3. La "costituzionalizzazione" dei political criteria
Il considerevole rilievo attribuito ai
parametri politici nell'ambito dell'allargamento concluso nel maggio 2004
(nonché in quelli in preparazione), se forse giustificato alla luce del recente
passato che ha caratterizzato gli ordinamenti costituzionali dei Paesi
coinvolti, ispiratisi a lungo a principi radicalmente diversi da quelli che
uniformavano invece i sistemi dell'Europa occidentale, riflette sicuramente - e
in un certo senso anticipa - anche il peso crescente attribuito a tali aspetti
negli atti istitutivi dell'Unione.
Introdotti
nel Preambolo del Trattato di Maastricht tra i valori dell'Unione
[1],
i criteri politici, in una formulazione analoga a quella enunciata dal Consiglio
di Copenaghen del 1993, sono stati previsti dal Trattato di Amsterdam come
requisito fondamentale per l'adesione e per il godimento dei diritti derivanti
dal Trattato.
L'art. O del Trattato di Maastricht
(ora art. 49) si limitava infatti a prevedere che uno Stato europeo poteva
entrare a far parte dell'Unione inoltrando la domanda al Consiglio, che
deliberava in proposito all'unanimità, previa consultazione della Commissione e
parere conforme del Parlamento europeo, espresso a maggioranza assoluta. Il
Trattato di Amsterdam ha aggiunto invece a quanto disposto dall'art. O che la
domanda di adesione può essere avanzata da ogni Stato europeo «che rispetti i
principi sanciti dall'art. 6, paragrafo 1».
Nel testo dell'art. 6, già art. F,
il Trattato di Amsterdam ha inserito un paragrafo primo che recita: «L'Unione si
fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell'uomo e
delle libertà fondamentali e dello stato di diritto, principi che sono comuni
agli Stati membri», trasformando così quei valori cui, secondo il Preambolo del
Trattato di Maastricht, le parti si "confermavano attaccate" in requisiti
fondamentali sia per l'accesso, sia per la fruizione dei diritti che derivano
dall'appartenenza all'Unione.
Il successivo art. 7, introdotto dal
Trattato di Amsterdam, prevede infatti che l'esistenza di gravi e persistenti
violazioni, in uno Stato membro, dei principi sanciti all'art. 6, par. 1, può
portare alla sospensione di alcuni dei diritti che derivano allo Stato in
questione dall'applicazione del Trattato. Il successivo Trattato di Nizza ha
ulteriormente innovato la disciplina prevedendo che anche solo nel caso in cui
constati il rischio della violazione di uno dei principi di cui all'art. 6, il
Consiglio può rivolgere allo Stato interessato le "appropriate raccomandazioni"
[2].
Le previsioni del Consiglio europeo
di Copenaghen sembrano quindi sostanzialmente anticipare quelle dell'art. 6. I
concetti di democrazia, stato di diritto e rispetto dei diritti umani sono anzi
ripresi alla lettera dal dettato della norma e inducono quindi a sostenere che
la prospettiva dell'allargamento, con l'imposizione dei suoi parametri, abbia in
qualche modo influenzato la stessa evoluzione costituzionale dell'Unione, che si
è trovata a recepire, nei suoi stessi atti istitutivi, quanto aveva inizialmente
imposto ad ordinamenti ad essa esterni.
Il peso dei parametri politici ha trovato
infine un ulteriore riscontro anche nel Trattato Costituzionale europeo (le cui
sorti sono però orami incerte), in cui gli stessi criteri delineati a
Copenaghen, affiancati dalla garanzia del rispetto della dignità umana, della
libertà e dell'eguaglianza, sono enunciati come i "valori dell'Unione" e
previsti da una delle primissime disposizioni (art. I-2) .
[1]
Alcuni riferimenti ai principi divenuti poi oggetto dei political
criteria non erano però mancati, nei documenti comunitari, già in
precedenza all'approvazione dei Trattati sull'Unione. Ampiamente
anticipati dal progetto di Trattato costituzionale comunemente
ricondotto a Spinelli ed approvato dal Parlamento europeo nel 1984 (ma
poi non entrato mai in vigore), tali principi erano infatti menzionati
nel Preambolo dell'Atto Unico. Il testo del Trattato di Maastricht vi
alludeva inoltre implicitamente prevedendo, all'art. F, c. I che
l'Unione « rispetta l'identità nazionale dei suoi Stati membri, i cui
sistemi di governo si fondano sui principi democratici».
[2]
In particolare, l'art. 7 del Trattato di Amsterdam prevede che qualora
il Consiglio, su proposta di un terzo degli Stati membri o della
Commissione e previo parere conforme del Parlamento europeo, deliberando
all'unanimità constati che in uno Stato membro sussista «una violazione
grave e persistente dei principi di cui all'articolo 6, paragrafo 1»,
dopo aver invitato il governo dello Stato membro in questione a
presentare osservazioni, può, «deliberando a maggioranza qualificata,
decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato membro in
questione dall'applicazione del trattato». Il Trattato di Amsterdam ha
altresì modificato l'art. 309 del Trattato sulla Comunità europea,
estendendo anche ai diritti derivanti da tale Trattato la misura
sanzionatoria di cui all'art. 7 TUE in caso di violazione dell'art. 6.
Il successivo Trattato di Nizza, che ha attribuito al Consiglio anche il
potere di constatare l'esistenza di «un evidente rischio di violazione
grave da parte di uno Stato membro di uno o più principi di cui
all'articolo 6, paragrafo 1» e di rivolgere allo Stato in questione le
appropriate raccomandazioni, ha disposto che questo possa avvenire su
proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo
o della Commissione, con deliberazione assunta dalla maggioranza dei
quattro quinti dei suoi membri, previo parere conforme del Parlamento
europeo.