La chiesa di San Domenico

di Fabrizio Fantino


La chiesa con l’annesso convento sorge nell’antica isola di San Domenico, compresa tra la via omonima e via Milano, e rappresenta il più importante monumento gotico della città. La scelta di sistemarsi in questa zona non è certo casuale poiché già in quell’epoca si trattava di una delle aree più popolate della città, in quanto adiacente alla piazza delle Erbe (ora piazza Palazzo di Città) e a piazza San Michele (attuale Porta Palazzo), dove sarebbe sorto il nuovo mercato. La sua edificazione venne avviata intorno al 1257 e si protrasse fino alla metà del Quattrocento: la facciata della chiesa venne infatti realizzata solo nel 1334, mentre il campanile fu innalzato nel 1451. A dispetto della lunghezza dei lavori, la casa dei Domenicani torinesi rappresentò da subito uno dei poli più significativi della cultura torinese del Medioevo: a padre Giovanni da Torino, primo priore del convento adiacente alla chiesa, va il merito di aver posto le basi per una notevole biblioteca, ricordata già in un documento del 16 aprile 1266 con cui il Generale dell’Ordine donava al convento torinese una serie di libri.

Nel corso dei secoli la chiesa ha subito un’ampia serie di interventi e trasformazioni, in particolare nei secoli XVII e XVIII, che hanno conferito all’edificio un aspetto prettamente barocco occultandone la matrice gotica originale: in questa fase furono aperti grandi finestroni nell’abside, vennero cancellati gli affreschi, rinnovate le decorazioni con l’inserimento di decorazioni in cartapesta e sovrastrutture barocche e si rialzò di 60 cm. il pavimento della chiesa per portarlo al livello della strada, coprendo così le basi delle colonne. Nel 1729, inoltre, la chiesa venne letteralmente travolta dal nuovo piano regolatore per la rettifica di via Milano, promosso da Filippo Juvarra, che con estrema disinvoltura stabilì di decurtare l’edificio di ben quattro metri lungo tutta la lunghezza del fianco destro, eliminando così un’intera navata con tutti i suoi arredi e le numerose sepolture che conteneva.

L’attuale aspetto medievale della chiesa si deve a un radicale intervento di restauro stilistico integrativo operato tra il 1906 e il 1909 sotto la direzione di Alfredo d’Andrade e Riccardo Brayda, che sintetizzarono e riproposero i caratteri del repertorio strutturale e decorativo trecentesco piemontese: venne rifatto l’abside, furono ripristinate le colonne interne e le finestre a sesto acuto, gli affreschi superstiti vennero integrati per una lettura più agevole, e soprattutto fu integralmente rifatta la facciata, dove venne creato un rosone al posto della preesistente finestra a oculo e furono aggiunte le ghimberghe e i gli snelli pinnacoli in terracotta, recuperando elementi peculiari dell’architettura religiosa piemontese del Medioevo, come provano ad esempio le facciate di Santa Maria della Scala a Moncalieri e soprattutto quella di Sant’Antonio di Ranverso a Buttigliera Alta.


La facciata della chiesa prima e dopo i restauri di Alfredo d’Andrade e Riccardo Brayda (1906-1909)


Facciata della chiesa di Sant’Antonio di Ranverso a Buttigliera Alta
Alfredo d’Andrade
Alfredo d’Andrade (Lisbona, 1839 - Genova, 1915) è stato un architetto, archeologo e pittore portoghese naturalizzato italiano. Fin da giovane fu particolarmente interessato alla vita intellettuale e alle arti decorative, tanto da iscriversi all’Accademia Ligustica di Belle Arti di Genova, seguendo contemporaneamente i corsi di architettura di Giovanni Battista Resasco. In occasione del suo trasferimento Ginevra per frequentare lo studio di Alexandre Calame, ha modo di conosce artisti e personaggi come Bertea, Avondo e soprattutto Antonio Fontanesi, che avrà su di lui una influenza ancora maggiore di quella di Calame. Tornato a Genova, nel 1861 frequenta i corsi di prospettiva e architettura dell'Accademia Ligustica, intraprende viaggi in Italia e nel Delfinato francese, mentre a Nervi conosce Carlo Pittara.

Nel 1864 si iscrive al corso di anatomia dell'Accademia Ligustica ed entra in contatto con Federico Pastoris, artista e animatore culturale. In estate raggiunge Carlo Pittara a Rivara, luogo di riunione di pittori paesaggistici.

Dopo un breve periodo a Ginevra, nel 1865 si trasferisce definitivamente in Italia, insegnando ornato e dedicandosi al rilievo di edifici storici. Grazie a queste attività, matura una profonda conoscenza degli edifici di Piemonte, Liguria e Valle d'Aosta, dimostrando particolare interesse per quelli del periodo medievale. Diviene Soprintendente alle Belle Arti di Liguria e Piemonte e dirige tutti i restauri di chiese e castelli effettuati sino al 1915 in queste regioni. Il materiale accumulato gli permetterà di curare la realizzazione del Borgo Medievale di Torino, al Parco del Valentino, in seno all'Esposizione generale italiana del 1884: il Borgo costituisce una delle sue opere di maggiore rilievo poiché in essa l'artista ha ricreato un piccolo nucleo urbano medievale partendo proprio dalle esperienze architettoniche che aveva avuto modo di rilevare.
Riccardo Brayda
Riccardo Brayda (Genova, 1846 - Torino, 1911) fu ingegnere, docente universitario, uomo politico, progettista, restauratore, scrittore. Formatosi dapprima a Savona e quindi a Genova, nel 1874 conseguì a Torino la laurea in Ingegneria civile. Nel 1879 iniziò la carriera universitaria quale assistente alla cattedra di Architettura di Angelo Reycend, e proseguì nell'insegnamento fino al 1901, quando preferì dedicarsi alla professione privata e alla collaborazione nell’amministrazione cittadina: fu infatti consigliere comunale, membro del Comitato Direttivo del Museo Civico, della Commissione per la denominazione delle vie e della Commissione conservativa dei Monumenti d'arte e di antichità per la Provincia di Torino, membro del Comitato dell'Esposizione di Torino del 1911, componente del Comitato Piemontese a favore dei danneggiati dal terremoto di Calabria e Sicilia. Nel contempo, Brayda non lasciò l'attività di progettista e realizzò a Torino l'Ospizio di Carità, il Palazzo per l'Esposizione Generale del 1884 e casa Giaccone. Neppure tralasciò gli studi sull’architettura piemontese medievale, con numerose pubblicazioni su monumenti di Torino e della Valle di Susa, dell’eporediese, dell’astigiano. Per il Borgo Medievale, Brayda collaborò alle ricerche e ricognizioni per il repertorio di modelli da riprodurre e fu coordinatore dei lavori di edificazione.
L’interno


Interno di San Domenico
L’interno della chiesa è a pianta basilicale, a tre navate scandite da colonne dai cui capitelli partono i costoloni che formano l’ossatura delle volte a crociera, caratterizzate da un armonico contrasto tra le parti in cotto e le vele bianche. Ogni pilastro è decorato da stemmi che ricordano famiglie nobili e benemeriti torinesi, testimonianza della devozione per questa chiesa nel corso dei secoli. Nella struttura architettonica, così come negli arredi, si alternano elementi gotici e barocchi, ma nella maggior parte dei casi sono questi ultimi le parti più antiche poiché, con l’esclusione della Cappella delle Grazie, la pur suggestiva struttura dell’abside e della navata centrale sono frutto dei rifacimenti in stile di inizio Novecento.

Nella navata sinistra si susseguono quattro altari marmorei di gusto squisitamente barocco. Il primo è intitolato a santa Lucia ed è decorato da una tela di Enrico Reffo (1831-1917) che raffigura le Sante Lucia e Rosa da Lima.


Altare di santa Lucia, con la tela di Enrico Reffo
Il secondo altare, in marmo orientale, è intitolato al Crocifisso ed è sormontato da un’altra opera di Enrico Reffo che raffigura la Crocifissione con i santi Tommaso d’Aquino, Caterina da Siena e Pietro Martire.


Altare del Crocifisso e dei santi domenicani, con la tela di Enrico Reffo
Enrico Reffo
Enrico Reffo (Torino, 1831 - 1917) è stato un importante pittore religioso. Frequentò l’Accademia Albertina di Torino, dove seguì in particolare i corsi di Gaetano Ferri; dopo aver tenuto due piccoli studi a Torino, la direzione del Collegio degli Artigianelli gli concesse uno dei propri locali, che il pittore mantenne fino alla morte, ricambiando l’ospitalità ricevuta tenendo un corso di pittura all’interno del Collegio.

Come artista esordì nel 1857, all’esposizione della Società Promotrice di Belle Arti, con una miniatura intitolata La Addolorata, a cui fecero seguito nel 1858 un San Francesco d'Assisi e nel 1860 una Madonna: negli anni successivi continuò a prendere parti alle mostre della Promotrice pressoché ininterrottamente fino al 1886, alternando ai temi religiosi – che sempre ebbero la prevalenza – qualche soggetto di genere e alcuni ritratti.

I suoi quadri si trovano in moltissime chiese di Torino (da San Filippo Neri a San Dalmazzo, San Giovanni Evangelista i Santi Pietro e Paolo e San Dalmazzo), così come in diverse località della provincia (Santa Maria del Borgo a Vigone, parrocchiale di Volpiano).

Incorniciato nel terzo altare è un affresco con il Ritratto di Amedeo IX di Savoia, riconosciuto come un prezioso lavoro di Antoine de Lonhy: il dipinto fino al 1617 si trovava presso il terzo pilastro, da cui trasferito nella sede attuale quando l’altare venne ristrutturato alla fine del Settecento.


Antoine de Lohny, Ritratto di Amedeo IX di Savoia
Antoine de Lonhy

Antoine de Lonhy (documentato dal 1446 in Borgogna – morto verso il 1490 nel ducato di Savoia) è stato un pittore, miniatore, maestro vetraio e autore di disegni per ricami, a lungo attivo in Piemonte.

Le ricerche menzionate hanno messo in evidenza come la sua formazione pittorica abbia avuto luogo nella Borgogna meridionale attorno al 1440 a contato con i modelli fiamminghi di Jan van Eyck e di Rogier van der Weyden. Lavorò poi per importanti committenti come Nicolas Rolin, cancelliere di Filippo il Buono duca di Borgogna, o come Jean Germain, vescovo di Chalon-sur-Saône. Negli anni Cinquanta del XV secolo, Antoine si trasferì a Tolosa ove realizzò gli affreschi della cappella di Santa Caterina nella chiesa di Notre-Dame de la Dalbade (1454), a cui vanno aggiunte anche opere in miniatura, segnatamente per l'arcivescovo di Tolosa, Bernard de Rosier, oltre che alcune vetrate per la sala grande del palazzo civico (1460).

Nel 1460 lo troviamo attivo anche in Catalogna, dove realizzò la vetrata per il rosone che orna la facciata della chiesa di Santa María del Mar in Barcellona e la pala d'altare per il monastero agostiniano della Domus Dei a Miralles.

Da un atto notarile del 1462 apprendiamo che Antoine si era trasferito nel ducato di Savoia, ad Avigliana, presso Torino, e che cedeva ad un suo fiduciario il credito residuo che vantava per la pala d'altare del monastero agostiniano di Miralles. Non si conosce la circostanza che portò Antoine a lavorare nel ducato di Savoia: è verosimile che sia lui il destinatario di un pagamento disposto a favore di un «maistre Anthoine pintre» per alcuni lavori decorativi eseguiti per Amedeo IX a Chambéry. Per Iolanda di Francia, moglie di Amedeo IX e figlia di Carlo VII, re di Francia, Antoine eseguì una serie di miniature per il trattato Breve dicendorum compendium. Anche le così dette Ore di Saluzzo conservate alla British Library di Londra sono opera di ambiente artistico savoiardo.

Il catalogo delle opere eseguite da Antoine de Lonhy nel suo lungo periodo di permanenza in Piemonte si è andato arricchendo di nuove attribuzioni: oltre alla celebre Trinità (1465-70) conservata al Museo Civico di Arte Antica di Torino, sono oggi attribuite alla sua mano sei piccole tavole con figure di Apostoli (acquistate dallo stesso Museo Civico nel 2000), una tavola con Sant'Anna, la Vergine e il Bambino nel duomo di Torino, l’importante ciclo di affreschi nella chiesa abbaziale di Novalesa e un polittico realizzato per la stessa chiesa, ora conservato nella chiesa parrocchiale.

Il suo stile si caratterizza per sapiente combinazione di impaginazione monumentale delle scene con una attenzione ai dettagli minuti; le sue figure sono spesso vestite con ricchi damaschi dalle pieghe ampie e profonde, mostrano espressioni sognanti e la loro carne è modellata con un’insolita morbidezza e luminosità.

L'influenza di Antoine de Lonhy, artista aggiornato sui raffinati modi stilistici delle Fiandre e misuratosi con le novità artistiche del contesto barcellonese, fu alquanto marcata e condizionò ampiamente le arti figurative piemontesi della seconda metà del XV secolo.

Il quarto altare è dedicato a san Vincenzo Ferrer, il predicatore che avventurò nelle valli valdesi allo scopo di convertire gli ‘eretici’. Padre Torre, esaminatore sinodale dell'Archidiocesi di san Domenico affermò in un suo manoscritto che «l’altare già esisteva nel 1510, che fu rifatto nel 1777 su disegno del Ferrogio» e che con trecento lire offerte dai devoti fu fatto dipingere da Rocco Comamedi un quadro che ritraeva il santo nell'atto di resuscitare una donna.


Altare di san Vincenzo Ferrer
Tra il quarto altare e la porta della sacrestia, infine, è stato trasferito l’affresco con l’Elemosina di sant’Antonino Pierozzi, ultima opera conosciuta del grande pittore Giovanni Martino Spanzotti, dove, a dispetto di un precario stato di conservazione, risulta evidente l’eccezionale qualità della pittura, sia nella resa dei volti dei personaggi (in particolare nelle espressioni dei due fanciulli a cui sant’Antonino sta donando le monete), sia nella restituzione prospettica dello studiolo del santo, dominato dal grande leggio sulla destra dal cui bordo sporgono con mirabile perizia due libri che conferiscono profondità all’intera composizione.


Giovanni Martino Spanzotti, Elemosina di sant’Antonino Pierozzi
Giovanni Martino Spanzotti

Giovanni Martino Spanzotti (Casale Monferrato, ca. 1455 - Chivasso, ante 1528) è stato uno dei principali interpreti del rinnovamento in senso rinascimentale della pittura in Piemonte. Nato a Casale da una famiglia di pittori originari dal territorio di Varese, dovette formarsi in prima istanza nella bottega del padre Pietro. Sembra piuttosto probabile, verso la metà degli anni Settanta, un suo soggiorno a Bologna, dove entrò in contatto con la scuola di Francesco del Cossa, come prova un dipinto giovanile come la Madonna Tucker (Torino, Museo Civico), esemplata su un cartone del maestro ferrarese. L’impronta più significativa della sua arte, tuttavia, risulta in debito verso la cultura pittorica di Milano, particolarmente evidente nel suo capolavoro, il ciclo con le Storie di Cristo in San Bernardino a Ivrea (1485-90 circa), dove nella sua capacità di trattare la luce, nella padronanza degli effetti luministici e nell’attenzione al dato naturalistico per gli aspetti della vita quotidiana emerge l’influenza di Vincenza Foppa, mentre nelle architetture dipinte si avverte la lezione di Bramante e soprattutto di Bramantino.

L’arte di Spanzotti risulta in debito anche verso la pittura fiamminga, ma soprattutto nei confronti dall'arte provenzale, in particolare del maestro di origine borgognona Antoine de Lonhy, stabilitosi dal 1462 in Piemonte, influenza che si rende più marcata con la svolta nordicizzante che ha luogo verso il 1500.

Nella sua bottega si formarono il giovane Giovanni Antonio Bazzi, detto il Sodoma, il chivassese Defendente Ferrari, che fu anche un suo importante collaboratore, e il vercellese Gerolamo Giovenone.
La Cappella delle Grazie

La navata sinistra è chiusa dalla Cappella delle Grazie, che occupa la parte più antica della chiesa. Questo sacello conserva un meraviglioso ciclo pittorico, inspiegabilmente ignorato fino all’inizio del XX secolo, che rappresenta l’unica testimonianza pittorica del Trecento ancora conservata a Torino, da porre intorno al 1350-60. Si tratta dell’opera di un artista anonimo, indicato con il nome convenzionale di Maestro di San Domenico, un pittore verosimilmente lombardo che in cui le influenze padane e francesi si fondono con la cultura giottesca, in particolare legata alle straordinarie novità che dal grande cantiere di Assisi si propagarono ad ampio raggio condizionando lo sviluppo della pittura del Trecento. La linea guizzante che contorna le figure, l’espressività accentuata dei volti, certi arcaismi rilevabili soprattutto nella struttura architettonica dipinta, non sarebbero spiegabili se non alla luce di questo debito culturale.

Nella Cappella delle Grazie viene illustrato l’ideale domenicano della ‘comunità apostolica’: il pittore ha infatti presentato sulle pareti laterali i dodici Apostoli e nelle lunette superiori il Cristo Pantocratore tra i simboli degli Evangelisti, una raffinata Annunciazione sulla parete di fondo (che diede il nome alla cappella fino al 1908), e San Tommaso d’Aquino che presenta a Maria un uomo e due donne, in cui si dovrebbero riconoscere i committenti del ciclo.


La Cappella delle Grazie
Durante l'epoca barocca il vano della cappella fu soppalcato causando ferite e mutilazioni insanabili agli affreschi, la cui conservazione venne seriamente compromessa. A questi ingenti danni fu posto rimedio all’inizio del Novecento, grazie al restauro operato tra il 1907 e il 1911 da Giovanni Vacchetta con criteri integrativi analoghi a quelli seguiti da d’Andrade e Brayda per le strutture architettoniche. Tra le parti maggiormente compromesse era senza dubbio la figura del Cristo Pantocratore, di cui si era conservata solamente la testa e alcuni piccoli particolari dei simboli degli Evangelisti: spetta dunque al pennello del Vacchetta la ricostruzione dell’intera scena, riconoscibile oggi per la maggiore brillantezza della pellicola pittorica rispetto alle parti originali.


La parte originale del Cristo Pantocratore e l’affresco nel suo stato attuale, con le integrazioni di Vacchetta
Al centro della cappella, infine, si trova un dipinto cinquecentesco raffigurante la Madonna col Bambino, detta Madonna della mela per il frutto tenuto in mano dalla Vergine: si tratta di un lavoro anche in questo caso di un maestro anonimo, forse un toscano attivo all’inizio XVI secolo, che esibisce una cultura di ascendenza fiamminga per il modo di raffigurare i volti e per gli accostamenti cromatici particolarmente intensi, soprattutto nelle vesti e nei panneggi dei personaggi.

Questa tavola ha sostituito l’antica immagine della Vergine delle Grazie, dipinto perduto che però un documento ci informa essere stato presente in questa sede fin dal 1381.


Pittore anonimo, Madonna della mela
La Cappella del Rosario

In posizione simmetrica alla Cappella delle Grazie, al fondo della navata destra, si apre la Cappella del Rosario, fastoso esempio di architettura, scultura e pittura barocca. L’aspetto attuale risale al rifacimento realizzato da Luigi Michele Barberis in seguito al devastante incendio divampato nel 1762, che distrusse la cappella ma risparmiò miracolosamente il capolavoro più prezioso che conserva, la Madonna del Rosario del Guercino. L’opera, realizzata nel 1637, raffigura la Vergine seduta su una nube con in Bambino in braccio, nell’atto di porgere il rosario a san Domenico, mentre contemporaneamente il piccolo Gesù compie lo stesso gesto rivolto verso santa Caterina da Siena: il forte effetto scenografico della composizione, oltre che dalla disposizione piramidale dei personaggi principali, è accentuato dal dinamismo vibrante e dai contrasti chiaroscurali, peculiari del linguaggio pittorico del grande artista, facendo della tela una delle testimonianze più alte della pittura barocca all’interno delle chiese torinesi. A completamento di questo capolavoro e in stretto rapporto iconografico, inoltre, sono i quindici pannelli in legno dorato raffiguranti i Misteri del Rosario, intagliati da Stefano Maria Clemente (1719-1794) in sostituzione dei quindici dipinti che il Guercino stesso aveva realizzato per la cappella, ma sciaguratamente venduti nel 1776.


La Madonna del Rosario del Guercino incorniciata dai pannelli lignei di Stefano Maria Clemente
La ricca decorazione della Cappella del Rosario è completata dai quadri laterali: sulla destra un dipinto di Domenico Corvi ispirato da un episodio della peste del 1630 dove il duca Vittorio Amedeo I di Savoia dona un vasetto di olio miracoloso per ungere gli appestati; mentre sulla parete sinistra una tela del pittore Revelli rievoca la vittoria della cristianità contro i musulmani nella battaglia di Lepanto del 1571.
Domenico Corvi

Domenico Corvi (Viterbo, 1721 - Roma, 1803) si formò a Roma con il pittore Francesco Mancini (1679-1758). Dopo una serie di lavori nella città natale e a Palestrina, l’artista iniziò ad ottenere importanti commissioni a Roma, per Palazzo Borghese, Palazzo Doria Pamphili, San Marco il Palazzo dei Conservatori. La nobile famiglia dei Colonna, inoltre, gli ordinò una serie di dipinti a tema medievale, dove, accanto agli scontati riferimenti a Pompeo Batoni e Anton Raphael Mengs, affiorano elementi di sensibilità protoromantica, con atmosfere quasi da romanzo gotico. Nel 1771 affrescò il Trionfo di Apollo in una sala di Villa Borghese, a cui nel 1782 fece seguito un altro celebratissimo affresco raffigurante l’Aurora e i Crepuscoli. Tra il 1774 e il 1778 risale invece la commissione per un importante ciclo di grandi tele destinate all’abbazia svizzera di Soletta.

Il Corvi fece parte dell’Accademia di San Luca fin dal 1756, fu più volte direttore dell’Accademia del nudo in Campidoglio e fu anche un accademico dell’Arcadia.
Bibliografia essenziale

F. Rondolino e R. Brayda, La chiesa di San Domenico in Torino, Torino 1909;
Gli affreschi del ‘300 in San Domenico a Torino. Storia di un restauro, Torino 1986;
B.M. Denoyé Pollone, I «cani del Signore». Chiesa di San Domenico, in Archivi di pietra. Nelle chiese di Torino gli uomini, la storia, le arti, Torino 1988, pp. 127-139;
San Domenico. Chiesa di San Domenico, Torino, Torino 1992;
G. Saroni, Tra la Lombardia e la Francia: pittori e committenti del Trecento in area torinese, in Pittura e miniatura del Trecento in Piemonte, a cura di G. Romano, Torino 1997, pp. 141-171 (in particolare pp. 156-160).