"Se poi fu la parola a persuaderla e a illuderle l'animo,
neppure questo è difficile a scusarsi e a giustificarsi così: la parola è un
gran dominatore, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose
sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a
suscitare la gioia, e ad aumentare la pietà. E come ciò ha luogo, lo spiegherò.
Perché bisogna anche spiegarlo al giudizio degli uditori: la poesia nelle sue
varie forme io la ritengo e la chiamo un discorso con metro, e chi l'ascolta è
invaso da un brivido di spavento, da una compassione che strappa le lacrime, da
una struggente brama di dolore, e l'anima patisce, per effetto delle parole, un
suo proprio patimento, a sentir fortune e sfortune di fatti e di persone
straniere. Ma via, torniamo al discorso di prima. Dunque, gli ispirati
incantesimi di parole sono apportatori di gioia, liberatori di pena.
Aggiungendosi infatti, alla disposizione dell'anima, la potenza dell'incanto,
questa la blandisce e persuade e trascina col suo fascino. Di fascinazione e
magia si sono create due arti, consistenti in errori dell'animo e in inganni
della mente. E quanti, a quanti, quante cose fecero e fanno credere, foggiando
un finto discorso! [...] C'è tra la potenza della parola e la disposizione dell'anima
lo stesso rapporto che tra l'ufficio dei farmachi e la natura del corpo. Come
infatti certi farmachi eliminano dal corpo certi umori, e altri, altri; e alcuni troncano la malattia, altri la
vita; così anche dei discorsi, alcuni producon dolore, altri diletto, altri
paura, altri ispiran coraggio agli uditori, altri infine, con qualche
persuasione perversa, avvelenano l'anima e la stregano.
Ecco così spiegato che se ella fu persuasa con la parola,
non fu colpevole, ma sventurata." (Encomio
di Elena, 8-15, tr. it. di G. Giannantoni)
Convinzione
e persuasione
Qual è l'oggetto della persuasione operata
dai magici poteri della parola? Non è una conoscenza,
alla quale si giungerebbe attraverso la sollecitazione del ragionamento logico,
senza dover ricorrere a discorsi seducenti, ma è un'opinione, qualcosa di verisimile o plausibile, ma non necessariamente vero.
"Tenendosi lontano dall'esattezza della logica l'atto
retorico persegue l'adesione a un'opinione (δόξα) o a una
quasi-verità chiamata ει̉κός (verisimile) o
έ̉νδοξον (plausibile).
L'opinione viene
generalmente intesa come un gradino inferiore della conoscenza, un semplice ed
automatico legame del pensiero alle proprie possibilità immediate, e ha come
punto di partenza un'evidenza sensibile non necessariamente condivisa dagli
altri."[vii]
La scarsa stima attribuita all'opinione -
e la conseguente diffidenza nei confronti della retorica - accomuna filosofi
antichi e moderni, da Platone agli stoici a San Bonaventura a Kant.
"Il gradino superiore è la convinzione, che risulta estranea all'atto retorico nella misura in
cui presuppone il superamento dell'evidenza sensibile per mezzo della
riflessione e si fonda su una motivazione logico-materiale che può essere
condivisa anche da altri. La convinzione può essere il risultato di una
costrizione tramite prove materiali e testimonianze, come accade nei processi,
e il pensiero non può sottrarvisi senza infrangere le leggi sue proprie [...]. Il
grado più alto della convinzione è la certezza,
che esclude la possibilità d'errore giacché si fonda su di una motivazione
logico-materiale ancora più rigorosa. L'atto retorico ovvero la persuasione
perseguono il medesimo scopo della convinzione ma seguendo una diversa via:
quella dell'immaginazione, dell'emozione, della suggestione, accordando
deliberatamente, talvolta, una maggior possibilità d'errore."[viii]
Ribaltando la tradizionale svalutazione
nei confronti dell'opinione e della retorica, i fautori della Nuova Retorica
(vedi La rinascita della retorica)
evidenziano invece la libertà che lascia comunque all'uditorio l'opera di
persuasione compiuta dalla parola.
"Il riferimento all'etimologia dei termini convinctio e persuasio permette di precisare ancor meglio la differenza tra le
due nozioni. Convinctio deriva da vincere, e il suffisso con suggerisce l'idea della disfatta
completa e definitiva. Il soggetto stesso accetta l'evidenza delle prove e la
validità dei ragionamenti del preopinante rinunciando ad opporre ad essi i suoi
propri. In questo caso, la vittoria è una vittoria della ragione del soggetto
sui suoi stessi interessi o sulle tesi che offendono l'evidenza [...]. E
veramente il termine persuasio, che
viene da suadere (consigliare) con in
più l'idea di compimento suggerita da per,
è strettamente legato all'esistenza di un'influenza decisiva, se non proprio
coercitiva, esercitata dal preopinante."[ix]
"La retorica è analoga alla dialettica: entrambe
riguardano oggetti che, in certo modo, è proprio di tutti gli uomini conoscere
e non di una scienza specifica. Perciò tutti partecipano in certo modo a
entrambe; tutti infatti sino a un certo punto si occupano di indagare su
qualche tesi e di sostenerla, di difendersi e di accusare. Senonché la maggior
parte fa ciò spontaneamente, alcuni invece lo fanno per una pratica che
proviene da una disposizione.
Poiché sono possibili entrambe le cose, è evidente
che è possibile anche in questa materia delineare un metodo; è possibile
infatti ricercare la causa per cui riescono sia coloro che lo fanno per pratica
sia coloro che lo fanno spontaneamente, e tutti concorderanno che questo è il
compito di un'arte." (ret.I, 1, 1354a
tr. it. di A. Plebe)
Il filosofo difende la retorica dall'accusa di inutilità e
di immoralità, sostenendo che
"La retorica
è utile per il fatto che per natura la verità e la giustizia sono più forti del
loro contrario, cosicché se i giudizi non avvengono come si dovrebbe, è
necessariamente perché si è inferiori ad essi. E ciò è degno di biasimo.
Inoltre di fronte ad alcuni uomini, neppure se possedessimo la scienza più
esatta, sarebbe facile persuaderli parlando solo della base di essa [...].
Inoltre bisogna
saper convincere anche di tesi contrarie, come nei sillogismi, non già per fare
indifferentemente entrambe le cose (non bisogna infatti persuadere a cose
cattive), bensì perché non ci sfugga come si pone la questione e come, se un
altro si serve dei discorsi in maniera non giusta, possiamo confutarli. Nessuna
delle altre arti può concludere tesi contrarie, solo la dialettica e la
retorica fanno questo; infatti entrambe si occupano parimenti dei contrari.
Però gli argomenti trattati non hanno lo stesso valore, bensì quelli veri e
migliori sono, in generale, per natura più adatti al sillogismo e più
persuasivi.
Inoltre, se è brutto non sapersi difendere col
corpo, sarebbe assurdo che non fosse brutto non sapersi difendere con la
parola, che è più propria all'uomo che l'uso del corpo. Se pur è vero che chi
si serve ingiustamente di questa facoltà dei discorsi può nuocere grandemente,
però questo fatto è proprio di tutti i beni eccettuata la virtù, e soprattutto
dei più utili, quali la forza, la salute, la ricchezza, la strategia: di essi
chiunque servendosi giustamente potrà giovare moltissimo, e danneggiare
servendosi ingiustamente." (ret.I, 1, 1355 a-b tr. it.
di A. Plebe)
La rivalutazione aristotelica
della retorica va di pari passo con la rivalutazione del buon senso e
dell'opinione comune, in linea con la visione politica del "giusto mezzo", che
tende a comporre nel quadro di una democrazia moderata le contese politiche e
gli antagonismi di classe.
L'esaltazione di Cicerone
Cicerone non si limita a difendere la retorica, ma
la esalta, facendone l'arte più alta, al cui raggiungimento sono finalizzate
tutte le attività e le pratiche culturali.
Egli sottolinea infatti come "solo da una vasta e
ricca cultura umanistica un oratore potrà ricavare, come un artigiano da una rerum silva magna (de orat. III, 93), i materiali pertinenti e sufficienti alla
costruzione di un'orazione"[xvii]
e afferma il carattere umanistico, non tecnico, dell'oratoria:
Positum sit igitur in primis, [...] sine philosophia non posse effici
quem quaerimus eloquentem (orat. 4, 14).
Sia innanzi tutti fermo
questo principio, che senza filosofia non si può avere quell'oratore che noi
ricerchiamo.
Cicerone osserva come, alle origini, retorica e
filosofia non fossero distinte, né fossero distinti il bene dicere e il bene vivere:
il primo è la "conoscenza delle nozioni più elevate" (omnia rerum optimarum cognitio), la seconda ne è l'applicazione
nella vita (iis exercitatio).
Bisognerebbe pertanto ritornare all'originaria unità: la retorica disgiunta
dalla filosofia sfocia nel tecnicismo, la filosofia disgiunta dalla retorica
rischia di diventare inutile.
Platone aveva negato alla retorica uno specifico
campo d'indagine; Aristotele ne aveva fatto "appena un piccolo edificio
utilitario costruito all'ombra di due costruzioni più imponenti, l'analitica e
la dialettica"[xviii];
Cicerone allarga il campo d'indagine e d'azione della retorica, estendendolo a
tutto ciò che concerne l'uomo. La retorica è l'arte umanistica per eccellenza;
l'eloquenza è la somma virtus, e non
può essere disgiunta da onestà e saggezza. Insegnare l'arte retorica a uomini
malvagi non significherebbe farne degli oratori, ma consegnare delle armi ad
esseri privi di ragione.
Vero enim oratori, quae sunt in hominum vita, quandoquidem in ea versatur
oratore atque ea est ei subiecta materies, omnia quaesita, audita, lecta,
disputata, tractata, agitata esse debent. Est enim eloquentia una quaedam de
summis virtutibus; quamquam sunt omnes virtutes aequales et pares, sed tamen
est specie alia magis alia formosa et inlustris, sicut haec vis quae scientiam
complexa rerum sensa mentis et consilia sic verbis explicat, ut eos qui
audiant, quocumque incubuerit, possit impellere; quae quo maior est vis, hoc
est magis probitate iungenda summaque prudentia; quarum virtutum expertibus si
dicendi copiam tradiderimus, non eos quidem oratores effecerimus, sed
furentibus quaedam arma dederimus (de orat.
III, 14).
In verità l'oratore deve
indagare, ascoltare, leggere, discutere, trattare, esaminare tutto ciò che ha
attinenza alla vita degli uomini; perché di una tale vita egli s'interessa e da
essa derivano gli argomenti sui quali egli s'intrattiene. L'eloquenza è una
delle più alte virtù. È vero che tutte le virtù sono eguali e di pari grado:
tuttavia per la sua apparenza una ci può sembrare più bella e illustre di
un'altra. Così avviene di questa facoltà che, abbracciando in sé la scienza
universale, esprime con le parole i sentimenti e i pensieri della nostra anima,
in modo da potere spingere dove vuole gli uditori. Ora, quanto maggiore è tale
forza, tanto più deve essere unita all'onestà e alla più alta saggezza. Infatti
se daremo la bravura oratoria a uomini privi di senso morale, non possiamo dire
di aver fatto degli oratori, ma di avere dato, per dir così, le armi a uomini
privi di ragione (tr. it. di G. Norcio).
Retorica e oratoria escono perciò dalle aule dei
tribunali e dalle assemblee pubbliche e private, per intervenire
"nella fondazione e nella
costruzione della società, nella conservazione e nell'adeguamento delle
istituzioni; inoltre consentono di produrre un'efficace opera di divulgazione,
che consiste nel tradurre nei termini di un discorso generale le acquisizioni
delle discipline speciali."[xix]
Per Aristotele la retorica
era uno
"strumento imperfetto, come
un succedaneo rispetto ai più rigorosi mezzi della logica formale, buono per le
occasioni di divulgazione spicciola e di rapido impiego pratico."[xx]
Con Cicerone, invece, essa diviene