilogia) difeso con tanto fervore da Socrate e Platone. La retorica del momento è l'eristica[xi], che corrisponde a una tappa ben determinata dello sviluppo della sofistica.
In seguito alle accumulazioni quantitative proprie al demos, un nuovo metodo tenta e riesce progressivamente a imporsi. È la macrologia sofistica sulla base della quale si costituiscono l'arte della prosa e la tecnica rigorosa del discorso. Il numero delle discipline che rientrano nei programmi d'insegnamento degni dell'uomo libero (le arti liberali) si riduce e più tardi, con Varrone e soprattutto Marziano Capella, resterà fissato a sette. Alla retorica tocca il ruolo preminente, e il titolo del più importante trattato pedagogico tramandatoci dagli antichi è particolarmente significativo: Institutio oratoria."[xii]
Non a caso, il dibattito sulla corrupta eloquentia che coinvolgerà molti intellettuali dell'età imperiale, indicherà spesso nel rapporto tra retorica ed educazione le cause della decadenza dell'eloquenza: se la scuola sarà accusata di ridurre l'insegnamento retorico alla discussione di casi assurdi e romanzeschi, la retorica sarà a sua volta accusata di uscire dalle aule invadendo fori, sale e tribunali con declamazioni vanamente spettacolari. [xiii] La monumentale opera di Quintiliano sarà un tentativo per frenare lo sgretolarsi dell'oratoria attraverso una "riforma" dell'insegnamento, che veda la retorica non come una sorta di vernice posta su un edificio già costruito ("ceteri fere [...] ita sunt exorsi, quasi perfectis omni alio genere doctrinae summam inde eloquentiae manum imponerent" , esordisce l'autore), ma come un obiettivo da perseguire già a partire dagli studi infantili ("nec aliter, quam si mihi tradatur educandus orator, studia eius formare ab infantia incipiam").
Dalle accuse di Platone all'esaltazione di Cicerone

Le accuse di Platone
Il filosofo antico più critico nei confronti della retorica è Platone[xiv]. Egli rivolge alla retorica (alla quale nega persino la qualifica di arte) tre accuse principali:
·La retorica non è né una scienza né un'arte (téchne)[xv] perché
-è priva di uno specifico campo d'indagine (è costretta infatti a invadere quelli della filosofia o delle scienze);
- si muove nel campo del plausibile, del verisimile,  dell'opinabile;
-non fa leva sulla razionalità ma su passioni e sentimenti.
Significative le parole di Socrate a Fedro:
"Ma allora, amico mio, colui che non conosce la verità e che è solo un cacciatore di opinioni, ci ammannirà, come tutto fa credere, una specie di arte ben ridicola e proprio priva di arte" (Phaedr. 262 b-c, tr. it. di P. Pucci)

·I retori insegnano nozioni superficiali, inutili, irte di tecnicismi. Nel Fedro, Socrate li paragona a medicastri che si spacciano per luminari della scienza, proprio mentre riducono la medicina a banali palliativi.
"SOCR. Ebbene, dimmi. Se qualcuno si presentasse dal tuo amico Acumeno e gli dicesse: ‘Io so applicare certi trattamenti al corpo in modo da scaldarlo, se voglio, o da raffreddarlo, o se mi pare emetici o purganti, e tutte le altre cose del genere. Poiché so queste cose pretendo di essere un medico e di poter rendere medico un altro cui io confidi la mia conoscenza di questi trattamenti'. Udendolo cosa credi che risponderebbero? FEDR. Non gli chiederebbero altro che se sa anche a quali tipi di pazienti debba somministrarli e quando debba applicare questi e in che misura. SOCR. Se quello rispondesse: ‘Assolutamente no. Ma ritengo che chi imparerà da me queste cose sarà in grado di fare ciò che chiedi'. FEDR. Diremmo quasi certamente che gli ha dato di volta il cervello e che per aver casualmente ascoltato qualcosa dio sa da qual libro o per aver bazzicato con dei palliativi s'illude d'esser diventato medico mentre di medicina non ne capisce nulla." (Phaedr. 268 a-c, tr. it. di P. Pucci)
·Sacrificando la verità all'altare dell'opinione, i retori infrangono la morale o, addirittura, diffondono l'immoralità.
"SOCR. Forse un discorso ben detto e con successo non deve presupporre nella mente di chi lo dice la conoscenza della verità sull'argomento di cui sta per parlare? FEDR. Su questo punto, caro Socrate, ho sentito dire che chi vuol riuscire oratore non ha alcuno stretto dovere di comprendere ciò che è veramente giusto, ma soltanto quello che ne pensa la folla che decide, né di conoscere il bene e il bello in sé, ma ciò che lo sembra. Perché è da questa opinione che viene la persuasione, non dalla verità. [...] SOCR. Supponi che io cercassi di persuaderti ad acquistare un cavallo per combattere contro i nemici e che nessuno di noi conoscesse il cavallo, ma una cosa io conoscessi di te, che Fedro crede che il cavallo sia fra gli animali domestici quello che ha le orecchie più grandi... FEDR. Sarebbe ridicolo, Socrate! SOCR. Aspetta un momento. Supponi ancora che io ci mettessi tutto il mio impegno a convincerti con una ben composta lode dell'asino, chiamandolo cavallo, e dicendo che è una bestia straordinariamente preziosa ad acquistarsi, per la casa e per le campagne militari, e che è utile per farci la guerra e resistente nel portare bagagli, e vantaggiosa in molte altre cose... FEDR. Sarebbe ancora più ridicolo! [...] SOCR. Quando allora l'oratore, ignorando il bene e il male, cerca di persuadere una città ignara delle stesse cose come lui, non lodando un misero asino come se fosse un cavallo, ma lodando il male come se fosse bene, e quando, dopo aver fatto uno studio delle opinioni delle masse, le persuade a fare il male invece del bene, quale frutto mai credi che l'arte oratoria raccoglierà del seme che ha gettato? FEDR. Certo un frutto sconveniente." (Phaedr. 269e, 260 a-d, tr. it. di P. Pucci)
Nonostante le profonde riserve manifestate, Platone non giunge tuttavia alla negazione della retorica: ammette infatti la possibilità di una retorica priva di ciarlataneria, mirata non alla ricerca del consenso ma alla ricerca della verità.
"In quanto ‘guida delle anime', seppure in modo particolare, tale retorica deve fondarsi sui risultati di una vasta ricerca in quella direzione, deve offrire una descrizione esatta di tutte le categorie di anime. Solo in questo modo diviene possibile preparare i discorsi che convengono ad ogni categoria di ascoltatori. Da un punto di vista metodologico questa retorica ‘capace di convincere gli stessi dei' si fonda sulla dialettica, intesa nel senso di dominio della tecnica della definizione chiara e precisa in ogni cosa e ancora nel senso di divisione in specie portata sino in fondo, alla specie ultima, indivisibile. Scopo ultimo rimane la trasmissione dei dati acquisiti dalla conoscenza con il rispetto dovuto alla morale e alla religione. La buona retorica è una psicagogia che non si confonde con la magia, non calpesta la dignità dell'uomo per motivi d'ordine pratico, non contravviene in ultimo agli interessi dello Stato"[xvi]
Intesa in questo senso, la retorica esisteva ancor prima che Empedocle, Corace, Tisia e i loro successori pretendessero di insegnarla con le loro pretenziose ricette. Fingendo di rivolgersi a Tisia, Socrate conclude perciò il dibattito sulla retorica con queste parole:
"O Tisia, già da un pezzo, ancora prima che tu apparissi in scena noi stavamo dicendo che il plausibile risulta per la moltitudine dalla simiglianza con il vero; e noi abbiamo dimostrato proprio ora che queste simiglianze le può scoprire in quei casi, nel modo migliore, colui che conosce la verità. Cosicché, se hai qualcos'altro da dire nell'arte di tenere discorsi, ti ascolteremo, se no staremo convinti degli argomenti che proprio ora abbiamo esaminato, cioè che se non si enumererà la natura dei vari uditori, e se non si è in grado di classificare per specie le cose reali e di ridurle, una per una, ad una sola forma, non si riuscirà mai artisti del parlare almeno per quanto è possibile all'uomo di divenirlo. Ma queste capacità non si conquisteranno mai senza grande applicazione; e chi ha senno vi ci spiegherà tutte le sue forze, ma non per parlare ed agire nella società, bensì per poter dire cose gradite agli dèi, e per agire in tutto ciò che può, nel modo che è loro di maggior gradimento". (Phaedr. 273 d-e, tr. it. di P. Pucci)

Il superamento dell'intransigenza platonica

La ridefinizione di Aristotele
Aristotele propone un superamento dell'intransigenza platonica, attraverso una ridefinizione dei confini della retorica, nuovamente sollevata  alla dignità di téchne. Lo Stagirita definisce la retorica "la facoltà di scoprire in ogni argomento ciò che è in grado di persuadere" (Ret.I,2, 1355b) e la distingue
·dalla poetica: questa è l'arte del fare poetico, definito come mimesi, imitazione, e suddiviso in generi diversi secondo i contenuti e le forme;
·dalla dialettica:

"La retorica è analoga alla dialettica: entrambe riguardano oggetti che, in certo modo, è proprio di tutti gli uomini conoscere e non di una scienza specifica. Perciò tutti partecipano in certo modo a entrambe; tutti infatti sino a un certo punto si occupano di indagare su qualche tesi e di sostenerla, di difendersi e di accusare. Senonché la maggior parte fa ciò spontaneamente, alcuni invece lo fanno per una pratica che proviene da una disposizione.
Poiché sono possibili entrambe le cose, è evidente che è possibile anche in questa materia delineare un metodo; è possibile infatti ricercare la causa per cui riescono sia coloro che lo fanno per pratica sia coloro che lo fanno spontaneamente, e tutti concorderanno che questo è il compito di un'arte." (ret.I, 1, 1354a tr. it. di A. Plebe)
Il filosofo difende la retorica dall'accusa di inutilità e di immoralità, sostenendo che
"La retorica è utile per il fatto che per natura la verità e la giustizia sono più forti del loro contrario, cosicché se i giudizi non avvengono come si dovrebbe, è necessariamente perché si è inferiori ad essi. E ciò è degno di biasimo. Inoltre di fronte ad alcuni uomini, neppure se possedessimo la scienza più esatta, sarebbe facile persuaderli parlando solo della base di essa [...].
Inoltre bisogna saper convincere anche di tesi contrarie, come nei sillogismi, non già per fare indifferentemente entrambe le cose (non bisogna infatti persuadere a cose cattive), bensì perché non ci sfugga come si pone la questione e come, se un altro si serve dei discorsi in maniera non giusta, possiamo confutarli. Nessuna delle altre arti può concludere tesi contrarie, solo la dialettica e la retorica fanno questo; infatti entrambe si occupano parimenti dei contrari. Però gli argomenti trattati non hanno lo stesso valore, bensì quelli veri e migliori sono, in generale, per natura più adatti al sillogismo e più persuasivi.
Inoltre, se è brutto non sapersi difendere col corpo, sarebbe assurdo che non fosse brutto non sapersi difendere con la parola, che è più propria all'uomo che l'uso del corpo. Se pur è vero che chi si serve ingiustamente di questa facoltà dei discorsi può nuocere grandemente, però questo fatto è proprio di tutti i beni eccettuata la virtù, e soprattutto dei più utili, quali la forza, la salute, la ricchezza, la strategia: di essi chiunque servendosi giustamente potrà giovare moltissimo, e danneggiare servendosi ingiustamente." (ret.I, 1, 1355 a-b tr. it. di A. Plebe)
La rivalutazione aristotelica della retorica va di pari passo con la rivalutazione del buon senso e dell'opinione comune, in linea con la visione politica del "giusto mezzo", che tende a comporre nel quadro di una democrazia moderata le contese politiche e gli antagonismi di classe.
L'esaltazione di Cicerone
Cicerone non si limita a difendere la retorica, ma la esalta, facendone l'arte più alta, al cui raggiungimento sono finalizzate tutte le attività e le pratiche culturali.
Egli sottolinea infatti come "solo da una vasta e ricca cultura umanistica un oratore potrà ricavare, come un artigiano da una rerum silva magna (de orat. III, 93), i materiali pertinenti e sufficienti alla costruzione di un'orazione"[xvii] e afferma il carattere umanistico, non tecnico, dell'oratoria:
Positum sit igitur in primis, [...] sine philosophia non posse effici quem quaerimus eloquentem (orat. 4, 14).
Sia innanzi tutti fermo questo principio, che senza filosofia non si può avere quell'oratore che noi ricerchiamo.
Cicerone osserva come, alle origini, retorica e filosofia non fossero distinte, né fossero distinti il bene dicere e il bene vivere: il primo è la "conoscenza delle nozioni più elevate" (omnia rerum optimarum cognitio), la seconda ne è l'applicazione nella vita (iis exercitatio). Bisognerebbe pertanto ritornare all'originaria unità: la retorica disgiunta dalla filosofia sfocia nel tecnicismo, la filosofia disgiunta dalla retorica rischia di diventare inutile.
Platone aveva negato alla retorica uno specifico campo d'indagine; Aristotele ne aveva fatto "appena un piccolo edificio utilitario costruito all'ombra di due costruzioni più imponenti, l'analitica e la dialettica"[xviii]; Cicerone allarga il campo d'indagine e d'azione della retorica, estendendolo a tutto ciò che concerne l'uomo. La retorica è l'arte umanistica per eccellenza; l'eloquenza è la somma virtus, e non può essere disgiunta da onestà e saggezza. Insegnare l'arte retorica a uomini malvagi non significherebbe farne degli oratori, ma consegnare delle armi ad esseri privi di ragione.
Vero enim oratori, quae sunt in hominum vita, quandoquidem in ea versatur oratore atque ea est ei subiecta materies, omnia quaesita, audita, lecta, disputata, tractata, agitata esse debent. Est enim eloquentia una quaedam de summis virtutibus; quamquam sunt omnes virtutes aequales et pares, sed tamen est specie alia magis alia formosa et inlustris, sicut haec vis quae scientiam complexa rerum sensa mentis et consilia sic verbis explicat, ut eos qui audiant, quocumque incubuerit, possit impellere; quae quo maior est vis, hoc est magis probitate iungenda summaque prudentia; quarum virtutum expertibus si dicendi copiam tradiderimus, non eos quidem oratores effecerimus, sed furentibus quaedam arma dederimus (de orat. III, 14).
In verità l'oratore deve indagare, ascoltare, leggere, discutere, trattare, esaminare tutto ciò che ha attinenza alla vita degli uomini; perché di una tale vita egli s'interessa e da essa derivano gli argomenti sui quali egli s'intrattiene. L'eloquenza è una delle più alte virtù. È vero che tutte le virtù sono eguali e di pari grado: tuttavia per la sua apparenza una ci può sembrare più bella e illustre di un'altra. Così avviene di questa facoltà che, abbracciando in sé la scienza universale, esprime con le parole i sentimenti e i pensieri della nostra anima, in modo da potere spingere dove vuole gli uditori. Ora, quanto maggiore è tale forza, tanto più deve essere unita all'onestà e alla più alta saggezza. Infatti se daremo la bravura oratoria a uomini privi di senso morale, non possiamo dire di aver fatto degli oratori, ma di avere dato, per dir così, le armi a uomini privi di ragione (tr. it. di G. Norcio).
Retorica e oratoria escono perciò dalle aule dei tribunali e dalle assemblee pubbliche e private, per intervenire
"nella fondazione e nella costruzione della società, nella conservazione e nell'adeguamento delle istituzioni; inoltre consentono di produrre un'efficace opera di divulgazione, che consiste nel tradurre nei termini di un discorso generale le acquisizioni delle discipline speciali."[xix]
Per Aristotele la retorica era uno
"strumento imperfetto, come un succedaneo rispetto ai più rigorosi mezzi della logica formale, buono per le occasioni di divulgazione spicciola e di rapido impiego pratico."[xx]
Con Cicerone, invece, essa diviene
"una attività filosofica in senso moderno e preannuncia in qualche modo l' ‘asseribilità garantita' di Dewey e del pragmatismo in genere. È questa la grande novità della retorica ciceroniana; possiamo ora agevolmente spiegarci perché sia l'opera di Cicerone, e non quella di Aristotele, che sta alla base dell'Umanesimo."
Anche la Nuova Retorica novecentesca (vedi  La rinascita della retorica) è in qualche modo debitrice all'umanesimo ciceroniano.

NOTE



[i] Diversamente da quanto si è creduto fino ai primi anni del ‘900, la retorica non è patrimonio esclusivo della cultura occidentale: numerosi studi hanno dimostrato l'esistenza di una retorica cinese, indiana, araba...; particolarmente interessanti le analogie fra la retorica greca e quella cinese individuate da I. Kon Pao Kan, Deux sophistes chinois, Paris, P.U.F., 1953.
[ii] Nell'Iliade (9, 443) è enunciato il fine dell'educazione dell'eroe: essere buon parlatore e operatore di azioni.
[iii] H. Wald, Retorica rediviva, "Familia", n. 9 (49), 1969, p. 15. Non bisogna però insistere troppo sul carattere democratico della sofistica, perché, come ricorda C. Corbato in Sofisti e politica ad Atene durante la guerra del Peloponneso, (Trieste, Istituto di Filologia classica, 1958), nonostante il loro successo popolare, i sofisti sono usciti per lo più da ambienti oligarchici e i loro insegnamenti, molto costosi, erano inaccessibili alle masse popolari.
[iv] V. Florescu, La retorica nel suo sviluppo storico, tr. it. di A. Serra, Bologna, Il Mulino, 1971, p. 27 (Retorica si reabilitarea ei în filozofia contemporană, Bucureşti, Ed. Academiei R.S. Romania, 1960).
[v] Rifacendosi alla classificazione di Jakobson, potremmo dire che la grammatica studia la lingua in tutte le sue funzioni, la retorica nella funzione conativa e la poetica in quella, appunto, poetica, cioè incentrata sul messaggio. Facciamo riferimento al celeberrimo intervento del 1958, in cui Jakobson ricondusse i processi linguistici a sei fattori costitutivi: "Il mittente invia un messaggio al destinatario. Per essere operante, il messaggio richiede in primo luogo il riferimento a un contesto (il ‘referente', secondo un'altra terminologia abbastanza ambigua) ...; in secondo luogo esige un codice interamente, o almeno parzialmente, comune al mittente e al destinatario...; infine un contatto, un canale fisico e una connessione psicologica fra il mittente e il destinatario, che consenta loro di mantenere e di stabilire la comunicazione" (Roman Jakobson, "Poetica" in Saggi di linguistica generale, tr. it. di L. Heilmann e L. Grassi, Milano, Feltrinelli, 1974, p. 185; Style and Language, New York, London, Th.A. Seboek, 1960). Ai vari fattori corrispondono diverse funzioni del linguaggio: all'emittente la funzione emotiva, al destinatario quella conativa (prevalente, per esempio, quando si vuole persuadere un uditorio), al contesto quella referenziale, al contatto quella fàtica, al codice quella metalinguistica, al messaggio quella poetica. In genere, nei messaggi sono presenti svariate funzioni, fra le quali una acquista carattere dominante; per esempio, nei messaggi pubblicitari è spesso presente la funzione poetica, che tuttavia risulta secondaria rispetto a quella conativa.
[vi] Nelle antiche religioni mediterranee, la psicagogia era la cerimonia con cui si guidava l'anima del defunto nell'oltretomba. Qui il termine psicagogico è inteso nel significato etimologico di "che guida le anime".
[vii] V. Florescu, op. cit., p. 32.
[viii] V. Florescu, op. cit., p. 33.
[ix] V. Florescu, op. cit., pp. 33-34.
[x] I tiranni siciliani avevano espropriato molte terre, per donarle ai loro mercenari; dopo il loro rovesciamento, in seguito a una sollevazione popolare, si tennero numerosi processi per i diritti di proprietà dei lotti espropriati.
[xi] L'eristica è l'arte di battagliare a parole, cioè di vincere nelle discussioni. "Platone ci ha dato nell'Eutidemo un vivace esempio del modo in cui quest'arte veniva esercitata ai suoi tempi. Gli interlocutori del dialogo, i fratelli Eutidemo e Dionisodoro, si divertono a dimostrare, per es., che solo l'ignorante può apprendere, e subito dopo che invece apprende solo il sapiente; che si apprende solo ciò che non si sa e poi che si apprende solo ciò che si sa; ecc. Il fondamento di simili esercizi è la dottrina condivisa da Megarici, Sofisti e Cinici, che non è possibile l'errore, perché, non potendosi dire ciò che non è (che equivale a non dire) si dice sempre cosa che è, quindi vera." (N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, UTET, 1971, p. 311).
[xii] V. Florescu, op. cit., p. 30. Ovviamente, Florescu allude al fondamentale trattato pedagogico di Quintiliano.
[xiii] Basti ricordare la discussione sulla retorica nel primo capitolo del Satyricon.
[xiv] La diffidenza di Platone nei confronti della retorica si accompagna, non a caso, alla diffidenza nei confronti della poesia, da lui ritenuta una specie di retorica (δημηγορία).
[xv] L'unica qualifica che può esserle attribuita, secondo Platone, è quella di τριβή, pratica.
[xvi] V. Florescu, op. cit., p. 52.
[xvii] Adriano Pennacini, L'arte della parola, in Forme del pensiero, Alessandria, Edizioni dell'Orso, 2002, pp. 361-362 (originariamente pubblicato su Lo spazio letterario di Roma antica, Roma 1988, vol. II).
[xviii] R. Barilli, Poetica e retorica, Milano, Mursia, 1969, p. 37.
[xix] A. Pennacini, op. cit., p. 360.
[xx] R. Barilli, Poetica e retorica, Milano, Mursia, 1969, p. 46.